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Excerpta da ‘Il Tempio del Cristianesimo’ e da ‘Il cattolico ghibellino’, di Attilio Mordini (a cura della Redazione)

       

 

L’appellativo di «Cavaliere di Dio» che fu attribuito ad Attilio Mordini barone di Selva (1923 – 1966), all’indomani della sua morte, ci sembra tanto opportuno quanto indispensabile per accostarsi con la più giusta prospettiva alla figura di questo grande intellettuale e scrittore fiorentino, nonché uomo d’azione e della Tradizione.

La sua cattolicità vissuta con decisione e coerenza, secondo il più puro spirito paolino della militia super terram, la quale dunque si prospetta piuttosto come una fede virilmente improntata alla lotta ed al sacrificio che non quale un edulcorato ed effeminato buonismo sentimentalistico, presenta infatti un chiaro parallelismo con quell’integrità spirituale caratterizzante l’uomo che nella Cavalleria ha riconosciuto la propria irrinunciabile vocazione e che di essa ha fatto la propria fiera ragion di vita.

Quel che poi aggiunge spessore al Nostro, giustificando peraltro la particolare predilezione che qui desideriamo testimoniargli, è la posizione critica con cui profeticamente coglieva e denunciava l’imminente definitiva secolarizzazione tanto dell’Europa quanto della Chiesa stessa, entrambe ormai vedove dell’Impero. Il tutto sempre presentato con tono di aristocratica dignità, in una ricca veste di intuizioni sapienziali, le quali, folgoranti e profonde, intessono e caratterizzano l’intera sua produzione scritta.

Valenza escatologica quella posseduta, peraltro consapevolmente, da Attilio Mordini. Egli che, terziario francescano, andava preconizzando come la propria morte sarebbe avvenuta nel giorno dedicato al suo più amato Santo. E difatti, puntualmente oltre che prematuramente, essa lo colse il 4 di ottobre del 1966.

Riportiamo qui di seguito, traendole dai saggi ‘Il Tempio del Cristianesimo’ ed ‘Il cattolico ghibellino’, alcune sue riflessioni che, a nostro modo di intendere, rimangono tra le più illuminanti e fondamentali appunto sui temi della Cavalleria e dell’Impero.

Ad maiorem Dei gloriam

 

Da “Il Tempio del Cristianesimo” (Ed. Settecolori, Roma 1979)

Il più squisito senso della Cavalleria il Medioevo lo eredita dai clan dei Celti e dalle Sippe germaniche. E’ quello il senso dell’onore, dell’investitura, il senso della tradizione eroica e del sangue che rende superflua ogni stesura scritta dei patti e delle convenzioni. Ma il senso dell’eroismo e dell’onore delle genti germaniche e celtiche non era stato mai capace, da solo, a dar vita a un vero ordinamento universale, a un Impero che ponesse gli uomini sulla via dell’unità civile e politica; occorreva anche la tradizione delle leggi scritte e del senso oggettivo del diritto che ne consegue. Ed è appunto quello della codificazione delle leggi e del jus il grande apporto di Roma, così che non appena Giulio Cesare, portando le armi romane nelle Gallie, stabilì un rapporto saldo e costante a unire la Tradizione dei Clan e delle Sippe alla Tradizione del diritto, si posero le basi per l’Impero. Il pensiero greco, la legge di Roma e la Tradizione equestre germanica sono dunque le componenti dell’Impero d’occidente, ma la sintesi è possibile soltanto grazie alla Verità del Cristianesimo[…].

Posti il Papato e l’Impero l’uno di fronte all’altro, rispettivamente rappresentati dalla parte guelfa e dalla parte ghibellina, come antitetici, ne conseguì subito un reciproco oscurarsi, poiché a ciascuno dei due veniva meno quel particolare lume per cui l’altro era stato predisposto dalla Provvidenza al governo del mondo. Cadde in eresia l’Imperatore ogniqualvolta pretese di sostituire il Pontefice; e per il mondo ghibellino serpeggiarono le teorie più insidiose. Mentre la gerarchia del clero cadde in quelle miserie di cui le accuse di Dante nella Commedia sono i segni più noti. Se da un lato il Papa, e lui solo assistito dai vescovi, sapeva ben indicare ove fosse il bene ove il male, dall’altro la forza di attuare quel bene sarebbe dovuta scaturire dal potere civile, dal potere sacro dell’Imperatore; ma proprio di questo la Chiesa era ormai vedova[…].

Tali persone veramente umane possono distinguersi in due categorie: da un lato i monaci che vivono nel chiostro lontani dal mondo e senza contaminarsi con quello; dall’altro quelli che, presenti al mondo e nel mondo, vigilano su sé stessi sempre guardandosi dalle insidie dell’attualità e della popolarità. In altre parole, la tirannia dello psicologismo non ha presa sui monaci né sugli spiriti eroici. Sui Cavalieri che sentono la vita come militia. E se nel Medioevo la distinzione tra liberi e servi si presentava come una sapientissima norma civile, oggi, proprio in pieno regime d’uguaglianza politica e sociale, si presenta quasi come un dato ontologico, come una vera categoria dello spirito. Anche l’Apocalisse, prima di mostrarci l’umanità segnata dalla bestia, descrive il trionfo dei segnati dall’Agnello. E’ il trionfo degli eletti, dalla veste bianca e dalla rossa croce di sangue; bianchi crociati di rosso come i Templari. Di costoro è detto che sono sottratti al marchio della bestia, e sulle fronti è il nome dell’Agnello e del Padre (cfr. Apocalisse XIV). Sono i seguaci di Giovanni evangelista: i mistici e i militi che, passato il regno dell’Anticristo, oltre il crollo finale di questa pseudociviltà, ricostruiranno l’ordine nuovo col Cristo imperante. E’ chiaro dunque che combattere in questo mondo e contro questo mondo non significa per forza vincere nel senso più comune di sopraffare, non significa avere la meglio in ogni caso[…].

 

Da ‘Il cattolico ghibellino’ (Ed. Il Settimo Sigillo, Roma 1989)

Se la persona è immagine e somiglianza di Dio, la gerarchia dell’Impero, sapientemente ordinata nel feudalesimo dei migliori (aristocrazia), è immagine e somiglianza dei cori angelici ordinati a Dio; e i cori angelici sono smagliante irradiarsi della verità. All’atto in cui il più forte aderisce alla verità accostandosi alla gerarchia sacerdotale a farsi ungere e a ricevere dottrina e sapienza, si fa veramente legittimo; ed El, il forte, si manifesta su di Jhewhé quale Dio di misericordia e quindi come Dio d’amore, come Gesù. La forza del principe sta alla Sapienza come la materia sta alla forma; e quando materia e forma hanno trovato nel principe la loro unità, il principe è Imperatore, e da lui procede l’autorità di ogni Re e di ogni vassallo […]. L’uomo che sul campo di battaglia ha rischiato fino all’ultimo la propria vita, dimostra di essere distaccato dalla terra del proprio corpo, e quindi di poterlo dominare volgendolo allo spirito; dimostra di essere distaccato dalla terra in cui vive, e quindi di essere persona degna di possedere la terra e di governare popoli, che non sarà mai proprietario interessato, ma principe giusto e fedele[…].

Guelfismo significa soprattutto sconsacrazione del potere e quindi ateismo politico. Dal nazionalismo guelfo della Francia e dall’altrettanto guelfo particolarismo italiano prende le mosse lo stato moderno, dal primo nella sua concezione politica, e dal secondo nella sua concezione economica; concezioni che entrambe dovevano portare inevitabilmente, prima o poi, al materialismo economico e a quello Stato totalitario che del potere aristocratico e gerarchico non è che farsa grottesca[…]. Altro figlio diretto del particolarismo guelfo è il protestantesimo; tanto è vero che si difese e lottò con armi francesi contro l’ancora legittimo Imperatore dei cattolici. Se la Francia non si fosse mai ribellata all’Impero d’Occidente, oggi non si parlerebbe di Riforma se non come di un evento scontato e definitivamente chiuso[…].