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Il Dante politico negli inediti di Augusto del Noce (di Mario Ciampi).

 

Il Dante politico negli inediti di Augusto Del Noce1

di Mario Ciampi

in G.F. LAMI (a cura di), Filosofi cattolici del’900. La tradizione in Augusto Del Noce, Ed. Franco Angeli, Milano 2009, pp. 182-192.

(La Redazione di Regina Equitum ringrazia il Prof. Mario Ciampi per la cortese disponibilità alla pubblicazione del suo presente saggio)

 

  1. Dante e la storiografia del Novecento, tra immanenza e trascendenza

Sappiamo che la presenza di Augusto Del Noce nella storia della critica dantesca deve essere spiegata. Non è per nulla scontato, infatti, che un filosofo che per sua stessa ammissione non fu «dantista, né medievista, né filologo»2, possa dire una parola, forse perfino conclusiva, su Dante e le sue interpretazioni novecentesche. Ma Del Noce sui temi danteschi ha scritto e pensato cose di indubbio valore, che non possono attendere ancora per venire alla luce, tanto ci sembrano rilevanti per la lettura dantesca e per la stessa storiografia filosofico-politica.

Del Noce ci ricorda che la Monarchia, tra le opere classiche della filosofia politica, è sicuramente la più negletta. Un’opera non del tutto compresa, come dimostrano già le prime reazioni che suscitò nel Trecento: basti pensare che venne tolta dall’Indice solo nel 1881, ad opera di Leone XIII che la ascrisse alla scuola del tomismo per liberarla da quelle interpretazioni risorgimentali che ne facevano una sorta di manifesto dell’Italia laicista e del “Regno scomunicato”. Sono proprio queste interpretazioni che Del Noce vuole confutare con il suo Dante politico: per il Nostro, Dante non può essere letto alla luce di quel conflitto tra umanesimo e trascendenza, tra civiltà moderna e cattolicesimo, portato avanti dagli immanentisti. Croce e Gentile, infatti, pur avendo idee molto diverse sul Trattato politico, non potevano evitare di interpretarla a partire dalla loro visione immanentistica, e per questo motivo non compresero appieno il problema di Dante. L’Alighieri veniva fatto oggetto di contesa tra i fautori della fine della trascendenza, che lo vedevano come il profeta di una modernità intesa in senso assiologico, e quanti, invece, ne facevano l’ultimo baluardo del Medioevo e delle sue categorie. Del Noce parte proprio da qui, dalla comprensione del  problema di Dante, consapevole che se si intende bene la conciliazione dantesca tra natura e grazia, anche molti dei problemi interpretativi del Novecento possono essere risolti. E questo spiega anche il motivo per cui Del Noce sceglie di confrontarsi con i temi danteschi.

Il filosofo torinese, fedele al suo metodo, e prima di esprimersi sulla questione dei rapporti tra umanesimo e trascendenza, riscontra all’interno della critica dantesca due possibili interpretazioni «assolutamente non mediabili»: l’interpretazione laico-razionalistica e quella teologico-politica. Secondo la prima, la Monarchia sarebbe sintetizzabile nell’affermazione dell’autonomia del potere temporale dalle pretese ierocratiche del Papato. Ma questa autonomia, per gli interpreti razionalisti, porta all’ammissione di un certo naturalismo, secondo il quale la natura basta ad assicurare la piena saggezza umana e non ha bisogno della grazia, che semmai può estrinsecamente apportare alla natura qualcosa che essa trova già in se stessa. Da queste premesse filosofiche, l’interpretazione laico-razionalistica ricava un rigido separatismo tra ragione e fede, e quindi tra l’ordine spirituale e l’ordine temporale. Se fosse valida questa lettura, sarebbe giustificata l’accusa di eresia che subito dopo l’uscita della Monarchia venne lanciata, tra gli altri, da Guido Vernani da Rimini e dal cardinale Bertrando del Poggetto.

L’altra interpretazione, quella teologico-politica, invece ha come tema centrale quello del remedium contra infirmitatem peccati: l’autonomia dell’Impero si giustificherebbe solo all’interno della teologia del peccato originale e della Redenzione. Sarebbe quindi la lotta contro l’infirmitas peccati a rendere necessaria la distinzione tra la Chiesa e l’Impero. La dipendenza immediata dell’imperatore da Dio non ha nulla del laicismo moderno: in Dante, il Medioevo resiste nella ricerca di una concordia tra il potere temporale e il potere spirituale, attraverso la parallela purificazione di entrambi.

Due interpretazioni nettamente contrapposte e inconciliabili, che Del Noce porta alle loro estreme conseguenze per decidere della verità dell’una o dell’altra. Partiamo dalla seconda. In questo filone, la posizione più estrema è sicuramente quella di Luigi Valli. Nel suo scritto del 19223, l’Aquila e la Croce sono messe sullo stesso piano: l’Impero è necessario per rendere effettiva la Redenzione di Cristo. Tesi eterodossa, quella del Valli, nella quale però sussiste un elemento di verità che Francesco Ercole, uno dei maggiori studiosi della Monarchia, non mancherà di evidenziare: Valli ha ragione quando afferma che l’ideale cristiano non può essere realizzato con le sole virtù teologali, ma necessita delle virtù intellettuali e morali, e di una società che faccia la sua parte al fianco della Chiesa. Sono due i remedia contra infirmitatem peccati. L’errore del Valli, che si spinge verso un’interpretazione gnostica della Monarchia, sta nel distinguere due redenzioni ugualmente necessarie: quella dell’Aquila, che libera l’uomo dall’incapacità di operare secondo il bene (difficultas), e quella della Croce, che, invece, libera l’uomo dall’incapacità di conoscere il vero bene (ignorantia). Del Noce lo cita per sottolineare con forza che l’autonomia, e la stessa necessità dell’Impero, non possono essere comprese senza il peccato e le sue conseguenze. Tanto grave è la necessità del monarca universale, che Dante sente l’urgenza di contestare quella politica ecclesiastica che non la riconosce. Ma questa contestazione, sia chiaro, rimane nei limiti della teologia del peccato originale. Quello dei rapporti tra Chiesa e Impero è, quindi, problema secondario, che non avrebbe senso fuori dal contesto della cupiditas, sulla cui natura Dante non dubita mai, associandola sempre al «lapsus primorum parentum, qui diverticulum fuit totius nostre deviationis»4. Una volta centrato il problema della cupidigia, Dante lo sposta in campo sociale e politico, dove essa si presenta come libido possidendi. Sotto tale veste, corrompe quella «realis et personalis hominis ad hominem proportio» sulla quale si fondavano l’ordine sociale e la giustizia, e impedisce di fatto agli uomini di attuare l’ideale cristiano, compromettendo così la loro stessa salvezza. Di fronte a questo pericolo, si rende necessaria l’istituzione dell’impero, che, nel dirimere le controversie che sorgono fra i regni particolari, rende possibile il compimento del fine che per natura compete alle singole communitates, e cioè il conseguimento della vita felice.

Il ragionamento di Del Noce, fino a questa deduzione, segue l’interpretazione dell’Ercole5, modificandola più nel metodo che nella sostanza degli argomenti: la monarchia universale è necessaria, dato il peccato originale, per ristabilire la pace e la giustizia tra gli Stati e permettere l’adempimento della loro missione naturale. L’insigne dantista si arresta a questo punto e non resiste alla tentazione del “periodizzamento”, pagando pure lui il tributo all’immanentismo; e il suo Dante diventa l’audace promotore di quella filosofia moderna che passando per Marsilio e Machiavelli giungerà fino a Croce e Gentile. Ma quel compromesso ercoliano tra i temi teologici e la fedeltà al criterio idealistico verrà risolto definitivamente dal Nardi e dalla sua marcata interpretazione laico-razionalistica, motivata peraltro dalla sua reazione contro la leggenda del tomismo di Dante. Anche sul Nardi, però, è necessaria una precisazione, che Del Noce non manca di mettere in rilievo: la sua raccolta del 1960 (Dal «Convivio» alla «Commedia») presenta, in effetti, delle novità interpretative che non possono passare inosservate. Ci riferiamo, in particolare, al tema dell’Impero come remedium, che viene messo in nuova luce, tanto da escludere che per Dante si possa parlare di rottura con la trascendenza medievale. Tuttavia, il Nardi, anche nei suoi ultimi scritti danteschi, non abbandona il paradigma averroistico, sebbene considerato nelle sue accezioni più moderate. E Del Noce non riesce a spiegarsi questa convivenza, nell’ultimo Nardi, tra l’appartenenza dantesca alla scuola dell’averroismo e l’idea della natura corrupta e del conseguente remedium imperiale, perché non c’è averroismo che non escluda dai suoi argomenti quelli che vengono dalla rivelazione o dalla teologia, secondo la formula «Nihil ad me de Dei miraculis, cum ego de naturabilis disseram».

Se poi si passa al tema dei rapporti tra Chiesa e Impero, il Nardi sostiene giustamente una cooperazione che si fonda sulla distinzione dei due ordini; «È però da osservare – ribatte Del Noce – che si tratta di una distinzione che non è in alcun modo separazione. Perciò una certa subordinazione, quella di cui si parla nelle righe finali della Monarchia, bisogna pur ammetterla,  per la semplice ragione che il valore della vita eterna è indubbiamente superiore a quello della vita umana nel mondo»6. Qui Dante raggiungerebbe il punto più prossimo al pensiero di San Tommaso, in questa «continuità di aristotelismo e cristianesimo contro la separazione che caratterizza invece l’averroismo»7. E una tale continuità il Nardi la scopre nella Commedia, dove il rapporto tomistico tra ragione e fede viene simboleggiato dall’incontro tra l’umanesimo virgiliano e il profetismo biblico. Per quale motivo, allora, insiste sull’averroismo dantesco? La risposta delnociana ci persuade: il Nardi contesta ai teorici ierocratici l’assimilazione del rapporto Chiesa-Impero a quello anima-corpo, sostenendo correttamente che la beatitudo huius vitae non consiste per Dante nella beatitudine del corpo, se ha la sua norma nei philosophica documenta, e, quindi, nelle virtù morali e intellettuali. Insomma, dal sinolo aristotelico e da una più giusta interpretazione della beatitudine naturale, gli averroisti cristiani ricavavano una spiritualità immanente all’Impero, e, per il Nardi, Dante era uno di loro. Da questa spiritualità dell’Impero, Del Noce muoverà per proporre la sua definizione di laicità, dimostrando, insieme a Gilson e contro Nardi, che non è necessario professare l’averroismo per dichiararsi a favore di una certa religiosità della politica.

Quanto all’averroismo, il Gilson esclude categoricamente che Dante possa averlo accettato, se si pensa che la sua essenza sta nella subordinazione totale della religione alla filosofia. Peraltro, la stessa esclusione vale per l’averroismo latino, perché in nessuna opera dantesca si può trovare un disaccordo tra le assunzioni della filosofia e i dati della rivelazione. La trascendenza divina, nella Monarchia, è una realtà indubitabile e «Nessun artificio interpretativo potrà infatti portare a disconoscere l’esistenza per Dante, di un ordine soprannaturale distinto e valido in sé, e i cui mezzi propri, diretti verso il suo fine proprio, si impongono egualmente a tutti gli uomini, compresi i filosofi»8. Tant’è che la definizione della monarchia universale e della sua autonomia non avrebbe senso se si negasse la trascendenza di Dio. Il valore dantesco del soprannaturale risulta ancora più nitido se si pensa che per Marsilio, al quale qualcuno vorrebbe accostarlo, il fine delle religioni è un fine temporale, quello di mantenere la pace nelle città e di migliorare il comportamento degli uomini. Per il Gilson, tutto lo sforzo di Dante è rivolto alla fondazione di un suo separatismo politico sulla morale di Aristotele9. E questo aristotelismo gli consentirebbe di accettare l’armonia tomistica tra ragione e fede, pur rifiutando, del tomismo, «quel magistero della teologia sulla filosofia che porta con sé inevitabilmente quello della Chiesa sull’Impero»10. Si tratta, condividendo il commento di Del Noce, di un incontro che Dante fa non «con il sistema tomista, ma con lo spirito del tomismo»11, che è comunque un’eredità notevole per il pensiero dantesco.

Fin qui Del Noce è in piena sintonia con Gilson. Subito dopo, però, si sente di andare oltre l’interpretazione gilsoniana12. Del Noce riconosce al filosofo francese «il merito incomparabile […] di avere fissato l’unicità della posizione dantesca»13, a prescindere dalle classificazioni. Ma gli contesta, nel contempo, di aver aperto altri problemi, nei quali «tornano in una forma diversa da quelle che precedentemente avevano assunto, le questioni dell’averroismo e del tomismo»14. L’obiezione delnociana parte da questa domanda dalla quale, a nostro parere, si evince un allontanamento non trascurabile dall’impostazione del Gilson: «Ora, la sua [di Dante] disposizione è essenzialmente etico-politica o etico-religiosa? Cioè la sua passione è per l’autonomia e l’indipendenza dell’impero, o invece, almeno nel suo periodo di piena maturità, l’autonomia dell’impero gli appare come condizione per la purificazione della vita religiosa? Ha inteso combattere l’ideale teocratico, o invece ha inteso raggiungere la sua forma più pura, dissociando teocrazia da ierocrazia?»15. Il Gilson ha battuto la via dell’interpretazione etico-politica, che lo ha condotto ad avallare la tesi dell’attitudine separatistica e ad accettarla come «una specie di forma a priori» di una mentalità dantesca tutta secolaristica e temporale: «Ciò che veramente gli premerebbe, sarebbe il decalco laico della Chiesa nell’idea di Umanità»16. E l’idea dell’armonia degli ordini, che gli ha permesso di escludere l’appartenenza dantesca all’averroismo, «potrebbe venire spiegata come l’artificio escogitato al servizio di quelle idee dell’Umanità e della Pace, che sono il fulcro della sua politica»17.

In sostanza, quello che Del Noce rimprovera al Gilson è di aver dato una lettura dantesca troppo incline agli schemi del separatismo averroistico, accentuando l’aspetto etico-politico a scapito di quello etico-religioso. In altri termini, l’idea gilsoniana del Dante riformatore politico, il cui problema è soltanto quello di fissare funzioni e giurisdizioni, portata alla sua coerenza più rigorosa, non si distingue tanto dalle interpretazioni averroistiche: «E se non si trova, nella lettera dei suoi scritti, alcuna affermazione che lo possa presentare come sostenitore dell’idea del fine temporale delle religioni, di fatto si sarebbe servito della metafisica e della teologia per una costruzione politica e avrebbe vissuto questa tesi, senza poterla affermare (o forse senza neanche pronunciarla a se stesso), perché la possibilità della realizzazione del suo ideale politico gli vietava di pronunciarla»18. Ma, se si nota bene, nella stessa lettura del Gilson ci sono i motivi del suo superamento. Così, quell’autonomia che è assoluta all’interno di ogni ordine, non è però tale per quanto riguarda il rapporto tra gli ordini, tanto che risulta difficile negare una certa subordinazione e una certa gerarchia. Per dimostrarlo, Del Noce riprende un importante passo del Gilson: «Il mondo di Dante ci appare […] come un sistema di rapporti d’autorità e d’obbedienza. La filosofia vi regna sulla ragione, ma la volontà dei filosofi deve obbedienza all’imperatore e la loro fede deve sottomissione al Papa. L’imperatore regna, solo, sulle volontà, ma la sua ragione deve obbedienza al Filosofo e la sua fede al Papa. Il Papa regna senza spartizioni sulle anime, ma la sua ragione deve obbedienza al Filosofo e la sua volontà all’Imperatore. Tutti e tre devono nondimeno obbedienza e fede a Colui dal quale ciascuno di essi deriva direttamente l’autorità suprema che esercita nel proprio ordine: Dio, il Sovrano Imperatore del mondo terreno come del mondo celeste, nell’unità del quale si ricongiungono tutte le diversità»19. Ammesse queste relazioni tra i diversi ordini, il Gilson conclude sostenendo, a fil di logica, l’impossibilità di una reductio ad unum, che, invece, può riguardare il singolo genere. Del Noce non è d’accordo: «Ma se l’intelletto ha per Dante maggior nobiltà della volontà, in quanto ne è la guida, e se la fede ha maggior certezza della ragione, se anzi ci fa vedere le evidenze filosofiche più perfettamente di quel che non ce le mostri la ragione naturale, si potrà disconoscere una certa subalternità indiretta dell’ordine politico?»20. La critica delnociana si fonda, ma questa è solo una nostra congettura, sulla stessa idea di autorità e sulla conseguente attenzione all’individuo, che diventa il punto di partenza del ragionamento, spiegando la differenza con l’analisi oggettiva del Gilson. Per un individuo, in effetti, il problema dei rapporti tra volontà, ragione e fede si pone immancabilmente nel concreto della sua esperienza, e questo è chiaro nella dinamica della decisione umana21: le diversità si ricompongono in Dio, ma anche nella coscienza dell’uomo. Ora, come dice il Gilson, il mondo di Dante ci appare «come un sistema di rapporti d’autorità e d’obbedienza»: ma, tra le autorità, tutte sono degne della stessa obbedienza22? È qui che ci viene in aiuto Del Noce, che trova l’etimologia della parola “autorità” nel verbo latino augere, che significa “far crescere”23. Deve ammettersi, quindi, una diversa capacità delle tre autorità – l’imperatore, il filosofo e il pontefice – a far crescere (l’individuo), in relazione alla maggiore o minore nobiltà (così si esprime Del Noce) dello strumento che adoperano, o del fine a cui sono orientate, o ancora in funzione del livello di perfezione della loro scienza, che è comunque partecipazione della Scientia Dei. Questo ci sembra il senso che Del Noce attribuisce alla comune derivazione dei tre ordini dall’unica Fonte divina. E questa comune derivazione si esprime in una generale filosofia dell’umiltà: «Di più, nessuna delle autorità umane è creatrice. Aristotele è stato umile rispetto alla verità oggettiva, l’imperatore è umile rispetto all’ordine morale, il servo de’ servi conserva umilmente il deposito della Rivelazione. Essi sono tali in quanto rispettano l’ordine stabilito da Dio, che non può venire inteso come volontà arbitraria»24. Nell’obbedienza all’ordine divino, che rende difficile esagerare l’aspetto etico-politico del pensiero dantesco a scapito di quello etico-religioso, sta forse il senso di quella teocrazia pura auspicata da Dante, nella quale «La distinzione […] tra la gerarchia di dignità assolute e la loro autonomia di giurisdizione è meno rigida di quel che il Gilson sembri affermare»25.

2. La laicità sacrale e la politica nel pensiero dantesco

Esiste quindi per Del Noce una differenza tra teocrazia e ierocrazia. Ma l’ideale teocratico, per la politica, significa una caratterizzazione “religiosa” o “sacrale” che non è di immediata comprensione. Sulla sacralità o religiosità della politica, anche il Nardi si era soffermato, parlando di una “spiritualità” immanente all’impero, sulla scorta dell’impostazione averroistica che aveva dato alla sua interpretazione. E Del Noce non può che concordare con il grande dantista, contestandogli, però, l’appartenenza di Dante all’averroismo, seppure latino o cristiano. Si può acconsentire alla religiosità della politica senza essere averroisti, o forse proprio non essendolo: questa è la lezione che ci ha lasciato il filosofo torinese.

Sul significato dell’espressione che Del Noce mutua da Noventa, occorre nondimeno un’attenta precisazione. Si è già escluso che si tratti di una politica totalizzante, sacralizzata a motivo di un intervento esterno o di una filosofia priva del senso della trascendenza divina. E si è detto che il suo presupposto si trova nella conciliazione Dio-mondo, il cui rifiuto apre la strada ai due opposti vizi del clericalismo e del laicismo, che non accettano la distinzione degli ordini perché strutturalmente impostati sulla negazione della continuità tra fenomeno e fondamento. Partendo da queste premesse, quindi, non sarà difficile arrivare ad una definizione di laicità che possa spiegare l’esigenza di una religiosità della politica. A tale scopo, conviene forse prestare attenzione alla figura del Monarca universale, perché non è di certo casuale che Dante faccia ruotare tutta la sua politica intorno a lui. Del Noce ci mette in guardia dal considerarlo come «un automa», come «un sovrano necessitato dall’esterno – si starebbe per dire condannato – alla giustizia»26. In verità, questa idea può venire a chiunque entri in contatto con la Monarchia: come gli altri utopisti, Dante avrebbe trovato il suo piccolo meccanismo capace di rendere il mondo perfetto? Del Noce risponde a questa domanda cruciale, richiamando un importante passo del primo libro: «Sed Monarcha solus est ille qui potest optime esse dispositus ad regendum» (13, 6). Ci sembra una posizione molto realistica, che smentisce le eventuali accuse di utopismo: «senza la monarchia universale il dominio della cupidigia è del tutto inevitabile; soltanto con questa monarchia è possibile un mondo ordinato secondo giustizia, anche se manchi una garanzia assoluta che esso si realizzi, pur in questa condizione»27. In altri termini, la migliore condizione per essere giusto non toglie la libertà di non esserlo. Inoltre, la definizione di cupiditas non esprime solo l’assenza di bramosie, ma tutto ciò che si oppone alla carità, che, più della giustizia, è il suo vero opposto28: «cupiditas namque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis»29. Qui sta il punto: non è per nulla scontato che l’imperatore possa incarnare questa carità. E Del Noce può dire: «Lungi da essere un Leviatano accettato perché garantisce la pace, il monarca è colui per cui il singolo uomo è oggetto di amore; i termini di pace, giustizia e amore si trovano in Dante uniti»30. Si noti che in questa carità, nella quale c’è già la sintesi della sacralità della politica, si realizza la coincidenza armonica tra l’amore di Dio e l’attenzione all’umano, che, nel caso del monarca universale, deve portare fino al punto di desiderare che tutti diventino buoni: «quia cum Monarcha maxime diligat homines […] vult omnes homines bonos fieri»31. La funzione del monarca è essenzialmente ministeriale: egli «è colui che permette agli uomini […] il conseguimento del loro fine, o l’attuazione del libero arbitrio; il suo carattere è sacrale perché è l’uomo destinato a condurre a un fine l’universalità degli uomini; l’autorità morale del suo ordine»32. È evidente allora che la sacralità della politica sia tutta nella funzione dell’autorità imperiale, e nelle conseguenze del suo operare. Si noti il realismo dantesco: la funzione etico-religiosa dell’Impero remedium contra infirmitatem peccati non si estrinseca in astratto, su una struttura come può essere quella statuale, bensì nel concreto dell’esperienza di ogni singolo uomo, che nell’autorità vede una particolare dignità e una possibilità di crescita in libertà. Chi è idoneo a governare trasmette questa sua idoneità agli altri, perché in ogni azione l’agente tende a produrre qualcosa di simile a se stesso: «Adhuc, ille qui potest esse optime dispositus ad regendum, optime alios disponere potest: nam in omni actione principaliter intenditur ab agente, sive necessitate nature sive volontarie agat, propriam similitudinem explicare»33. Una volta realizzato questo passaggio, quel remedium sarà realmente portato a segno, perché si tratta di un rimedio alla cupidigia, che necessita di un intervento non generico. L’autorità, in questo modo, traccia la direttrice della tensione ascetica, indicando i criteri di quella perfezione nella quale essa stessa è impegnata. È una funzione soprannaturale la sua? Del Noce lo smentisce, prendendo, su questo punto, le distanze da Montano34: se intendiamo correttamente, egli vuole con ciò escludere qualsiasi confusione tra i due rimedi, mantenendo quella distinzione degli ordini che continuava a condividere con il Gilson, e che gli sembrava rispettosa della volontà divina. Ma la separazione degli ordini non è comunque un ostacolo all’affermazione di «una funzione sacrale del laicato», intendendo però il laicato non come una massa indistinta, ma come composto di tante singolarità che incarnano nella loro vita quella continuità tra natura e grazia, che può ben congiungere il mondo con il suo Creatore.

Se si volesse inquadrare il tema della laicità sacrale di Dante, si potrebbero allora ricavare alcune considerazioni finali: l’autonomia dell’autorità imperiale si fonda sulla stessa autonomia della natura rispetto alla grazia; ma per Dante la natura non può essere indifferente alla grazia, come l’Impero non può essere indifferente alla Chiesa, perché entrambi cooperano ad un unico vero fine, che consiste nella «continuazione dell’opera della Redenzione dalle tracce del peccato originale»35. Questo definisce l’originalità dantesca, che «non sta nell’affermazione di una laicità destinata a una qualsiasi forma di laicismo moderno – al modo stesso che il suo pensiero non può venire, non dirò incluso, ma neppure riaccostato ad alcuna forma di eresia medievale, anche se ne enuclea l’esigenza positiva, ma per riportarla all’ortodossia – ma nell’idea che egli pensava, come poi fu riconosciuto, pienamente conforme all’ortodossia cattolica, delle due guide entrambe dipendenti direttamente da Dio…»36. Del Noce vede, quindi, in Dante, la prima reazione «all’arbitraria estensione del termine “autonomia” collegato agli equivoci della secolarizzazione»37: raccogliendo il suggerimento di Rocco Montano, egli vede nell’Ulisse dantesco38 la condanna di quel sapere orizzontale che si sarebbe imposto a partire da Marsilio. Ancora una volta, come si vede, il discorso si fa storiografico. Ma il merito di Del Noce sta proprio qui: nell’aver guadagnato l’Alighieri al nostro tempo, dopo averne scoperto la perennità.

 

Il Prof. Mario Ciampi è ricercatore e docente di Storia delle Istituzioni Politiche e di Storia Costituzionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell´Università Guglielmo Marconi.
È stato Professore Invitato alla Pontificia Università della Santa Croce, docente al master in “Dottrina sociale della Chiesa” della Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice e al master in “Sicurezza pubblica e soft target” della Link Campus University.  E’ docente a contratto di Politiche Pubbliche nel corso di laurea magistrale in Scienze Politiche della Link Campus University.
I suoi studi vertono sui rapporti tra politica e religione, sulla teoria democratica nel movimento cattolico, sulla storia del potere politico. È autore di alcune monografie e di numerosi saggi e articoli pubblicati in riviste scientifiche e in volumi collettanei.
È co-fondatore dell´Associazione culturale “Il Cenacolo di Tommaso Moro” e Consigliere dell´Associazione Nazionale dei Difensori Civici Italiani.
Ha diretto importanti fondazioni di cultura politica e osservatori di politiche pubbliche. È stato componente del Punto nazionale di contatto del Programma europeo di mobilità studentesca Erasmus Mundus. Ha fatto parte della Giunta della Conferenza dei Collegi Universitari di merito riconosciuti dal Miur. È componente di Consigli di Amministrazione e di Organismi di Vigilanza di società di capitali.

 

Note

1 Gli Appunti delnociani sulla Monarchia di Dante sono straordinariamente compositi. Si distingue una parte organica, che presenta il titolo “Postilla aggiuntiva sull’interpretazione della Monarchia dantesca – L’Imperium come remedium peccati, secondo Fr. Ercole e Br. Nardi”. Viene poi una seconda parte più voluminosa e assai disorganica, che ha necessitato di un lungo lavoro di ricostruzione per dare ai fogli il senso logico che probabilmente presentava il manoscritto. Senso logico, si badi, che non significa compiutezza del ragionamento, perché l’Autore intendeva ancora ritornare sulle sue carte, come ci avverte l’Introduzione a Augusto Del Noce di Gian Franco Lami, e plasmarle per una stesura definitiva. Una terza parte, ancora più frammentata, costituisce quelli che abbiamo chiamato “Appunti di lavoro”.

2 A. Del Noce, Sconfitto ieri, ma oggi?, in “Il Tempo”, 28 gennaio 1985.

3 L. Valli, L’allegoria di Dante secondo G. Pascoli, Zanichelli, Bologna 1922.

4 Mon., I, 16 e II, 12.

5 Cfr. F. Ercole, Introduzione a Il Trattato della Monarchia di Dante, a cura di B. Siragusa, Milano-Firenze 1923.

6 A. Del Noce, Appunti di lavoro (materiale inedito).

7 Ibidem.

8 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 25.

9 Cfr Ibidem, p. 23.

10 E. Gilson, L’ideale politico e religioso di Dante, in Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987, p. 277.

11 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 38.

12 Questo superamento dell’interpretazione gilsoniana è contenuto nelle pagine inedite sotto l’eloquente titolo “Dopo Gilson”.

13 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 42.

14 Ibidem.

15 Ibidem, p. 48.

16 Ibidem.

17  Ibidem, p. 46.

18  Ibidem, p. 36.

19 E. Gilson, Dante e la filosofia, op. cit., p. 184.

20 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 2.

21 Cfr H. Thomae, Dinamica della decisione umana, Zürich 1964; A.R. Luño, La scelta etica. Il rapporto fra libertà e virtù, Milano 1988.

22 Ricordiamo che per Dante la parola “autorità” significa “atto d’autore”, e che la parola “autore” viene da autentin, che vuol dire “atto degno di fede e d’obbedienza”. Cfr Conv., IV, 6, 5.

23 Cfr A. Del Noce, Autorità, in Enciclopedia del Novecento, vol. 1, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1975, pp. 416-426; Id., Sul concetto di autorità, in G.F. Lami, Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani, Roma 1999, pp. 315- 356.

24 A. Del Noce, voce “Gilson Etienne”, in Enciclopedia dantesca, vol. III, Roma 1971, p. 164.

25 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 2.

26 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 82.

27 Ibidem, p. 83.

28 Cfr V. Frosini, Misericordia e giustizia in Dante, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1965, pp. 318- 319; Gillet, Justice et charité, in “Revue des sciences phil. et théol.”, XVIII (1929), pp. 5-22.

29 Mon., I, 11, 14; cit. in A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 77.

30 Ibidem, pp. 77-78.

31 Mon., I, 12, 9.

32 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 57; a proposito della concezione delnociana del libero arbitrio, si veda C. Vasale, Etica e politica in Augusto Del Noce, in AA.VV., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Studium, Roma 1995, pp. 193-223; C. Vasale, Augusto Del Noce: una “filosofia della libertà e dello spirito”, in AA.VV., Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, a cura di C. Vasale e G. Dessì, S.E.I., Torino 1996, pp. 3-25.

33 Mon., I, 13, 1.

34 Cfr A. Del Noce, Appunti di lavoro, pp. 149 ss.; R. Montano, Dante filosofo e poeta, Napoli 1985; Id., Suggerimenti per una lettura di Dante, Napoli 1956; Id., Storia della poesia di Dante, Napoli 1962.

35 A. Del Noce, Appunti di lavoro, p. 75.

36 Ibidem.

37 P. Armellini, Laicismo e laicità in Augusto Del Noce, in “Poietica”, IX (2000), n. 11-suppl., p. 155.

38 Cfr A. Del Noce, Perché Ulisse è calato nell’Inferno, in “Il Tempo”, XLII, n. 243, 22 settembre 1985.