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La lettera ai Corinti di Papa S. Clemente I Romano

 

“Se dunque anche l’Autorità Imperiale è posta da Dio, essa può e deve essere oggetto di  lode e persino preghiera, come quella che eleva Papa S. Clemente I Romano”.

(Cfr. La lettera di Papa Clemente I ai Corinti, 61,1-3, ed. cur. A. Jaubert, Paris 1971).

 

San Clemente I Romano (? – 99), Vescovo di Roma e Papa negli ultimi anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo, Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente “aveva visto gli Apostoli”, “si era incontrato con loro”, e “aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione” (Adv. haer. 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire.

L’autorità e il prestigio di questo Vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il grande “archivista” delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto […]. Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Hist. Eccl. 3,16). A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico.

Potremmo innanzitutto dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle. E’ un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione.

Va notato che in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro del laos”, cioè “del popolo di Dio”. Clemente svela qui il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’“unico Spirito di grazia effuso su di noi”, che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono “membra gli uni degli altri” (46,6-7). La netta distinzione tra il “laico” e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta.

 

Tuttavia, quello che a noi particolarmente interessa porre in rilievo è che, con una novità rispetto al modello paolino, Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano costitutive di tutte le lettere paoline, anche una “grande preghiera” che praticamente conclude la lettera.

Essa conferisce un respiro cosmico alle argomentazioni dell’intera lettera. Clemente loda e ringrazia Dio per la sua meravigliosa provvidenza d’amore, che ha creato il mondo e continua a salvarlo e a santificarlo. Particolare rilievo assume l’invocazione per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più antica preghiera per le istituzioni politiche. Così, all’indomani della persecuzione i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e “esercitino il potere che Dio ha dato loro nella pace e la mansuetudine con pietà” (61,2).

La festa di S. Clemente I Romano si celebra il 23 novembre.

 

TESTO DELLA PREGHIERA DI PAPA SAN CLEMENTE I ROMANO

LX, 1. Con le Tue opere hai reso visibile l’eterna costituzione del mondo. Tu, Signore, creasti la terra. Tu, fedele in tutte le generazioni, giusto nei Tuoi giudizi, mirabile nella forza e nella magnificenza, saggio nel creare, intelligente nello stabilire le cose create, buono nelle cose visibili, benevolo verso quelli che confidano in Te, misericordioso e compassionevole, perdona le nostre iniquità e ingiustizie, le cadute e le negligenze. Non contare ogni peccato dei Tuoi servi e delle Tue serve ma purificaci nella purificazione della Tua verità e dirigi i nostri passi per camminare nella santità del cuore e fare ciò che è buono e gradito al cospetto Tuo e dei nostri capi. 3. Sì, o Signore, fa’ splendere il Tuo volto su di noi per il bene, nella pace, per proteggerci con la Tua mano potente e scamparci da ogni peccato col Tuo braccio altissimo, e salvarci da coloro che ci odiano ingiustamente. 4. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando Ti invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al Tuo Nome onnipotente e pieno di virtù, e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.

LXI, 1. Tu, Signore, desti loro il Potere della Regalità (τὴν ἐξουσίαν τῆς βασιλείας)[1] per la Tua magnifica e ineffabile forza, perché noi, conoscendo la gloria e l’onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla Tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la sovranità data da Te. 2. Tu, Signore, Re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e gradito alla Tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che Tu hai loro dato e Ti trovino misericordioso. 3. Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi, ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo, per il quale ora a Te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen.

 

[1] Va sottolineato che il sostantivo greco “ex-ousia”, usato dalla preghiera per significare “Potere”, deriva dal verbo “ex-eimi”, il quale si traduce letteralmente con:

  1. a) provenire, discendere;
  2. b) esser permesso, lecito, concesso, possibile.

Da ciò l’ulteriore conferma della concezione, esistente già dai tempi apostolici, della sacralità dell’Imperium proveniente e concessa da Dio.