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Lineamenti di Spiritualità Cavalleresca -parte prima- (di Mario Polia).

 

In varie occasioni [ … ] si è affrontato il tema della Cavalleria cristiana e delle Vie Militari tradizionali. Per un’informazione più completa ed articolata, non possiamo esimerci dal rimandare il lettore a quegli studi e a quelle esposizioni in margine alle quali si è anche cercato di offrire una bibliografia, seppur minima, sull’argomento.

In questa sede, rispondendo ad una precisa richiesta, abbiamo tentato principalmente di delineare le qualità etiche del Cavaliere cristiano. Il centro della attenzione non sarà, dunque, rappresentato dal miles Christi medievale — cui pur faremo, ove occorra, necessario e doveroso riferimento — ma dalla Cavalleria stessa, intesa come Istituzione e militia cristiana ed esaminata unicamente nelle sue valenze spirituali.

Ci interessa rispondere alla domanda: «Cavalleria, oggi, è possibile?».

Una Via dello spirito, in quanto tale, si manifesta nel tempo, ma non è vincolata né alla storia né ai costumi — e neppure agli errori degli uomini — ma, proprio in quanto Via, deve poter essere accessibile da ogni punto della storia e deve potersi esprimere nella storia. È inevitabile (ed è persino salutare) che nel processo di trasformazione elementi accessori e forme particolari di manifestazione vadano perdute ed altre forme, consone alle esigenze dei tempi, vengano assunte. Ciò che vive si esprime attraverso la trasformazione mentre una sola cosa resta immutata: la Vita.

Ogni trasformazione conosce una nascita ed una morte le quali, nelle Vie dello spirito, riguardano appunto solo le forme esteriori. Mai l’essenza.

L’essenza della Cavalleria cristiana consiste nel servizio della Fede e della Giustizia. Tale servizio si esplica in due modi: verso Dio nella pietà, nella conoscenza e nella dedizione del proprio essere; verso il prossimo nell’offerta della propria vita in difesa dei deboli, degli oppressi e della Chiesa e nella lotta contro la ingiustizia.

Lo scopo ultimo della Via è la trasformazione del Cavaliere in fedele discepolo del Cristo permettendone la santificazione e la salvezza. Rispetto a questo scopo supremo la milizia terrena è un puro veicolo. In omaggio alla migliore tradizione cavalleresca possiamo affermare che il compimento della Cavalleria non è sulla terra ma nei cieli pur essendo sulla terra il campo di battaglia: «la vita è milizia sulla terra».

L’altro quesito riguarda le forme che una Via militare può assumere in tempo di pace. A questo proposito va detto subito che la dialettica pace-guerra riguarda soltanto le contingenze temporali. La vera «guerra» che il Cavaliere combatte è in spiritualibus, nel suo essere, e consiste nel processo d’ordinamento gerarchico di tutte le potenze dell’essere (fisiche e psichiche) attorno al centro spirituale ridesto in Dio. Occorre che lo spirito, illuminato dall’alto, acquisisca per grazia tale potenza da attrarre a sé tutto l’essere attuando una nuova creazione di cui l’artefice è Dio nell’uomo, e l’opera l’uomo nuovo in Cristo. Questo, e non altro, è lo scopo supremo della Via: non l’azione materiale nel mondo. Questa è parte integrante dei doveri che Cavalleria impone ai milites, ma è solo vano agitarsi e pericolosa usurpazione di potere fino a quando non sia sorretta e legittimata da una chiara visione interiore.

L’azione del Cavaliere nel mondo è espressione di charitas, altrimenti è esecrabile egoismo. O l‘una , o l’altra cosa. Dunque, se non c’è carità, non c’è azione cavalleresca.

Ma quale carità può esistere fuori dell’amore? E quale legittimo amore fuori dell’amore di Dio?

Possiamo pertanto affermare che esiste una Cavalleria Celeste ed una Cavalleria Terrena e che la seconda è riflesso e manifestazione della prima in un rapporto gerarchico di ancella a Signora. Per usare un’immagine evangelica appropriata allo scopo diremo che la Cavalleria Celeste sta sotto il segno di Maria, occupata nelle cose dello spirito; la Cavalleria Terrena sotto il segno di Marta. Essendo per entrambe il Centro il Cristo. O, per usare un’immagine cara all’Islam: la Cavalleria Celeste sta sotto il segno della Grande Guerra santa, quella terrestre sotto il segno della Piccola Guerra santa.

Lo scopo ultimo della Cavalleria non è la guerra, ma la pace: quella del cuore e quella nel mondo. All’atto dell’investitura il rituale saluta il neo-Cavaliere come miles pacificus che, letteralmente tradotto, significa «operatore di pace» d’accordo alla Parola: «beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio. Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur».

Nel mondo la Cavalleria ha il preciso scopo di combattere per la pace: suo compito non è di imporre la Fede, ma di difenderla e di proporla con l’esempio. Il ricorso alle armi, fin dalle origini, fu legittimato solo come triste necessità e solo in difesa del popolo in caso di aggressione o in difesa di chi non può difendersi.

Ci occupiamo qui di principi e di idee pur nella piena coscienza che le azioni, nella storia, si svolsero talvolta contraddicendo i principi . Da parte nostra non solo non abbiamo intenzione di minimizzare gli errori ma, al contrario, riteniamo che la conoscenza degli errori sia un utile esercizio di meditazione ed un indispensabile strumento di conoscenza. D’altro canto, parimenti dissentiamo dalla critica storica di parte per la quale l’errore è usato per invalidare il principio. In tutti i casi, qui non faremo storia ma esporremo principi etici limitandoci a soffermarci sulla formazione spirituale consona alla Via cavalleresca e, soprattutto, ad indicare i possibili errori e gli impedimenti a percorrerla.

Chiediamo scusa al lettore se la penna non sarà stata all’altezza degli argomenti trattati, ma ci riterremo egualmente soddisfatti se avremo potuto dare un breve indirizzo ed offrire un utile tema di meditazione, suscettibile di ben più profondi sviluppi. Non avevamo la pretesa di fare di più.

1. Gli offuscamenti del cuore che impediscono Cavalleria

La qualità più preziosa che contraddistingue il Cavaliere è la limpida trasparenza del cuore. Essa si manifesta attraverso la purezza d’intenti e di espressioni.

Il Cavaliere ha cuore leale dinanzi al suo Signore e dinanzi al mondo. Egli ha imparato la lealtà verso se stesso attraverso la prova, la disciplina, la serena valutazione d’ogni vittoria e d’ogni sconfitta. Cavalleria è sincerità di cuore, nella vita e nella morte. Ma la sincerità è figlia dell’amore e dell’umiltà.

La Parola di Dio è Verità e la conoscenza della Parola permette la misura reale della verità. La valutazione dell’errore nasce dal confronto con la verità, altrimenti ogni limite sarebbe incerto, ogni orizzonte confuso. L’umiltà di cuore consiste essenzialmente nella profonda disponibilità ad imparare dalla Fonte stessa della salvezza e nel confronto leale con chi è più maturo sul sentiero della verità.

I paladini di Re Carlo, i Cavalieri di Artù, restarono per secoli esempi di virtù cavalleresche. Il fatto che essi esistettero o meno è materia di dispute per gli storici. Ciò che realmente importa è che potevano idealmente esistere e, pertanto, secondo una logica tradizionale, dovevano essere cantati dai poeti come esempi imitabili. Come un tempo furono celebrati Achille ed Ettore. Anche San Francesco era solito parlare ai suoi confratelli di Orlando e degli antichi paladini citandoli ad esempio di campioni della Fede.

Ma è umile anche chi è disposto ad apprendere non solo dagli esempi luminosi ma anche dalla vita, dalla storia, dalla natura e dagli altri uomini. Da tutti, fin dalla più impensabile creatura.

Nobiltà è, letteralmente, « non-viltà ». Il cuore nobile è limpido da offuscamenti ed è signore del pensiero e dell’azione.

La fonte del pensiero secondo verità è nel cuore. Non nel cervello, che sta al cuore come pennelli e tavolozza stanno all’artista.

Da un cuore torbido nascono pensieri ingiusti, come fumo da una fiamma impura. Per il Cavaliere il pensiero è limpida, luminosa radianza del cuore che rivela se stessa attraverso la parola e l’agire.

Ciò che offusca il cuore impedisce il Cammino di Cavalleria.

Sette sono le principali cause dell’offuscamento del cuore. Esse sono anche causa delle errate azioni che nascono dalla cecità interiore o dalla distorta visione del cammino militare al Cristo.

L’orgoglio è il primo e maggiore impedimento non solo nella Via cavalleresca, ma nel Cammino di salvezza. Il primo peccato nei Cieli fu compiuto dall’angelo ribelle per orgoglio. Dall’orgoglio fu causata la separazione e la tenebra della sofferenza della privazione di Dio. Michael, «Chi — come — Dio?» offre, in riparazione, il sublime riconoscimento della Regalità e Unicità di Dio. E afferma la sostanziale umiltà della creatura che si umilia dinanzi al suo Creatore e, per ciò, è innalzata al vertice delle gerarchie dei mondi di luce.

Il primo peccato sulla terra fu commesso per orgoglio, e al peccato della creatura, che cede alla tentazione di «diventare come Dio», il Creatore risponde diventando creatura. Soffre e muore come le creature muoiono e soffrono per risorgere come solo la Vita sa risorgere, portando cieli e terra a nuova vita.

Dio si fa umile per salvare l’uomo affinché l’uomo si faccia umile per salire a Dio che «disperde i superbi nei pensieri del loro cuore». «Perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

La tentazione all’orgoglio — ed alla malattia dell’anima che ne deriva, la superbia — è tanto più forte quanto più grande è la forza della persona.

La principale tentazione dei deboli è l’invidia, dei forti l’orgoglio. La Cavalleria cristiana, consiste, sull’esempio del suo Re, essenzialmente nel servizio di carità e «la carità non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode della ingiustizia, ma si compiace della verità …».

La nobiltà interiore ha come contrassegno la magnanimità e la generosità. L’orgoglioso e il superbo inevitabilmente si autolimitano in un cerchio di ferro segnato dal proprio «io».

La nobiltà interiore si fonda sull’amore. L’amore è la sua corona. La generosità il suo splendore. L’umiltà il suo manto regale. L’orgoglio è tendenza compressiva dell’essere che vuole sottomettere a sé pensieri, uomini e cose. Suo segno è la terra, sua legge la forza di gravità, sua dimensione lo spazio, sua prigione il tempo e la morte e l’oblio suo limite ultimo. L’amore, al contrario, è forza espansiva, radiante, ed ha come segno il sole che irraggia luce e vita. Il suo campo d’azione è la terra ma la sua dimensione il cielo. Suo sigillo la verità e l’eternità suo limite ultimo.

L’umiltà, latinamente intesa, è «senso della terra». È percezione esatta e leale dei limiti della natura terrestre della persona umana e, proprio per questo, rende possibile la percezione del divino. L’umiltà fa nascere il rispetto non solo per ciò che è più alto e luminoso e il riconoscimento di Dio, Padre della luce, ma dona anche il salutare rispetto per se stessi in quanto portatori di Dio, pur nell’imperfezione estrema dell’adesione alla Sua immagine. Per questo motivo l’umiltà non è mai abbassamento, non è abiezione ma riconoscimento d’una grandezza spirituale non realizzata ma realizzabile, di una santità non conquistata ma conquistabile, d’un ordine imperfettamente instaurato in sé ma pure instaurabile e per il quale è giusto e bello vivere e morire. Quando si possiede il cosciente riconoscimento d’essere figli di Dio non v’è più spazio per l’abiezione ma per una salda e luminosa fierezza figlia della Parola che ha detto: «ecco, io vi chiamo amici, non servi». Dalla certezza della paternità di Dio e della fratellanza in Cristo nasce il senso di responsabilità di fronte al mistero divino che è in noi.

L’umiltà rende possibile una chiara strategia di lotta: l’artigiano apprende non solo dalla buona riuscita del suo lavoro, ma anche dagli errori commessi. Spesso soprattutto dagli errori. Così il monaco, nel campo dei combattimenti dello spirito.

Così pure il Cavaliere impegnato nel campo dello spirito e del corpo. Il buon guerriero apprende a non inorgoglirsi nella vittoria e a non abbattersi nella sconfitta, ma ad acquisire quella serenità di giudizio che permette di capire perché si è perso e perché si è vinto. Il suo cuore sa anche giudicare quando, pur vincendo, si è restati sconfitti e quando, pur perdendo, si è vinto.

La troppa sicurezza è stupidità ed espone inevitabilmente a imboscate intelligenti e a cocenti disfatte, ma la cauta, prudente umiltà che osa nella piena coscienza dei propri limiti spesso è madre della vittoria. Quando Dio accetta d’esserne Padre. La prudenza è virtù cavalleresca tanto importante quanto il coraggio è inscindibile da esso.

È una vera grazia che alla Cavalleria vissuta nel mondo moderno sia risparmiata almeno la tentazione dell’orgoglio derivante dal prestigio che il Cavaliere un tempo godeva nella scala sociale. Al moderno Cavaliere, al contrario, può succedere d’essere disprezzato se fa professione di Fede come fanatico e anacronistico residuo d’un «oscuro» passato. Ma ciò, quando non sia imputabile ad un comportamento scorretto o non sapiente del Cavaliere, rappresenta piuttosto una benedizione in quanto pone al riparo dalla superbia.

V’è da tener presente, tuttavia, una sottile insidia insita nell’imperfetta coscienza del proprio stato. Questa consiste nel credersi facenti parte del numero dei pochi eletti cui è stato concesso da Dio un particolare favore. Ciò è certamente vero, ma l’orgoglio è subito vanificato se si riflette che la grazia dell’Investitura, e il carisma che ne deriva, pone una tale e tanta serie di doveri e di responsabilità verso Dio e verso il prossimo da esser fonte di meditazione assieme alla chiara percezione che all’onore si accompagna un onere che può essere sopportato solo con l’aiuto di Dio.

L’altra insidia consiste nel credere che la salvezza dell’era presente sia affidata in special modo a coloro ai quali è stato dato di più da Dio. Nulla di più pericolosamente falso: Dio può salvare il mondo anche senza di noi, anzi a volte lo salva nonostante e malgrado l’uomo, ma chiede sempre conto del talento concesso. Dio chiede, innanzitutto ed al disopra di tutto, la salvezza della propria anima.

Nella misura in cui un’anima si desta e fiorisce spande naturalmente attorno a sé i tesori della fioritura. Come gli alberi i fiori a primavera. Come le fonti e le stelle. Come il fuoco e la luce. Senza prima avere, nulla può essere dato.

«A chi non ha sarà dato», purché si abbia la consapevolezza d’essere poveri e l’umiltà di chiedere con fiducia, «ma a chi ha» la presunzione di possedere qualcosa «viene tolto anche quello che ha»: Dio confonde la mente dei superbi.

La Cavalleria è servizio di Dio nel prossimo. Ciò significa semplicemente essere cristiani. Tuttavia il servizio, svolto dal Cavaliere nella Chiesa, è conforme al suo stato e si svolge secondo forme consone ad esso. Il servizio è dono. Null’ altro che dono. Nella gioia di donare è la ricompensa più alta. Nell’umile certezza di donare imperfettamente v’è la garanzia più certa di crescita interiore. Nella consapevolezza d’essere solo un servitore del popolo di Dio v’è la corona della più alta Regalità.

L’Imperatore si proclamava «Servo dei servi di Dio».

Lo stesso faceva, e fa, il Pontefice. E quando un re dona non attende ricompensa sulla terra, né dichiara ad alta voce al Re dei re ciò che ha donato, ma è pago sulla terra del dovere compiuto. Nella fiduciosa certezza che il cuore di Dio tutto vede e tutto ricorda. In questo consiste la regalità di servire in nome di Dio e per questo Cavalleria è professione regale.

La devozione a San Michele Arcangelo, principe delle celesti milizie e antagonista dell’orgoglio diabolico, fu raccomandata nei secoli ai Cavalieri come pratica salutare: «Prìncipe gloriosissimo della milizia celeste, San Michele Arcangelo, difendici nella lotta contro i prìncipi e le potenze che governano questo mondo di tenebre, contro le forze del male nei nostri spiriti… Supplica il Dio della pace che schiacci Satana sotto i nostri piedi …». Così suona l’inizio dell’Esorcismo.

L’avidità è il secondo impedimento al retto compimento della Via. Essa si presenta come attaccamento alle cose del mondo: al proprio corpo, innanzitutto, poi alle proprie opinioni ed abitudini. Dall’attaccamento al corpo deriva la lussuria, la gola, l’avarizia ed un altro male tristissimo: la paura di soffrire e di perdere il corpo. Ma sta scritto: «chi ama la propria vita la perderà». Se si ha paura di perdere qualcosa, tantomeno si è disposti a donarla. Non è Cavaliere — e non è cristiano — chi per paura del martirio rinuncia a professare la propria Fede. Anche se oggi il martirio si presenta sovente sotto la forma non cruenta, ma non meno terribile, dell’incomprensione e dell’emarginazione. L’avidità è madre della paura ma, nello stesso tempo, la paura rafforza l’avidità. Può spezzarsi il circolo solo abituandosi a sentire nella limpida serenità del proprio cielo interiore quei tesori protetti dalle grandi ali del Signore dei quali è detto che non possono essere sottratti né danneggiati. Sviluppando la coscienza di possedere tutto in una dimensione diversa da quella fisica si ridimensiona, gradualmente, la coscienza di possedere solo ciò che può vedersi e toccarsi: «Non confidate nella violenza, non illudetevi nella rapina, alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore».

Una gioia può essere superata solo da una gioia più grande, come la luce d’un lucignolo dal sorgere del sole. Dio promette alla creatura la certezza d’una gioia che disseta senza essere macchiata dallo spettro della sete, che sfama senza dover sentire di nuovo i morsi della fame. L’avidità è fame e sete insaziabile.

Si tratta dunque di gustare di quell’acqua e di quel pane riducendo, con l’aiuto di Dio, il tumulto delle passioni.

Dio parla nel silenzio, purché si sia disposti ad udirlo, ma la sua voce sa essere più forte del tuono.

La «misura» negli antichi poemi e trattati è raccomandata come virtù cavalleresca per eccellenza insieme alla castità, alla prudenza ed alla pazienza. Lo stile di vita del Cavaliere è sobrio ed essenziale. La povertà, intesa come assoluta semplicità di vita e come virtù di sapersi contentare del poco, è la sua preziosa compagna d’avventura. Anche in questo i tempi d’oggi sono più favorevoli dei tempi antichi, infatti essendo oggi la Cavalleria sottratta ad ogni possibile gioco di potere, non rappresenta più la porta d’accesso ad un rango sociale elevato. Essa è stata paradossalmente restituita dalla logica dei tempi — che pur ne hanno decretato il declino storico — alla sua originale ed intatta purezza, scevra da ogni compromesso.

Nel secolo XIII Raimondo Lullo scriveva: « Il Cavaliere vada a cavallo, si tratti di signore e viva in modo splendido in quelle cose nelle quali gli uomini patiscono fatiche e sofferenze».

Oggi si dovrebbe scrivere tutto il contrario: «Il Cavaliere apprenda, come discepolo di Cristo, a condividere fatiche e sofferenze con coloro che le patiscono». Il dovere dell’Ordine di Cavalleria impone a chi ne faccia parte d’essere al fianco degli oppressi, dei bisognosi e di tutti coloro che soffrono, nello spirito e nella carne, l’ingiustizia. Ma, per far ciò, il Cavaliere deve aver conosciuto il dolore, la solitudine e l’abbandono. Come Cristo nell’orto degli ulivi, nel deserto e sulla Croce. Chi non ha mai sofferto non può aiutare chi soffre e si apprende a soffrire solo accettando la prova come segno di elezione da parte di Dio in quanto la Fede va provata nel fuoco. Come l’oro.

Per tale motivo, il Cavaliere, abbandonando l’orgoglio e praticando l’umiltà, si allena ad accettare la sofferenza, la privazione, l’incomprensione e la solitudine che gli permetteranno non solo di forgiare mirabilmente il suo spirito e di rafforzare la sua Fede ma anche di aiutare chi soffre le stesse prove. E se egli avrà potuto provare la gioia dell’amore di Dio, anche solo come un raggio di sole nella tempesta, o come chiara stella in una notte oscura, sarà in grado di comunicare ad altri quella gioia.

Un cuore nobile sa essere magnanimo. Sa commuoversi davanti a chi soffre. È sensibile al punto d’essere compassionevole.

Conosce la gioia d’aprirsi a chi ha bisogno di calore e di ammetterlo a godere del fuoco di cui è ricolmo: può dire al viandante che trema di freddo, come l’antico sapiente greco, «entra, anche qui c’e Dio!».

Il cuore nobile è tale perché ama e, amando, sa donare. Sempre. Comunque. A tutti. La fortezza che non si accompagna alla carità è crudeltà e violenza, ma quando si sposa alla generosità è forza primaverile.

L’avarizia è la lebbra del cuore. Un cristiano avaro è la negazione vivente della Parola del Maestro. Un Cavaliere avaro cessa, con ciò stesso, d’essere Cavaliere poiché contravviene al primo e più alto precetto della Cavalleria: la carità. Del resto chi non sa donare i beni materiali non saprà mai donare la propria vita. Un cuore chiuso alla gioia del dono è un cuore sterile e triste. È un cuore senza Dio.

Là dove Dio dimora l’amore si manifesta. Il nobile cuore non attende di essere richiesto per donare, ma sa prevenire con delicatezza e generosità la domanda del bisognoso. Non umilia chi è povero obbligandolo a far presente la sua povertà poiché in ogni povero c’è Cristo pellegrino nel mondo.

Il rispetto per un Dio in catene obbliga a dare, lodando il Signore che un giorno dirà: «avevo fame e mi avete sfamato, avevo sete e mi avete dissetato, ero nudo e mi avete rivestito».

Un cuore nobile non si vanta di avere donato poiché solo gli ignoranti e i ciechi dello spirito si gloriano del dovere compiuto e se è ignobile vantarsi della carità fatta col povero che l’ha ricevuta è tanto più ignobile vantarsene con se stessi ritenendosi generosi. Dio ha dichiarato il suo ribrezzo per chi si gloria dell’elemosina data.

La nobiltà del cuore non si limita a dare cibo e vestito a chi non ne ha, ma è prodiga anche di altre forme d’amore non meno preziose del vestito e del cibo. Sa colmare la solitudine altrui; sa portare un raggio di sole nella disperazione e un brivido di bellezza nel più desolato squallore.

Sa consigliare. Sa istruire con sapienza e amore e con quel delicato riserbo proprio delle anime grandi, capaci di essere possenti come la montagna e gentili come la rosa.

Sa infondere un soffio della giovinezza perenne dello spirito anche nelle anime che non conoscono virtù d’amore, poiché nobiltà interiore conosce il segreto dell’Amore che tutto trasforma, che tutto fa vivere. Quell’Amore di cui il Salmista cantò: «Infondi il tuo soffio e le cose saranno create» e la faccia del mondo sarà rinnovata.

La terza causa dell’offuscamento del cuore è la violenza, temibile figlia dell’orgoglio. Per il Cavaliere la violenza è la porta maestra aperta sull’inferno. Il rituale d’Investitura ammonisce: «non offendere nessuno ingiustamente con questa spada» e soggiunge «ricorda che i santi hanno vinto non con la spada, ma con la Fede».

L’unica violenza ammessa per il Cavaliere è quella che, nell’assidua disciplina, egli esercita sulla propria natura inferiore: sul simbolico drago. Ed è violenza gradita a Dio poiché con essa si conquista il Regno dei Cieli.

La potenza interiore del miles Christi si manifesta come limpida inflessibilità e serena fermezza che non indulge a debolezze ma fa vigile guardia alla soglia del cuore. All’esterno l’esercizio della forza in difesa della Fede non ha legittimato, mai, in nessun tempo, la violenza in quanto questa non si concilia con la carità. La forza che si trasforma in violenza è un talento impiegato male, è opera maledetta e sterile. La forza interiore ed esteriore deve fondarsi sulla Fede ed essere illuminata da essa, deve essere sorretta dalla speranza e manifestarsi nella carità. E la carità si dona, non la si impone con la forza, così come Dio non impone con la forza la conversione e la salvezza.

La Cavalleria coltivò con speciale amore il culto a Maria e la considerò Celeste Dama. La Vergine rappresenta per il Cavaliere in sommo grado l’ideale di pura, totale disponibilità dell’essere al volere di Dio; l’accettazione sublime del proprio destino. Maria è sublime umiltà e, con Maria, il Cavaliere apprese a ripetere «sia fatto di me secondo il tuo volere». Maria è la dolcezza infinita della donna nella sua valenza divina. È l’amore e la dolce maternità non solo per il Figlio suo ma per ognuno che si rivolga a Lei come Madre.

La dolcezza della Vergine tempera la forza del miles, la complementa e la rende matura a fiorire. La rosa che sboccia nel mese di Maria è il fiore emblematico della Cavalleria cristiana ed essa, spesso, nelle raffigurazioni, si accompagna alla spada ad indicare che la forza deve unirsi all’amore ed alla sapienza poiché Maria è infinitamente umile, ma infinitamente potente e sapiente.

Il quarto impedimento è rappresentato dalla tristezza del cuore, generata immancabilmente dalla mancanza di fiducia in Dio. Quando la tristezza diviene disperazione costituisce un peccato contro Io Spirito. Senza speranza in Dio, sulle ginocchia del quale riposa la vita e la morte, non può esservi Cavalleria, poiché non vi è Fede. Chi vive al riparo dell’Altissimo può dire al suo Dio «mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido». E Dio è fedele nell’amore:

«La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;

non temerai i terrori della notte

né la freccia che vola di giorno,

la peste che vola nelle tenebre,

lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

Mille cadranno al tuo fianco

e diecimila alla tua destra;

ma nulla ti potrà colpire…

Poiché tuo rifugio è il Signore

e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora…

Camminerai su aspidi e vipere,

schiaccerai leoni e draghi». (Salmo 90) (segue)