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Lineamenti di Spiritualità Cavalleresca -parte seconda- (di Mario Polia).

 

Scrive Lullo: «La speranza è una virtù che molto conviene all’ufficio del Cavaliere, giacché grazie ad essa ci si ricorda di Dio che concede vittoria per la fiducia che i Cavalieri ripongono nel Suo potere, più che nella loro forza e in quella delle loro armi. Con la speranza si rafforza il coraggio del Cavaliere; con il Suo aiuto i Cavalieri sopportano i loro travagli, si espongono ad ogni pericolo… soffrono fame e sete; e se non vi fosse speranza il Cavaliere non saprebbe usare del suo ufficio».
Quando il pensiero del dopo, del domani, si affaccia alla mente è opportuno affrontarlo con chiarezza, facendo dei piani ed una strategia di massima ma lasciando alla Provvidenza il compito di dirigere il corso degli eventi e al proprio intuito la scelta del da farsi momento per momento. Un’antica massima avvertiva: «non lasciarti prendere dal pensiero del domani o esso ti ucciderà». La metaforica «morte» riguarda la luce del cuore e sopraggiunge per mezzo della paura e dell’angoscia.
Quando il «folle» Cavaliere della Mancha s’imbatte nel Cavaliere degli Specchi — immagine del giudizio puramente razionale basato sui calcoli del rispetto umano e delle convenienze — vede la sua immagine riflessa in quegli specchi. Ne resta folgorato. Riacquista la ragione e muore rinnegando la Via della Cavalleria.
Il nobile cuore sfugge dall’allegria smodata e volgare e dall’abbattimento disperato. Soffre e gioisce in purezza trasformando in lode e canto la felicità ed il dolore. «Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena». (Mt 6,34)
Lo spirito dell’avventura, cantato nella letteratura cavalleresca, consiste nell’affrontare equanimamente le situazioni mano mano che si presentano sul cammino della Santa Cerca.
Avventura è contraria alla pianificazione e ai programmi. Segue l’ispirazione del soffio divino e richiede l’indispensabile adattabilità del cuore e di tutto l’essere e la docile obbedienza della mente alla legge d’Amore. Il «non fare programmi» in nessun caso significa prevalenza dell’istinto, o arrangiamento e improvvisazione ma è un’arte difficile che attinge ad una fonte di consapevolezza e di giudizio più profonda della conoscenza puramente mentale. Si tratta di un super-giudizio che istantaneamente decide la strategia adatta e, senza soluzione di continuità, agisce. Nel Parzival v’è un racconto emblematico in tal senso: l’eroe, in sella al suo cavallo, vede nella neve recente delle gocce di sangue lasciate cadere da un’anatra ferita. La sua mente inquadra la situazione per ciò che è: neve e gocce di sangue di un animale ferito. Parallelamente il suo cuore opera, sotto l’influsso dell’amore, l’astrazione simbolica: il candore della neve è come quello del volto di madonna e il rossore del sangue che si soffonde nella neve l’incarnato roseo delle sue gote. La mente s’acqueta e prevale la contemplazione del simbolo. Sopravviene un’estasi dolcissima e nulla più esiste se non il ricordo vivente della donna lontana. L’eroe è sorpreso in quel mentre da un’imboscata. Continuando nella sua estasi, senza rendersi coscientemente conto di ciò che accade, attacca e sbaraglia i suoi avversari. Si avvedrà della vittoria soltanto dopo, ritornando nello stato normale di coscienza e vedendo i suoi attaccanti giacere nella neve.
Quando ci si arrende allo spirito è lo spirito che guida. Così pure, quando ci si arrende a Dio è Dio stesso che prende le redini del cavallo e lo guida per sentieri spesso sconosciuti e imprevedibili.
È vittorioso solamente il forte che sa arrendersi a Dio.
Il quinto ostacolo che il Cavaliere deve superare è la pigrizia e l’inerzia, nemica della vita dello spirito e della salute della mente e del corpo. Nella Cavalleria medievale la disciplina militare aveva il compito di mantenere tutto l’essere nella giusta tensione. Gli antichi manuali per l’istruzione del Cavaliere prescrivevano di praticare il nuoto, il tiro con l’arco, la caccia, la scherma, le giostre e i tornei. Nel mondo d’oggi le vie tradizionali del passato (scherma, tiro con l’arco) sono praticamente perdute. Ciò che resta è tarda rielaborazione delle antiche Arti e pure gli elementi superstiti sono ridotti più o meno a tecniche facenti parte di un gioco in cui l’agonismo ha il posto d’onore e la competizione è la legge suprema.
Un discorso a parte meritano le Arti marziali dell’Oriente, per le quali vale, peraltro, in gran parte la puntualizzazione fatta a proposito di quelle occidentali. A meno che non si abbia la ventura di incontrare un maestro capace d’insegnare l’Arte nella sua valenza spirituale di dò, cioè di Via. Ma ciò, in Occidente, salvo le debite eccezioni, è più raro di quanto si creda.
Ciò nonostante rimangono ancora ampie possibilità per chi voglia vivere il proprio corpo in modo sacro facendo dell’esercizio fisico, intimamente unito ad un preciso orientamento spirituale, una preghiera attiva. La natura resta la migliore palestra e la solitudine dei boschi, dei monti una preziosa compagna.
Molto può riscoprirsi, ad esempio, nell’alpinismo da parte di chi sia veramente animato a trascendere la componente «sportiva», ad abbandonare completamente lo spirito agonistico e a porre seriamente da parte l’autocompiacimento. Salire in montagna rappresenta, in definitiva, il superamento di un ostacolo che è nella persona rispetto al quale la montagna stessa diviene un mezzo di vittoria sull’ostacolo interiore: la pigrizia, il timore.
Allo stesso modo, tuttavia, l’ostacolo esteriore può divenire un efficacissimo mezzo per potenziare l’orgoglio e, quando ciò avviene, l’orientamento spirituale è perduto inevitabilmente di vista. Occorre poi badare che vivere in modo sacro una disciplina non deve creare il comodo alibi di una religiosità di sostituzione, ma resta l’atteggiamento «normale» di una natura religiosa che vive le cose dal loro «centro» e dal proprio «centro». La disciplina fisica dovrebbe essere vissuta come una prova con se stessi in cui lo sfidante è l’angelo e come offerta.
In tal modo acquisirebbe il giusto valore «sacrificale» e potrebbe divenire preghiera attiva.
Il termine «attività fisica», del resto, è improprio e inadatto ad esprimere ciò che si vuole significare: da una prospettiva spirituale non v’è nessuna attività che possa dirsi unicamente «fisica», come non ve n’è nessuna cui si adatti in assoluto il termine «spirituale», se con ciò si vuole escludere la mente e il corpo. La creatura umana è un’unità armonica di cielo e terra. Spezzare quest’unità è causa di pericolose deviazioni.
La Cavalleria si propone come veicolo di armonizzazione dei due aspetti della natura umana, gerarchicamente ordinati. È certo, comunque, che la Via della Cavalleria va seguita anche col corpo in quanto non è Via esclusivamente contemplativa.
Il sesto impedimento della Via è la slealtà, la falsità e la menzogna. Nella spiritualità cavalleresca di tutti i tempi non v’è virtù maggiormente lodata della lealtà assieme al coraggio e alla purezza. La menzogna non si addice alla nobiltà del cuore.
Ulisse, pur nella sua grandezza d’animo, non sarebbe potuto servire d’esempio ad un Cavaliere cristiano. E neppure, del resto, ad un sapiente della Grecia arcaica.
La spada è l’arma cavalleresca perché richiede d’essere impugnata da un nobile cuore: con essa si colpisce da vicino. È arma nobile perché leale. Orlando a Roncisvalle, colpito dalle fionde dei Mori, esclama: «Sia maledetto il vile che inventò armi che uccidono a distanza!». La balestra fu considerata arma vile e disonorevole perché capace di trapassare le armature, che pure reggevano ai colpi di spada e agli archi. Una bolla papale ne bandì l’uso per due secoli. L’avvento della polvere da sparo segnò definitivamente il declino delle virtù cavalleresche in Occidente. Eppure dopo secoli che archibugi e cannoni tuonavano sui campi di battaglia, e solo quattordici anni prima della rivoluzione francese, un prototipo di «organo militare», che sparava in rapida successione ventiquattro proiettili (antenato della mitragliatrice) fu presentato a Luigi XVI dall’ingegnere Du Perron. Il re e suoi ministri — Malesherbes e Turgot — rifiutarono di omologare il progetto considerando la macchina bellica iniqua e il suo inventore nemico del genere umano.
Spada; pugnale; mazza o martello d’arme e lancia erano le armi offensive del Cavaliere medievale. Per i non milites l’arma propria era l’arco. La lancia simboleggiava la verità, che è dritta e non può essere piegata. In un sonetto l’Inghilfredi, poeta fiorito sotto gli Svevi, canta:

«La mia fede è più casta
e più diritta ch’asta».

Il concetto di fedeltà cavalleresca appare come luminosa sintesi cristiana delle virtù ancestrali delle stirpi che formarono l’Europa: Yaretè greca, la Treue germanica, la fides romana.
Fedeltà è cristallina aderenza a ciò che si crede. Il concetto di leale servizio è tutt’uno con la fedeltà che si rivolge al Signore che è nei cieli, al signore che è sulla terra (quando il Cavaliere è al suo servizio), alla parola data e al popolo cristiano.
La fedeltà al Signore Dio si manifesta mediante il compimento del cammino cristiano e la fedeltà al proprio stato di miles Christi, fino all’estremo sacrificio della propria vita. Ogni altra applicazione del concetto di fedeltà discende da quella prima e più grande fedeltà.
La lealtà verso se stessi è virtù nemica dell’orgoglio e rientra nel concetto di «misura» tanto caro all’etica cavalleresca.
L’uomo diviene «misura d i tutte le cose» solo quando ha perso la misura di se stesso e di Dio.
La lealtà è la manifestazione dell’umiltà intesa come realistico senso delle cose. La sapienza si accompagna alla misura.
Il disprezzo e l’orrore per ogni compromesso (con la propria coscienza e col mondo) è il risultato della limpida fedeltà al proprio cuore.
Il settimo impedimento e offuscamento del cuore è causato dalla volgarità. Ciò che è volgare è vile: «viltà» è l’esatto contrario etimologico di «nobiltà». La volgarità riguarda soprattutto il sentimento e il pensiero e si manifesta nella parola e nel portamento. «Cortesia e Cavalleria concordano», afferma Lullo, «quindi a questa sono contrarie la villania e le turpi parole». «Cortesia» non è da intendere come convenzione e neppure come norma di comportamento stabilita dalle regole della società, o dalla morale. È molto di più: è manifestazione spontanea di nobiltà interiore. È compostezza nel portamento e nel vestire. Proprietà nel linguaggio che sa manifestare con purezza i sentimenti nella lode come nel biasimo e nel rimprovero.
È riconoscimento dell’intima nobiltà della creatura umana, anche quando nell’altro sia offuscata dall’ignoranza.
È capacità di ritrovare anche dietro il ghigno del malfattore il volto di Cristo schiaffeggiato, vilipeso e grondante sangue.
Cortesia è dolcezza e nulla sa essere tanto dolce quanto la forza che si muove a compassione. La cortesia di cuore è virtù innata, ma va coltivata assiduamente e a ciò serve in special modo la compagnia di persone eccellenti nella nobiltà del sentire. Chi ama accompagnarsi, quando necessità non glielo imponga, alla gente bassa e volgare nel cuore e trova diletto nella loro compagnia, può forse essere un buon soldato ma certo non ha animo di Cavaliere, così come non ha stoffa di Cavaliere chi prova piacere nel disprezzare chi è differente da lui. La nobiltà d’animo sa rivelarsi per ciò che è senza schiacciare ed offendere ingiustamente chi non ha tale nobiltà. Ma, di fronte ai proverbiali «porci», sa occultare nel silenzio le perle del proprio tesoro.
L’arte, la poesia, la musica non solo furono considerate occupazioni non disdicevoli per chi segua Cavalleria, al contrario furono praticate con successo da valorosi Cavalieri che risultarono anche eccellenti trovatori o ispirati scrittori come Wolfram von Eschenbach che fieramente dichiarava nel Parzival: «Cavaliere son io, stirpe di Cavalieri».
La penna può essere usata come lancia e spada a servizio della verità e della giustizia, purché sia mossa dalla Fede. Ma il Cavaliere che sa usare la penna dovrà pregare che Dio lo preservi dalla peste dell’intellettualismo e che gli doni un cuore tanto più profondo quanto più colta sarà la sua mente. Triste Cavalleria quella che s’impaluda nelle discussioni di circoli colti. Ci sono già abbastanza filosofi per questo.
Cortesia è armonia e bellezza ed è venerazione della bellezza dovunque il suo sorriso fiorisca. La manifestazione della bellezza è per il «cuor gentile» esperienza mistica. Cavalcanti canta di una donna:

«Voi che per li occhi mi passaste ‘l core
E destaste la mente che dormìa»

E mentre, attraverso la contemplazione della bellezza il divino rifulge nel cuore, il tumulto degli affetti profani impallidisce. Come l’ ultima falce di luna al levarsi del sole. La figura della «Dama» nella Cavalleria non fu soltanto una convenzione poetica: fu una realtà dello spirito e della pratica cavalleresca e fu possibile solo in quanto la Cavalleria, per lunghi secoli, non fu solo esercizio d’armi ma anche scuola di nobiltà e di bellezza. L’amore profano è tanto lontano dall’amore cantato dal Poeta nella Vita Nova quanto la figura del predone da quella del Cavaliere. E se, talvolta, il Cavaliere potè abbassarsi ad essere predone macchiando così il suo onore e l’Ordine di Cavalleria, ciò è imputabile solo alla debolezza umana ed alla confusione dei tempi per cui, allo stesso modo, in un’epoca non lontana, in cui la Cavalleria languiva, nella nostra terra, nei salotti dell’aristocrazia di blasone, talvolta predoni e briganti potettero offrire splendidi esempi di nobiltà cavalleresca in difesa della Santa Fede. Il Vangelo insegna che uno tra i discepoli che più da vicino avevano seguito il Maestro, Giuda, era ladro nell’anima e che rinnegò il Maestro e perdette se stesso. Ma un ladro riconosciuto tale dalle leggi degli uomini, sul patibolo rivelò d’essere discepolo di Cristo nel cuore. E lo stesso giorno s’assise accanto a Lui i n Paradiso.
La logica degli uomini non sempre segue la logica di Dio e quando il modello è perso di vista e la sua immagine tradita è ragionevole accusare l’incapacità dell’artista piuttosto che la bontà del modello. Specie quando, ispirandosi allo stesso modello, altri artisti hanno prodotto splendidi capolavori. Non condanneremo la Chiesa per l’indegnità di molti tra preti e cristiani. Né la Cavalleria perché tra le aquile che spaziavano nel suo cielo volteggiavano anche molti avvoltoi.
Non è proprio di un cuore gentile fermarsi a rimirare troppo a lungo una carogna gettata ai bordi di un prato fiorito maledicendo primavera. Sebbene il saggio sappia trarre dalla contemplazione profonda dei cadaveri e dei fiori utili insegnamenti.
E non è neppure ragionevole diagnosticare la morte d’un albero antico solo perché il vento autunnale l’ha privato delle ultime foglie e la neve tesse trine di ghiaccio sui rami. L’opera del vento e dell’inverno può essere provvidenziale e distruggere l’opera d’una precedente primavera solo per permettere ad una nuova primavera una nuova, splendida fioritura.
I Racconti del Graal conoscono il tema del declino e della desolazione e l’esprimono attraverso il simbolo dell’Albero Secco e della Terra Desolata, ma affermano anche la certezza d’una primavera novella e d’un radioso rigoglio quando l’Eroe vittorioso avrà compiuta la Cerca. Non solo, ma esprimono anche il motivo di tale desolazione. Nel Parzival il Re del Graal, Anfortas, che aveva come grido di guerra «Amore», indulge all’amore d’una donna dal nome assai significativo di Orgeluse, «Orgogliosa». Per questa sua colpa egli viene ferito con un colpo di lancia nella zona della generazione da un Cavaliere pagano, vendicatore del Graal. Un misterioso veleno di cui il ferro della lancia era intriso procura al Re spasimi atroci. Ma non la morte: ché il Re del Graal non può morire fino a quando un nuovo Re lo succeda al trono. Quando Parsifal porterà a termine la Cerca, Anfortas guarirà e la desolazione del Regno avrà fine.
Il senso morale del racconto è trasparente: quando la Via della Cavalleria si macchia di orgoglio e l’Amore si degrada a bramosia del potere, non solo la valenza spirituale della Via si offusca, ma è altresì impedita allo Spirito la potenza generativa per cui il fine a cui la Cavalleria era stata ordinata è irrimediabilmente perduto. Il risultato è il disordine nel mondo e l’instaurarsi dell’ingiustizia, della decadenza morale, dell’infermità spirituale che produce, come conseguenza, il degrado del mondo espresso dall’allegoria della Terre Gaste.
Se si riflette, inoltre, che il nome dell’Eroe, Parzival – Perceval, è composto sulla radice da cui discende il verbo francese percer, «penetrare» (per cui il nome stesso significa «Penetrante») si coglie appieno il senso del simbolo come di una potenza attiva, di una trasparente vittoriosa virilità dello spirito che si oppone all’importanza del Re vulnerato. Nella figura dell’Eroe restauratore della Regalità sacra il coraggio s’accompagna alla purezza ed alla sapienza indicando, con ciò stesso, il rimedio ad ogni decadenza e sterilità spirituale.

2. La schola: i mezzi della pratica

Se Cavalleria si definisce tale rispetto all’azione nel mondo, in vista della quale il Cavaliere ha ricevuto dall’alto una grazia speciale, è evidente la necessità che l’azione sia sostenuta da una chiara visione interiore dell’Idea per cui si combatte.
Lo scopo supremo della Cavalleria cristiana è la difesa della Fede, ma non può essere difeso ciò che non è conosciuto.
L’amore nasce dalla conoscenza ed è animato da essa. E tanto più grande è la conoscenza della Fede, tanto più grande è l’amore e la disponibilità ad agire per la sua affermazione nella persona e la sua difesa all’esterno.
È certo che nei secoli d’oro della Cavalleria il miles era impegnato molto di più nella schola delle armi che nella conoscenza approfondita della propria Fede. Ma è pur certo che doveva conoscere della Fede quanto bastava a poter giustificare il dono della propria vita per essa. I tempi mutano e la perennità dello spirito, per agire nella storia, sceglie nuove forme di espressione mediante le quali il Verbo è veicolato al mondo.
Oggi non è più possibile restare ignoranti poiché la cultura è stata diffusa a tal punto in tutti gli strati della nostra società che essere ignoranti vuol dire non voler prendere atto delle mutate esigenze della società. Ciò equivale, contemporaneamente, a rinunciare a combattere. Non si può in nessun modo agire all’interno di una società per trasformarla se non se ne conoscono le idee-forza e le intime esigenze. È pur vero che il diffondersi della cultura nella società moderna riguarda in massima parte la cultura profana: a-religiosa o addirittura anti-religiosa ma, proprio per ciò, chi è animato da coscienza religiosa non può non prendere atto seriamente della reale situazione. E ciò equivale, innanzitutto, ad esaminare le cause del declino e della crisi dei valori religiosi ponendo bene in chiaro quali siano le responsabilità e delle forze che compongono il cristianesimo e di quelle che, per vari motivi, lo contrastano. Occorre, cioè, un esame di coscienza chiaro e spietato in cui non è sufficiente ergere a proprio rifugio la «decadenza della Chiesa» perché, se si è cristiani davvero, si è pienamente coscienti di far parte della Chiesa a tal punto di prendersi le proprie responsabilità anche riguardo al suo declino. Occorre, contemporaneamente, prendere atto dei mezzi usati dalle ideologie contrastanti il cristianesimo per condurre la loro battaglia non limitandosi allo studio teorico, ma esaminando con coerente coraggio quali di quei mezzi e come abbiano contribuito a scalfire o corrompere la propria coscienza e la propria formazione cristiana. In tal modo potrà usufruirsi, per la formazione personale, di un utile e vitale confronto. L ‘ invito a non appartenere al mondo, nel Vangelo, è accompagnato dall’esortazione a vivere nel mondo e ad essere come il sale ed il lievito.
Nella formazione del Cavaliere non può, pertanto, mancare lo studio e delle realtà della propria Fede — ignorando le quali ogni confronto sarebbe impossibile — e, contemporaneamente, delle realtà che compongono la cultura della società in cui si è destinati a muoversi. La coraggiosa ed approfondita conoscenza del proprio campo di battaglia qualifica un buon combattente, mentre la fuga dalla realtà — coperta dal pretesto che il mondo è ormai troppo corrotto per poterlo cambiare e troppo corruttore per lasciarsene contaminare — non solo non è propria al Cavaliere, ma rischia inevitabilmente di trasformare la Via in un sentiero senza uscita. Cavalleria non è ripiegamento intimistico sul bel tempo che fu, ma testimonianza attiva della Fede qui ed ora. In pace o in guerra con lo stesso cuore.
La nostalgia è la discreta e inseparabile compagna delle anime grandi; il nostalgismo è malattia di chi non ha il coraggio di preparare il futuro e neppure quello di affrontare il presente.
Un giudizio totalmente pessimistico sulle possibilità spirituali dell’epoca in cui si vive porta o a disinteressarsi della testimonianza o a rinchiudersi in una gloriosa aura di sdegnoso isolamento tanto sterile quanto pericolosa. Inoltre tale giudizio pecca di sfiducia nei confronti di Dio che in ogni età sparge la sua grazia per la salvezza dell’uomo. Dio commisura le prove d’accordo alle capacità delle creature. C’è da chiedersi, da quest’ottica, se il fatto di essere impegnati in una battaglia di testimonianza (e di resistenza) indubbiamente difficile non sia un segno di elezione da parte di Dio e non richieda, pertanto, una conseguente umiltà e senso di responsabilità nei confronti del compito affidato.
La Provvidenza non abbandona la creatura e, pur in mezzo a mille errori, anche fatali, pur attraverso orrori e desolazioni, le mostra il volto del Dio sconosciuto o tradito. Dio non tradisce l’uomo ed è peccato contro lo Spirito sovrapporre il nostro giudizio al Suo Amore che ha amato la creatura a tal punto da sacrificare se stesso per la sua redenzione.
Non sta a noi conoscere i misteri della mente divina e scrutare nelle sue profondità, ma a noi, in quanto seguaci del Maestro, è stato chiesto di prenderci cura della porzione di spazio e di tempo che ci è stata affidata, secondo i talenti di cui siamo stati dotati. E ci è stata chiesta ragione di ogni anima che entra a contatto con noi e che noi aiutiamo ad aprirsi alla luce, o a morire ad essa.
Nel piano salvifico di Dio c’è un posto per ognuno dei suoi figli e quel ruolo è affidato alla responsabilità di ognuno e ad ognuno compete la propria responsabilità. Non quella degli altri, ma quella propria nei confronti degli altri.
Un potente veicolo di crescita spirituale e di affinamento delle facoltà dell’anima è offerto dalla solitudine, intesa come meditazione e ritiro. Il ritiro rappresenta una sosta in cui lo spirito si deterge dalla polvere e dalle scorie nella chiarezza della meditazione e a contatto col fuoco della preghiera. In tempi antichi ciò veniva simbolicamente detto «ripulire la spada». In ogni giorno una pausa, seppur breve, di ritorno alla propria interiorità dovrebbe essere strenuamente difesa come un vero e proprio spazio e tempo sacro. E, durante l’anno liturgico, periodi di ritiro più o meno brevi d’accordo con lo spirito delle principali ricorrenze, fanno parte del normale allenamento di uno spirito che abbia veramente fame e sete di verità. In questi periodi non solo è utile la solitudine fisica della cella o di spazi puri della natura, ma è indispensabile il confronto con una guida spirituale, così come facevano gli antichi Cavalieri recandosi da saggi monaci o uomini di preghiera.
La solitudine prepara ad incontrarsi col mondo. La parola non preceduta dal silenzio è parola vana.
Solitudine e silenzio corrispondono alla tensione dell’arco, prima dello scoccare della freccia, quando il cuore è centro del mondo e il respiro quello del cielo e della terra. Quando il corpo è montagna e sguardo e pensiero luminosa chiarezza senza orizzonti. Come l’arco le potenze dell’anima devono essere sottoposte ad un’armonica tensione che avviene senza sforzo, per azione dello spirito. La freccia che scocca è pensiero, parola, azione che raggiunge il segno.
Nella solitudine l’anima apre le ali ed è possibile udire la voce del proprio cuore. Nella solitudine si combattono grandi battaglie e si ottengono immensi benefici sul sentiero della conoscenza di se stessi. Ma solitudine e silenzio, intesi come virtù interiori e intangibilità del cuore, devono accompagnare l’esperienza di vita d’ogni giorno. Anche quando si è impegnati nel mondo. Anche e soprattutto, quando si agisce poiché «la quiete è la radice del movimento».
La meditazione della Parola e la preghiera fiduciosa sono le armi del combattimento spirituale, il solo che legittimi appieno l’esistenza della Via cavalleresca.
La frequenza ai Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia permettono il virile riconoscimento dei propri limiti ed errori e concedono le grazie necessarie al discernimento ed alla crescita spirituale. Il fedele rapporto con Dio è sempre stato l’asse portante della Cavalleria cristiana improntato alla più totale fiducia:

«II Signore è con me, non ho timore,
che cosa può farmi l’uomo?
Il Signore è con me, è mio aiuto,
sfiderò i miei nemici…
Mi hanno circondato, mi hanno accerchiato,
ma nel nome del Signore li ho sconfitti…
Mia forza e mio aiuto è il Signore». (Salmo 117)

Essere vicino a chi soffre, a chi è oppresso, a chi è solo è il comandamento morale della Via cavalleresca che impone al suo seguace di essere «difensore delle vedove, degli orfani, e di tutti coloro che servono Dio».
Al combattente di Cristo non è dato, come a taluni santi, di contemplare in vita il volto del Signore o della Madre celeste.
Per lui, come per ogni vero figlio di Dio, si ripete quotidianamente il miracolo di vedere l’immagine di Cristo nei suoi poveri: «da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». (Gv 13,35)
«Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me». (Mt 25,35-ss)
Il Cavaliere non solo deve eseguire alla lettera le opere di carità indicate dal Maestro, ma deve compierle anche considerando la valenza metaforica dell’esortazione. Ci sono infatti creature affamate e assetate di verità e di giustizia, che languiscono perché non hanno amore e non vedono la luce. Opera di carità è offrire loro il proprio cuore come coppa ricolma d’amore perché, attraverso l’amore umano, conoscano l’amore divino.
Vi sono forestieri estranei alla misericordia degli uomini e delle leggi, ed altri ancora che non conoscono il Regno: ad essi occorre dare ospitalità nel proprio amore perché spesso il malvagio è solo un uomo a cui è stato negato l’amore, e coloro che disprezzano il Cristo spesso non l’hanno conosciuto per colpa dell’opera dei suoi stessi discepoli.
E vi sono anime nude che hanno perso tutto e tremano di freddo perché non conoscono il sole, perché non hanno una Fede con la quale ripararsi nella tempesta, un amore con cui riscaldarsi il cuore e per cui vivere. Un’infinità di esseri, traditi nell’amore degli uomini, non ha conosciuto l’amore di Dio e segue sentieri di morte.
Vi sono prigionieri dell’ignoranza e dell’errore avvinti dalle loro stesse catene. La società, che possiede una legge per punirne gli errori, non ne possiede una per permettere loro di evitarli. «Visitare i carcerati» consiste, anche e soprattutto, nella capacità di indicare ai prigionieri dell’errore un modo per spezzare le catene, una libertà più alta e bella.
In quest’ora terribile e bella della storia in cui tutto può succedere e tutto dipende da un atto di orgoglio o d’amore: l’apocalisse o la resurrezione, la creatura, offesa nella propria dignità, è simile al Cristo nel pretorio, lacero, coperto di sangue, di lividi e di sputi. Le è stato dato, come a Cristo, un manto di porpora, uno scettro di canna ed una finta corona: insegne di potere su questo mondo. Ma la corona è un serto di spine che stringe il mondo. I popoli mordono il freno. Oscuri fremiti di rivolta, sempre più possenti, scuotono le nazioni e la terra stessa si ribella alla tirannia dei titani che hanno ucciso Dio.
In quest’ora splendida di gloria è altissimo onore seguire il vessillo Santo di Dio e combattere alla sua ombra. È l’ora dell’infamia e dell’eroismo, dei grandi traditori e della più pura fedeltà. Mai come oggi è stata offerta al Cavaliere occasione più bella e avventura più grande: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati… Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli». (Mt 5,6-ss)
Mai come oggi speranza è virtù dei forti e chiarezza nella confusione è forza. Forza è nobile distacco nella promiscuità; sobrietà nel delirio; amore al disopra dello scatenamento delle passioni; bellezza contro degradazione; generosità oltre il meschino cerchio in cui l’egoismo imprigiona le coscienze; capacità di morire nell’imperante ossessione di vivere a tutti i costi; capacità di dare contro la logica del ricevere; capacità di attendere lungamente là dove è norma comune avere tutto e subito; capacità di cantare nel pianto e nella tempesta esclamando col Re-poeta: «Voglio cantare… svegliati, mio cuore, svegliati arpa… voglio svegliare l’aurora!». (Salmo 56)
Mai come oggi fedeltà ha significato abbandono di ogni compromesso e piena accettazione della Croce. Forse solo al tempo dei Martiri, quando ancora non esisteva la Cavalleria cristiana, è stata offerta un’occasione così straordinaria ai discepoli del Cristo.
Ma oggi non è concesso, se non straordinariamente, un martirio glorioso. La storia è maestra di vita e gli avversari del Cristo hanno compreso che ciò che viene perseguitato si rafforza, che il sangue versato è forza di resurrezione. L’Occidente l’ha compreso meglio dell’Oriente per cui ha sostituito al martirio fisico la tecnica dello svilimento, dello snervamento, della asfissia delle potenze spirituali, della segregazione ideologica in un universo in cui, per ideologia, tutto è permesso tranne ciò che si oppone alla menzogna della permissione assoluta.
È l’ora splendida del martirio quotidiano e silenzioso che è, nel senso più pieno, prova e testimonianza.
È l’ora in cui al Cavaliere non è più concesso di provare il proprio valore e di misurare il coraggio in aperti e leali combattimenti: sui campi di battaglia regna la logica del massacro computerizzato, della decimazione programmata, della morte vigliacca. In questa falsa pace sorretta solo dal terrore dell’inevitabile il Cavaliere coglie l’opportunità per combattere con la potenza dello spirito le battaglie della Cavalleria Celeste.
È l’ora del Lupo. Vince chi ha bandito il Lupo dal proprio cuore.
È l’ora dell’inverno e dei ghiacci. Il sole dello spirito è lontano e pallido. Regna sovrana la fredda luce della luna. Tutto è stato previsto. Tutto misurato, tranne ciò che per sua natura non può essere previsto né misurato.
Eppure i ghiacci scricchiolano e s’incrinano e lontana, oltre la notte, s’intravede l’aurora.
È l’ora della Cerca. Beato chi prepara Primavera! Benedetto chi annuncia le vie del Sole!

(segue)