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…E così in terra: “Il Re è la terra” (di Alessandro Scali).

 

Se, come nota il Filosofo, l’uomo è animale sociale, egli preferirà vivere in società. E questa è tale se e in quanto organizza la vita associata e l’ordinata convivenza dei suoi membri. Al fine perciò di garantire una gestione coerente e organica della comunità, la nascente società deve darsi delle regole e definire un principio d’autorità, cui demandare il rispetto delle stesse.

Di fatto, tutte le diverse società del mondo arcaico, organizzate in assetto sia statale che tribale presentano, come aspetto fondamentale del loro status, una forma di governo affidata a un Capo (che qui chiameremo genericamente Rex), quasi sempre affiancato da una figura -o un collegio- in qualche modo relazionati col sacro, esercitanti compiti che spaziano tra liturgia e mantica, intesi come pratiche e servizi messi a disposizione del Rex per il buon andamento dell’intera comunità. Lo scopo è quello di sintonizzare il normale corso della vita comunitaria con una Realtà superiore, invisibile eppure imminente, che si manifesta con segni che vanno interpretati da un personale “specializzato”, affinché il Rex e l’intera compagine sociale accolgano il messaggio integrandolo nel quadro esistenziale.

Chi è il Rex? Il carattere sacro della sua funzione, che solitamente si estende alla sua persona, non è mai messo in dubbio, il suo avvento –per consenso, imposizione o per segni manifesti- essendo espressione dei principî (lex naturae) dettati da quella medesima Realtà misteriosa che regge e governa la Natura e l’intero Universo, principî quasi sempre presidiati da un peculiare racconto antropogonico e/o cosmogonico, costituente il deposito tradizionale. Dunque, nella buona o nella cattiva sorte, egli è sempre proiezione di un Potere superiore, cui soggiace tutto l’ordinato assetto della Natura. Da ciò il carisma che investe persona e ufficio e che perciò promana dalla sua azione, nella quale si realizza l’osmosi tra la gestione ordinaria dei principî e la lettura dei segni di chi lo affianca.

In tale (assai generica) struttura, la sua funzione primaria –giusta i limiti di ciascuno- è quella di reggere -Rex da rego, colui che regge e perciò regola- e rappresentare nella sua persona l’intera società, e a sua volta trasfondere in essa quanto discende dalle sue capacità sostenute dal rapporto con le forze superiori che lo hanno istituito. La qualifica che meglio conviene al Rex si apprezza nel termine latino a u c t o r, da augère, incrementare, crescere e far crescere, per cui egli è autore, cioè colui che dà inizio, promuove, feconda, in quanto ne ha autor/ità e autor/evolezza, con ciò stesso salvaguardando la società dall’ introduzione di novità intossicanti.

Così, grosso modo, nei secoli e millenni.

A s. Pietro che domandava quante volte perdonare chi procura il male, Gesù risponde:”Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”.1

Colpito al cuore, muore il vecchio mondo, sembrando dissolversi la precedente sinergia dei poteri e affermarsi una dicotomia dei ruoli, per effetto del novus ordo. Perché non solo Salomone non può perdonare settanta volte sette, né se lo può permettere la famosa “clemenza di Cesare”, né Traiano

imperatore, la cui anima è salva proprio per aver reso giustizia alla vedova orbata del figlio2: il loro

diadema, il loro carisma si emblematizza nella Giustizia, presupposto indefettibile della “Pax in terra”. Ma

–attenzione- anche nell’era cristiana, nemmeno Carlo Magno3 può, e nemmeno Enrico II il Santo.

La funzione della regalità sembra perciò essere posta in stallo: il regime dell’amore e del perdono è di tessuto più nobile della dura giustizia e, soprattutto, è conforme a quel trascendimento della “legge” che così peculiarmente caratterizza il messaggio cristiano.

E però Settanta volte sette dice SEMPRE. E –Sempre- declina un legibus soluti. E così il genere umano de-genera, perché in tale condizione l’uomo è destinato a precipitare in un abisso di progressiva, mostruosa sub-umanità (gli ‘Orchi’ di Tolkien).

Ma il Medesimo che prescrive le settanta volte è Colui che dinanzi a Pilato, simbolo potere temporale, ammonisce: “Il mio regno non è di questo mondo….” 4.

Qui l’equivoco, e qui ciò che bisogna non solo capire, ma acquisire alla coscienza: l’uso del discernimento, ovvero la capacità di distinguere. Altro è il naturale diritto-dovere di avversare e reprimere chi procura il male (in perfetta continuità e coerenza con quanto da noi stessi esigiamo), altro è rispettare l’autorevole invito alla coscienza personale a non indulgere all’odio, disponendosi SEMPRE (questa la sua valenza) al perdono. In altri termini, una regola di vita interiore a fini spirituali, mentre tutto ciò che appartiene al tempo e alla storia continuerà ad amministrarsi secondo le forme e le leggi tradizionali già in uso. Tale l’unico e pieno significato del “Date a Cesare quel che è di Cesare….” .5

Non è certo un caso se l’equivoco di cui sopra, e il conseguente smarrimento, è fenomeno che riguarda esclusivamente l’Europa e i nostri giorni, dato che tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento compaiono chiare distinzioni dei compiti, cui si aggiungono particolari adempimenti riguardanti, nell’ambito del nostro tema, il rito del conferimento della regalità, a riprova delle conoscenze relate al fine escatologico cui il potere temporale concorre.

In tal senso, chiunque abbia anche vaga conoscenza della Bibbia, ricorderà quanto l’antico popolo ebreo abbia avuto presente il “sacrum” attribuito ai supremi rappresentanti della gerarchia spirituale e temporale: sommi sacerdoti, profeti, re, ai quali era riservato il rito dell’unzione col sacro crisma6. Analogo riconoscimento giunse a Roma, su suggestione orientale, subito dopo la morte di Augusto, avendo questi rifiutato gli onori divini: esso consisteva sostanzialmente in una cerimonia di intronizzazione che prevedeva l’impaludamentum, costituito da un manto di porpora, e l’imposizione di una corona d’alloro7. L’uso di tale simbolo dell’ascendenza divina del potere si tramise nella Spagna visigota e infine venne adottato dalla dinastia carolingia in base a quanto introdotto da

Stefano II e Pipino di Heristal (detto il Breve) 8.

Nella Tradizione occidentale non mancano perciò espressioni, esplicite e implicite che, nel riconoscimento dell’origine divina e della provvidenziale simmetria dei due poteri, testimoniano la pari dignità dei due rappresentanti –pur nella loro diversa missione-: qui riporteremo taluna di queste espressioni di particolare rilievo, pur se il nostro studio si volge a documentare come nel tempo la speculazione di filosofi, Santi e dottori della Chiesa abbia tradotto e canonizzato tale sacralità deducendola proprio dalle Sacre Scritture.

Tra le icone del Vecchio Testamento, in tema di regalità e distinzione dei poteri, particolare valore acquista un episodio che si riferisce al più carismatico dei re della Bibbia: Salomone. Come quel libro ricorda9, a Dio che gli apparve in sogno invitandolo a domandarGli un dono, quel re chiese di fruire della sapienza, per cui gli fu concesso un “…cor sapiens et intelligens in tantum ut nullus ante te similis tui fuerit, nec post te surrecturus sit.”

L’importanza dell’ episodio è tutta nell’osservazione che, in quanto nessuno può superare il Figlio dell’Uomo in sapienza, se a Salomone viene concesso il primato della sapienza ebbene, o la Bibbia (o, al limite, Dio) ha sbagliato, o la sapienza conferita a quel re è da considerarsi suprema in quanto specifica della regalità, così come deduce Dante nel XIII del Paradiso. A quel proposito ebbi a scrivere: “Sottolineare, come Dante fa, che esiste una sapienza specifica di re…. significa affermare in primo luogo che va distinta la sapienza regale da quella sacerdotale, e, in secondo luogo, che la massima qualificazione possibile per un re va riconosciuta a Salomone… ”. Insomma, Salomone è l’archetipo, o meglio, il modello terreno della perfetta regalità, tradizionalmente ben distinto dall’ufficio sacerdotale.

E se in epoca pre-cristiana, così cantava il Salmista: 10 “Chi salirà il monte del Signore, o chi

starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro” (23, 3) per cui Pr. 20, 9 prosegue:

“Chi potrà gloriarsi di avere un cuore casto?, o chi può avere la certezza di essere mondo da ogni

peccato?” , all’inizio dell’era cristiana così sul tema con-sidera Origene : “Penso che il cuore puro e il cuore casto non stiano a indicare altro che colui che possiede un cuore casto e mondo da ogni falsa dottrina. Così credo che abbia mani innocenti e sia mondo da peccati colui che è irreprensibile nelle azioni”. E di seguito: “C’è inoltre da sapere, ai fini della verità, che come è impossibile che abbia mani innocenti e sia esente da peccato uno che non sia anche puro di cuore e mondo da falsa dottrina, allo stesso modo è impossibile che uno sia puro di cuore e libero da errore dottrinario, che non sia anche giusto (i.e.: abbia mani innocenti) ed esente da peccato.”11 Anche qui, la distinzione e complementarietà dei due missi dominici beneficiari di un unico carisma che, nel contatto con le differenti nature (e dotazioni) umane, si specializza con stigmi diversi, al modo stesso come accade tutti i giorni quando lo Spirito visita una natura contemplativa ovvero una attiva: unico è lo Spirito che vivifica virtù diverse.12

Assai particolare, e comunque tale da comprovare la saggezza speculativa presente nella Chiesa, è quanto testimonia -già nel I secolo- papa Clemente I nella sua lettera ai Corinti :”Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza perché noi,… ubbidissimo ad essi….”. In verità, siamo dinanzi a un inno al Logos, ma celebrato sulla terra in forma tale che la glorificazione del Cristo ricada sul suo regale vicario, affinché nella sua figura possa leggersi in trasparenza la Presenza e l’azione (“la… magnifica…forza”) del celeste Sovrano. Nel doppio elogio, il riverbero ontico del Cristo sulla sacralità del Rex, e l’afflato spirituale e potente di un grande pontefice.

Che l’avvento di Gesù Cristo e del Suo messaggio abbia avuto un impatto rivoluzionario su tutto l’antico mondo, non dà luogo a dubbio, e proprio sull’evidenza della rivoluzione introdotta dal Cristianesimo, tra i primi e più efficaci tentativi di dare organica sistemazione al nuovo corso troviamo s. Agostino13, che ‘tanta ala vi stese’ e tanto zelo speculativo profuse. Facendo discendere dal peccato originale due gravi menomazioni (duo poenalia) che vulnerano l’uomo, l’ignorantia come perdita della Conoscenza (recte vidēre) e la difficultas come impedimento nel corretto agire (recte facĕre), egli insegnò che l’asse della salvezza ruotava su due cardini: l’autorità sacerdotale, deputata a compensare l’ignorantia attraverso la meditazione del simbolo e la pastorale, mentre a correggere i costumi, onde prepararli ai fini superiori, era delegato il potere temporale, ambedue istituiti ab aeterno dal Logos come rimedio della vulneratio naturae.

Con il nuovo corso, pertanto, il mondo storico diviene il regno ove si dispiegano gli umani difetti e dove il Rex, attraverso le leggi, deve assumere l’ufficio di correggerli, affinché il messaggio dell’Amore –la negazione dell’io- trovi, nella pratica delle virtù umane custodite dal Rex, aperte le porte che dalla coscienza conducono all’Eterno. Compito sacro, dunque, di cui il Capo assume su di sé responsabilità non solo morale, ad adempiere il quale non può venir meno uno speciale carisma, che trova nella figura di Cristo Re la sua naturale Fonte originaria e causale. La sacralità del fine comporta la sacralità dei mezzi, per cui consacrato è il Rex perché proiezione in terra e vicario del suo Promotore, in tale potere costituito in quanto parte integrante del mistero del male e della salvezza.

Questo lo scenario di fondo che contiene tutti i successivi interventi, con i quali la Chiesa fin dall’inizio ha elaborato con lucidità e saggezza i limiti e il fine della distinzione tra i due poteri, così come appare già dalla formula emanata da papa Gelasio I (V sec.) e riportata nel Decretum Gratiani: “Cristo, memore dell’umana fragilità, quanto alla salvezza dei suoi, con equilibrato e splendido dono in tal modo divise i doveri di ambedue i poteri, con compiti specifici e dignità diverse… che, e i cristiani imperatori avessero bisogno, in funzione della vita eterna, dei pontefici, e i pontefici fruissero degli ordinamenti imperiali per ciò che attiene alle esigenze mondane, affinché la funzione spirituale si tenesse lontana dalle cure mondane, e la milizia di Dio esentata, per quanto possibile, dalle questioni secolari; e alla sua volta non apparisse presiedere agli uffici divini chi fosse

coinvolto nei negozi terreni….” 14

Semplicità e chiarezza: dalla Persona di Gesù Cristo discendono i due massimi poteri terreni, a cui i due preposti, il Papa e l’Imperatore, vengono delegati in qualità di vicarî; medesimo è il fine di ambedue, mentre la rigorosa distinzione è ora in funzione di una maggiore evidenza e purezza della missione spirituale affidata al sacerdozio.15 La regalità è perciò parte integrante -e non dispensabile- del progetto escatologico relativo alla salvezza dell’intera umanità.

Avuto presente che la definizione gelasiana ha fatto norma per l’intero M.E., si sono nel tempo aggiunte altre voci conformi a quel dettato, quando aggiungendo, quando chiarendo la sostanza elaborata nel V sec. In tal senso va assunta la relazione consegnata a Lotario e Ludovico dal concilio dei vescovi tenuto a Parigi nell’829 (Mon. Germ. Hist., s. II, vol II, pag. 610, n. 196):“Perciò apprendiamo dai santi Padri che sostanzialmente l’intero corpo della santa Chiesa di Dio risulta diviso in due eminenti figure, sacerdotale e regale”16, concetto che si replica poco dopo nell’intervento di Giona di Orléans e che marca i rapporti tra i due poteri fino al XII sec., quando viene raccolta e riformulata in termini canonici da Stefano di Tournai (XII sec.): “Nella medesima società due sono i popoli sotto il medesimo re, e in quanto due popoli, due vite, e in quanto due vite due i capi, e in quanto due capi, duplice è l’ordinamento giurisdizionale. Società, cristianità: Cristo è a capo della società: due i popoli e due gli ordini nella cristianità, chierici e laici: due le vite, spirituale e temporale; due referenti, sacerdozio e regalità: doppio ordine di norme, diritto umano e divino. Restituisci a

ciascuno il suo, e tutto torna in armonia”17

La formula di Stefano di Tournai è esplicita e limpida, ma non va dimenticato che viene alcuni secoli dopo il fatto in assoluto più decisivo –e più inopinato- di tutta la storia della Chiesa:

la consacrazione, col sacro crisma vescovile, di Pipino il Breve18 da parte di Stefano II19 (754 d.C.),

atto con cui quel monarca veniva elevato al rango di “Re e Sacerdote”, con un’iniziativa la cui portata e relative conseguenze (sul terreno storico) non erano certo chiare a quel pontefice che, viceversa, era consapevole di ratificare, sul versante ontologico, il riconoscimento naturale e spontaneo dell’origine divina dell’autorità. Di lì a poco (ed ecco la prima conseguenza) un altro pontefice, Leone III, aggiungerà una corona sul capo di Carlo Magno (800 d.C), nelle sue mani rimettendo di fatto il totale potere sulla Terra, e con ciò anche una sorta di patrocinio sull’esistenza storica e sulla gestione temporale della Chiesa.

Ulteriore merito di Stefano di Tournai, aver elaborato la sua definizione equilibrata e serena pur in un momento storico fortemente segnato dalle ‘Lotte per le investiture’, da poco ‘formalmente’ concluse con il Concilio di Worms (1122). Sorprende perciò la chiarezza solare, pur segnata da definizioni secche e perentorie: l’intera Chiesa di Cristo è costituita dalle due polarità (i famosi ‘due cardini’), “sotto il medesimo re… due popoli.. chierici e laici,…. due sono i referenti,…. Cristo è a capo della società”: ciascuno dunque deve riconoscere le sue pertinenze e senza negare che la persona del vescovo è “praestantior”20 (Giona d’Orleans) rispetto a quella regia, in quanto egli deve vigilare anche sul re, della cui anima risponde; epperò non ci sono condominî, ma uffici diversi, definiti dagli specifici carismi: ai fini dell’unità e dell’armonia in terra, redde singula singulis. Il concetto di praestantior, peraltro, Dante restituirà col famoso“Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem…”.21

Sulla medesima materia non poteva mancare l’intervento del più grande teologo della Chiesa, s. Tommaso il quale, sebbene in un periodo in cui la contesa con l’Impero era ancora accesa, non si perita di affermare decisamente che I) i capi politici vengono assegnati da Dio e anzi, “Il re, nel governare il popolo, è ministro di Dio” 22 [i.e.: Vicario]; II) “Per ciò che concerne il bene civile si deve ubbidire piuttosto al potere politico che a quello ecclesiastico, secondo il detto evangelico: rendete a Cesare quel che è di Cesare”23. E a chi oppone il medesimo Tommaso che subito dopo (De reg. Princ. I, 14) afferma:”Al Sommo Sacerdote, successore di Pietro, Vicario di Cristo, al Romano Pontefice, tutti i Re del popolo cristiano devono essere sudditi, come allo stesso Gesù Cristo” va ricordato che la testimonianza del grande teologo ‘non fa una grinza’, ma va intesa “in divinis”, in quanto ci sarebbe solo da ridere se in spiritualibus i re cristiani, invece di far riferimento al papa (cioè alla Chiesa), facessero ‘sponte sua’, dando corso –adesso sì– ad un laicismo usurpatorio (v. Chiesa anglicana); d’altra parte, è proprio questa specificità della delega pontificia che avalla la specificità di quella

regale, pur se i due poteri mostrano punti di tangenza, uno dei quali riconoscibile nei doni

taumaturgici dei re, sovente attribuiti ai Merovingi e storicamente ascritti alla dinastia carolingia, che dimostrano la presenza del medesimo carisma, ovviamente relato allo specifico status di

ciascuno.24

Ancora sul tema significativa appare la studiata testimonianza di Dante che, nel VI del Paradiso onora come imperatore legittimo Giustiniano, presentato come colui che, prima di mettere mano alla riforma della giustizia manifesta, nell’incontro con papa Agapito, la necessità di sintonizzare il “Corpus Juris” con il messaggio cristiano, con ciò riconoscendo il primato dello spirituale sul temporale e, simultaneamente, la specificità dei mandati e degli strumenti.

E a proposito dell’Alighieri, il suo contributo sul tema ha avuto la ventura di sintetizzare e concludere la speculazione e l’esperienza storica dell’intera età medievale, accendendovi luce meridiana e definitiva:” In quanto poi son dei termini di relazione, [cioè papato e impero sono relazioni, e non forme sostanziali] come appar chiaro, si debbono ricondurre o all’uno o all’altro, se uno è subordinato all’altro, o comunicano nella specie per la natura della relazione; o a un terzo cui si riconducano come a comune unità. Ma non può dirsi che uno è subordinato all’altro, perché l’uno sarebbe predicato dell’altro: il che è falso; non diciamo infatti che ‘l’Imperatore è Papa’, né viceversa. Né puo dirsi che comunicano nella specie, perché una cosa è l’ufficio del Papa, un’altra quello dell’Imperatore, in quanto tali; si riconducono dunque ad alcunchè in cui debbono unificarsi… E questo sarà o Dio, in cui ogni aspetto è assolutamente unificato; o in alcuna sostanza inferiore a Dio, in cui il rapporto di superiorità si particolarizzi mediante una differenza di superiorità, lasciando la natura di rapporto semplice. E così appar chiaro che il papa e l’imperatore, in quanto uomini, si debbono ricondurre a una cosa; ma in quanto Papa e Imperatore, a un’altra. E ciò basti quanto alla ragione.” 25

La dimostrazione, esperita esclusivamente sul filo della logica (cioè: “quanto alla ragione”), è perentoria e inesorabile, anche se ci interroga sul mistero di quella “sostanza inferiore a Dio” su cui Dante non è più tornato ma che, con un breve ragionamento, possiamo cercare di chiarire.

Assunto che ambedue i poteri fanno capo al Cristo, ma vengono proiettati in una “sostanza inferiore a Dio”, ecco che dobbiamo riferirci a Melki-Tsedeq, nel cui Ordine si incardina Gesù Cristo26, così da porre la Sua Rivelazione in continuità con la Tradizione Primordiale,27 in quanto Melki-Tsedeq, “figura di Cristo” (s. Paolo), è certamente sostanza inferiore a Dio, ma superiore ai due vicarî, agendo come Fonte della Tradizione e Capo della catena iniziatica.28

Questo il ‘non detto’ di Dante il quale però, in relazione alla sacralità del potere regale, aggiunge una riflessione ineccepibile, destinata a connettere in maniera irreversibile regalità e sacerdozio e, nella fattispecie, Romanesimo e Cristianesimo. Argomenta Dante: “Se il popolo romano non avesse ottenuto l’impero ‘de jure’, ma in forma usurpatoria, il peccato di Adamo non sarebbe stato punito in Cristo, e tutti continueremmo ad essere nell’ira di Dio. Ma questo è falso, così come testimonia l’apostolo Paolo agli Efesini; in forza di ciò bisogna consentire che l’Impero Romano abbia avuto riconoscimento divino. C’è infatti da sapere che, secondo giustizia, la punizione non consiste nella semplice pena inflitta al reo, ma nella pena irrogata da chi legittimamente detiene il potere di punire; ne consegue che se la pena non viene inflitta dal giudice naturale, la punizione è illegale e, pertanto, ingiusta. In tale circostanza si deve convenire che Tiberio Cesare, nella persona di Ponzio Pilato suo vicario, aveva titolo per infliggere la pena, ovvero che a lui e all’Impero Romano veniva riconosciuta piena giurisdizione sull’intera umanità, dal momento che l’intera umanità aveva peccato in Adamo, e ancóra lei veniva riscattata dal sacrificio del Cristo.” 29

Detto ‘in chiaro’ il sacrificio cristico, in quanto consumato nelle forme dello “Jus gentium” romano assume, anche in linea di diritto, la valenza universale e ontologica che gli è propria, con il corollario di alcuni caratteri indelebili: 1)riconoscimento in aeternum dell’Impero Romano come realtà metastorica collaboratrice nel piano della salvezza; 2) affermazione del suo valore ontologico e, perciò stesso, della sua origine in Cristo e, in forza di ciò, 3) l’indispensabile funzione vicariale del potere temporale.

A dirla tutta, con questa breve ma esplosiva speculazione Dante ri-conosce un padre all’umanità, nella persona del vicario di Cristo Re, paternità che, affidata ex stirpe al pius Aeneas perviene, lungo una linea non interrotta dall’avvento dell’Uomo-Dio, fino alla caduta dell’Impero Romano e ripullulante nel medievale Sacro Romano Imperatore, laddove a Cristo Sacerdote si deve la fondazione ex novo di santa Madre Chiesa, cui sarà affidata una peculiare rivelazione.

Quanto qui presentato è parte centesimale della dotazione della Chiesa sulla questione, della quale abbiamo visitato alcune –non irrilevanti- radici. Perciò certamente nessuno si farà meraviglia della perfetta continuità con cui procede sul medesimo tema un altro pontefice, Pio XI che, meno di un secolo fa, mentre ribadisce che il Regno di Cristo è di natura trascendente, ammonisce: “Sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali…” Infatti “…allontanato Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, così che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire.” 30

Sull’onda di quanto sancito dalle più limpide e poderose voci della cristianità, mal si comprendono le ragioni per cui l’odierno atteggiamento vaticano non abbia assunto anzi, abbia smarrito (o abbandonato?), le posizioni non solo proprie della sua preziosa tradizione, ma che in concreto erano di reale vantaggio per la sua missione perché, nel rispetto della sacralità del vicariato temporale, in quello doveva trovare –ovviamente esercitando l’influenza di cui la Chiesa è mandataria- scudo e spada per tutelarsi e assolvere i suoi compiti. Ciò che è venuto meno e tuttora manca, è la continuità nello spirito della Sua Tradizione e, in termini più espliciti, il rifiuto di quel modernismo che fu la spina nel cuore di s. Pio X, da Lui denunciato e addirittura definito

“compendio di tutte le eresie ”. 31

In tali angustie, il senso della nostra visita può andare anche più in là del puro dato raccolto, onde segnalare e sterilizzare certe odierne posizioni e iniziative vaticane che, più o meno involontariamente, vanno a confondere le coscienze più indifese dei fedeli, nel contempo supportando e galvanizzando le cospicue forze avverse: censurata e messa in quarantena la ricca e perspicua dotazione della Chiesa, l’eco da assumere è che a Lei devono rifarsi quanti hanno realmente a cuore i diritti umani e divini, e con ciò la duplice battaglia di s. Bernardo, per non confondere -i.e. discernere- il contenuto dottrinale e perenne della Chiesa con le eventuali derive mondane ed emotive di chi, di volta in volta, ne rileva il governo.

Certo, era proprio questo il mandato del sacerdozio: sceverare il grano dal loglio, impegnandosi nella “ruminatio” e nell’elaborazione ed offerta del simbolo, così da riconoscere almeno il proprio e l’altrui carisma, le proprie e altrui funzioni e i relativi limiti: ufficio di difficoltà estrema, sia chiaro, nel contesto storico, ma proprio per questo affidato ad un Ordine che, se non poteva essere totalmente contemplativo, pure doveva rispondere all’antica formula che lo impegnava “…affinché la funzione spirituale si tenesse lontana dalle cure mondane, e la milizia di Dio esentata, per quanto possibile, dalle questioni secolari; e alla sua volta non apparisse presiedere agli uffici divini chi fosse coinvolto nei negozi terreni….”.

1 Mt., XVIII, 21.

2 Cfr. Dante, Pd. XX, 13-17.

3 Nell’epopea medievale ascritta al suo nome, egli figura come “alter Christus.

4 Gv. XVIII, 36.

5 Mt, XXII, 21.

6 La prima unzione riportata dalla Bibbia è relativa ad Aronne, che la ricevette da Mosè (Lev. VIII, 12; Es. XXIX, 1-9); il primo Re a riceverla fu Saul, cui Elia la impartì su diretto invito divino (I Sam. = I Re- X, 15-16). Il sacramentale era costituito da una mescola di olio di oliva con un balsamo odoroso. Non sarà forse inutile ricordare che i nomi Gesù e Cristo significano ambedue, in due diverse lingue, ‘l’unto’.

7 Il medesimo rituale, ma a fini derisori, che subì nel corso della Sua passione Nostro Signore (ovviamente con la sostituzione dell’alloro con la corona spicea)..

8 Su tali personaggi, V. oltre.

9 I Reg.3, 5-12. [Un cuore così sapiente e profondo, tale che nessuno prima sia stato simile a te, e nessuno lo sarà dopo.]

10Quis ascendet in montem domini, aut quis stabit in loco sancto eius? Innocens manibus et puro corde”. “Quis gloriabitur castun se habere cor?Aut quis confidat mundum se esse a peccatis? E Origene:” Mundum ergo corde et castum corde non alium arbitror esse , nisi eum qui ab omni dogmate falso mundum et castum possidet cor; sic et innocentem manibus et mundum a peccatis eum aestimo esse qui in actibus vitae suae inreprehensibilis est”. Comm. in Mt., ser. 33 GCS 40 A- 61/ 2. Da: Testi sull’Anticristo –III sec. – Nardini – 1992, pgg. 72/73.

11 Sciendum est autem, quoniam, quantum ad veritatem, inpossibile est esse aliquem innocentem manibus et mundus a peccatis, ut non sit purus corde et castus a dogmatibus falsis; sicut e contra inpossibile est mundum quidem et castum esse corde a dogmatibus falsis, ut non sit innocens manibus et mundus a peccatis..“Ibidem. 

12 Analogamente a quanto testimoniato da Paolo iuxta Cor. XII, 4-6 e in conformità ai sette doni dello Spirito Santo.

13 IV-V sec. d.C. Il tema è affrontato nel suo “De Natura et Gratia”. Opera omnia, vol. XVII/2. Città Nuova ed.

14 Christus, memor fragilitatis humanae, quod suorum saluti congrueret, dispensatione magnifica temperavit, sic actionibus propriis dignitatibusque distinctis ufficia potestatis utriusque discrevit…ut et Christiani imperatores pro aeterna vita pontificibus indigerent et pontifices pro temporalium cursu rerum imperialibus dispositionibus uterentur: quatenus spiritualis actio a carnalibus distaret incursibus, et Dei militans minime se negotiis saecularibus implicaret, ac vicissim non ille rebus divinis praesidere videretur, qui esset negotiis saecularibus implicatus;…” (Tract. IV, II)

15 Riporto una profonda intuizione di G. De Giorgio sul tema: “Nel dominio terrestre e umano la legge deve servirsi della forza, e il simbolo e il mezzo della giustizia è la spada che ha due fili, l’uno che colpisce e cade verso l’inferiore, mentre l’altro è volto in alto e incruento, la punta rappresentando l’apice di unificazione del superiore coll’inferiore, l’acme supremo, la morte o la risoluzione. Così, ciò che appare crudele apparentemente non lo è sempre in realtà, e la giustizia che si impone con la forza è spesso il vestibolo necessario alla sfera più alta dell’amore”. La Tradizione Romana. Roma, 1989, pag. 164.

16Principaliter itaque totius sanctae Dei Ecclesiae corpus in duas eximias personas, in sacerdotalem videlicet et regalem, sicut a sanctis patribus divisum esse novimus.“

17 In eadem civitate, sub eodem rege duo populi sunt, et secundum duos populos duae vitae, secundum duas vitas duo principatus, secundum duos principatus duplex jurisditionis ordo procedit. Civitas, ecclesia: civitatis Rex, Christus: duo populi, duo in ecclesia ordines, clericorum et laicorum: duae vitae, spiritualis et carnalis; duo principatus, sacerdotium et regnum: duplex jurisdictio, divinum jus et humanum.Redde singula singulis et conveniunt universa.

18 Insieme a lui, anche i suoi due figli Carlo e Carlomanno. Nella notte di Natale Carlo Magno non venne unto in qualità di Imperatore del Sacro Romano Impero in quanto l’uso imperiale romano non prevedeva l’unzione. Quella in precedenza impartita da Stefano II lo riconosceva come Re legittimo.

19 Citato talvolta come Stefano III in quanto fu preceduto da uno Stefano II che morì 4 giorni dopo la sua elezione, senza però aver ricevuto la consacrazione, per cui la Chiesa cattolica non lo annovera tra i pontefici. La sua difesa della Chiesa dalla grave minaccia longobarda motivò la consacrazione di Pipino, ma la decisione fu del tutto conforme a quanto insegnato da s.Agostino.

20 Trad.: più elevato. Indica una primazia di ordine morale (cioè relativa al mondo umano), non di ordine ontologico.

21 Mon.III, XIII: “Sia l’Imperatore deferente verso il Papa come il figlio verso il padre”.

22 De Reg. Pr. I, 1 c. 8.

23 S.Theol. 2.2, q.10, a 10 e q.60 a 6.

24 Di Clodoveo, capostipite merovingio, non si ricordano guarigioni ma solo il suo miracoloso battesimo; della dinastia carolingia, da Roberto il Pio (998-1031) -su notizia del monaco Helgaud – a Filippo e al figlio Luigi VI (1108) –su notizia di Gilberto abate- documenti storici fededegni attestano il dono taumaturgico, in particolare volto alla guarigione della scrofola.

25 Monarchia, III, XII . (T.d.R.).

26 Gen.XIV, 18-20; Eb. V, 11.

27 Così nella formula sacramentale del rito eucaristico:”…per la nuova ed eterna Alleanza… “.

28 La ‘catena iniziatica’ allude alla modalità della comunicazione della Tradizione che, di consistenza metafisica e perciò incomunicabile, si trasmette -senza soluzione di continuità- esclusivamente in forma personale per diretta influenza spirituale. L’Ordine sacerdotale, con fondamento ontologico in Melki-Tsedeq, è elettivamente chiamato a tale Conoscenza e delegato al suo insegnamento.

29

Mon. II, 12. ( T. d. R.).

30 Enciclica “Quas primas”, 1925, che mai come oggi si fa denuncia della sovversione insita nel ‘principio democratico’.

31 Enciclica “Pascendi Domini gregis”. 1907