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Homo Symbolicus (a cura della Redazione).

Ildegarda di Bingen – la Trinità che abbraccia l’Universo con al centro l’Uomo – miniatura dal “Liber Divinorum Operum”. XIII sec. – Lucca, Biblioteca Capitolare.

 

HOMO SYMBOLICUS

in MARCO MASSIMILIANO LENZI, Forme dell’invisibile: esperienze del sacro, Ed. Clinamen, Firenze 2004.

Il risultato forse più significativo conseguito dalla storia delle religioni è quello di aver evidenziato l’«unità spirituale dell’umanità» che, grazie anche agli esiti più recenti delle ricerche archeologiche e paleoantropologiche, può essere stabilita a partire dal Paleolitico per giungere fino ad oggi: l’homo faber e sapiens si rivela come homo religiosus[1]. Quest’ultima categoria antropologica, tuttavia, non può essere compiutamente delineata senza associarvene un’altra, quella di homo symbolicus, che indica l’esplicarsi di una precisa facoltà umana la quale, procedendo direttamente dalla capacità immaginativa dell’uomo, si manifesta come «creatività culturale». L’homo religiosus dunque è tale non soltanto perché la sua esistenza si struttura sulla base di specifiche credenze religiose, che ne guidano e regolano il vissuto individuale e sociale, ma anche in quanto egli è «creatore e utilizzatore del sistema simbolico del sacro»[2]. La natura peculiare del simbolo ne configura immediatamente potenzialità e funzione: il suo palesarsi sul piano della realtà sensibile rimanda-collega ad una dimensione altra, trascendente e interiore al contempo. Prima di ogni ulteriore determinazione, è possibile affermare che, mediante il simbolo, l’Invisibile rivela la propria presenza nel e tramite il visibile, in un percorso che dal secondo conduce al primo connettendo i due piani attraverso un’unità coscienziale che si origina dal dato concreto di un’intima esperienza, di un ineffabile “incontro”. È lungo la traiettoria stabilita dal simbolo che l’uomo ha potuto coniugare il nucleo più profondo del proprio essere con la terrifica potenza immanente dell’Invisibile e con la realtà fenomenica che lo circonda dando un ordine e un senso alla propria dimensione esistenziale, in cui la consapevolezza della morte e del post mortem occupa la posizione chiave. Relativamente a tutto ciò, per denotare con pertinenza il valore del simbolo e dei sistemi simbolici, si dovrà riconoscere in primo luogo, come è stato fatto, che esso non riveste un senso, un valore attribuitogli artificialmente, bensì possiede un essenziale e spontaneo potere di «risonanza»[3]. Tanto essenziale e spontaneo, potremmo aggiungere, da toccare direttamente i precordi, nell’assolutezza inesprimibile delle proprie istanze, come lingua «di un messaggio, il cui segreto rimane nascosto nelle profondità e nelle vette della condizione umana»[4]. Tale è il potere totalizzante del simbolo, che il comparativismo proposto dall’antropologia culturale ha riscontrato come simbolismi e simboliche siano il «principio integratore», che consente l’esistenza, la conservazione e il progresso di ogni cultura, vale a dire che – attraverso il processo di simbolizzazione – tanto il simbolo in sé quanto il mito e il rito, con continuità creativa «dal respiro allo spirito, orientano l’uomo nella sua interezza»[5]. Nella prospettiva che abbiamo fin qui tratteggiato, emerge un altro punto cruciale, ossia l’universalità di certi simboli e simbolismi che, solo talvolta e in parte, può essere spiegata alla luce di una trasmissione-recezione dovuta a contatti tra culture diverse. In proposito, si può osservare che, date le caratteristiche e le valenze del simbolo quali abbiamo prima indicato, risulterà assai arduo pensare che esso possa essere stato “imposto” come elemento del tutto estraneo ad un contesto. Si dovrà invece supporre, in questo caso, che vi sia stato un terreno pronto ad accoglierlo, a “riconoscerlo” nella sua arcaica, profonda eco, prima di ogni sua più specifica determinazione. Ciò vale anche per i significati di cui un simbolo può essere portatore e che si palesano in fasi o cicli particolari della storia umana, svelando ulteriori potenzialità segnate da una rivelazione. Questo non comporta affatto l’annullamento di quanto autenticamente espresso dal simbolo fino a quel momento, bensì la sua continuità attraverso un arricchimento, un nuovo frutto, che implica il permanere degli assunti primari nello sviluppo della loro dinamica. Per rifarsi a un esempio paradigmatico, non ha certo un significato secondario che il Cristo sia morto per crocefissione, essendo la croce uno dei simboli fondamentali e più arcaici, documentato fin dai tempi più remoti, da Oriente ad Occidente. Né può essere ignorato il fatto che la croce si relaziona, con esatte corrispondenze geometrico-simboliche, al centro, al cerchio, al quadrato ed al triangolo[6] o che la testa del Cristo, nella iconografia sacra, è posta all’intersezione dei due bracci e via dicendo.

Il riscontro oggettivo, in sede comparativa, dell’universalità di simboli e simbolismi, propone senza dubbio una serie di quesiti importanti, a cominciare dalla natura e dalla funzione ultima della facoltà immaginativo-simbolica dell’uomo, dalla preistoria alla storia, le modalità del suo utilizzo, il tipo e i gradi di consapevolezza presenti. Il che porta direttamente ad interrogarsi sul contesto originario in cui è venuto attenuandosi primariamente il processo di simbolizzazione sia, per quanto possibile, storicamente, sia dal punto di vista delle priorità circa il suo significato, il valore, l’utilizzo. Brevemente, dobbiamo ricordare, secondo le parole di Eliade, che l’uomo appartenente alle civiltà tradizionali è, prima di tutto, homo religiosus, che vive in un cosmo divinizzato, per cui ogni suo atto, ogni suo modo d’essere, dal rapporto con la realtà circostante, alla alimentazione, alla sessualità, ad ogni aspetto della vita quotidiana, viene determinandosi da questa consapevolezza[7]. Quando si parla di “esperienza religiosa” dunque, non ci si deve riferire ad essa come ad una esperienza fra le altre, ma all’esperienza fondante, omnipervadente ed assoluta. Si può citare l’esempio degli indoeuropei, i quali non possedevano un termine per indicare “la religione”, essendo inimmaginabile per loro il solo concepirla come un’istituzione separata[8]. Questa consapevolezza che, volendo distinguere, è prima consapevolezza dell’Invisibile poi del Sacro, passa attraverso le manifestazioni di esso, dalle cratofanie, alle ierofanie, alle teofanie, nella presa di coscienza che esiste un dominio trascendente sì, ma al contempo anche immanente e che l’uomo possiede un qualcosa, un quid ineffabile che ad esso corrisponde. Sottolinea opportunamente l’etnologo:

 

L’uomo sa di avere un’anima, principio invisibile e origine della vita, venuta da un piano estraneo alla terra. Questo non è un atto di fede gratuito, formulato di tempo in tempo da intellettuali disoccupati, ma una credenza precisa che spiega il comportamento dell’uomo, condiziona le sue tecniche e resta sempre identica a se stessa nella scelta dei simboli usati per esprimerla, da un’estremità all’altra del tempo e dello spazio […] La testimonianza apportata dallo studio delle civiltà, da un estremo all’altro del tempo e dello spazio, ci mostra un uomo rivolto verso l’Invisibile, un uomo che cerca l’Invisibile in se stesso in ogni istante della vita quotidiana, come se rimpiangesse una patria perduta[9].

 

Dall’assolutezza di questa priorità, da questo centro consapevole dell’essere, si irradia la potenza occulta del simbolo, che apre e custodisce il varco verso la Conoscenza investendo di sé il mistero celato nel senso e nelle possibilità dell’intero esistere, prima della morte e oltre il suo attraversamento. Se è possibile affermare, a ragion veduta e ben documentata, che «il “sacro” è un elemento strutturale della coscienza, e non uno stadio della sua storia»[10], allora il simbolo ne è la certificazione più eclatante e rigorosa lungo i millenni.

Non ci è sembrato superfluo richiamare all’attenzione del lettore queste semplici nozioni, stante la situazione attuale in cui una serie di percorsi ermeneutici, entro e al di fuori di specifici ambiti disciplinari, pone in primo piano lo studio e l’utilizzo dei simbolismi e delle simboliche. È indubbio che la polisemia del simbolo, il suo riverberarsi su livelli differenti, sia individuali che collettivi, all’interno delle varie fasi attraversate da una stessa cultura, consente tipi di approccio interpretativo e di utilizzo metodologico differenziati; così come diversa può essere la funzione che gli si attribuisce e maggiore o minore il valore che ad essa viene riconosciuto. Tuttavia, pur accettando come valido e fin necessario o inevitabile tutto ciò, si rimane sempre all’interno di una visione della cultura limitata e relativizzante. Questo, in quanto si elude il portato metafisico originario, arcaico del simbolo, il mistero del suo fondamentale significato inespresso e che tale rimane se ci riferiamo alle ordinarie modalità di conoscenza e ad una determinata concezione della natura umana. Nelle varie civiltà e nelle culture che le esprimono, in ognuna di esse: «Le situazioni limite dell’uomo sono perfettamente rivelate grazie ai simboli che le sostengono. Se si trascura questo fondamento spirituale unico dei diversi stili culturali, la filosofia della cultura sarà condannata a rimanere uno studio morfologico e storico privo di qualsiasi validità per la condizione umana in quanto tale»[11]. È l’esistenza stessa del simbolo dunque, se ricondotta al suo contesto originario, quello del sacro, che potrebbe guidarci, oggi, a riconsiderare l’idea stessa di cultura, a partire dall’homo symbolicus appunto, il quale, come abbiamo già notato grazie alla facoltà immaginativa che gli è propria, riesce a cogliere l’invisibile partendo dal visibile divenendo «creatore di cultura», in tal modo ricordando anche il senso più profondo e completo attribuibile a questo termine. Così come quello, autentico, da riconoscere a vocaboli quali “immaginare”, “creare”, “ispirazione”, che hanno subito variazioni semantiche e spostamenti di campi referenziali oltremodo significativi per la storia della cultura, per le forme in cui viene concepita – richiamandosi alle parole di Eliade – la condizione umana.

Tali considerazioni non sono tanto espressione di un auspicio, affinché possano emergere corrette impostazioni ermeneutiche, quanto il tentativo di apertura su un’altra prospettiva, che può essere così sintetizzata, come una sorta di premessa indispensabile: il simbolo esige molto più di tutto questo. In ogni epoca, in ogni cultura e società, compresa la nostra, desacralizzata, il simbolo richiama i differenti piani dell’essere (fisico, psichico e spirituale) connettendoli l’uno all’altro e riaffermandone l’unità di principio. Offrendosi come segno concreto che cade sotto il dominio dei sensi, immediatamente però e per via naturale, la sua dinamica interna rimanda ad una dimensione altra – che si colloca al di fuori dell’abituale coscienza e delle sue coordinate spazio-temporali – relazionandosi direttamente ad essa. In questo coinvolgimento di tutti i piani dell’essere che il simbolo implica, risiede il suo pretendere di più: rivelandosi da un lato come enigma, dall’altro come una realtà, vivente ed efficace; due volti del simbolo spesso non tenuti nella debita considerazione. Come abbiamo già accennato nei capitoli precedenti, nessuna esegesi, per quanto corretta e utile, può rendere conto in modo integrale del simbolo, che per essere compreso esige di essere concretamente assimilato ed interiorizzato, per cui all’indagine degli ordinari strumenti cognitivi esso offrirà soltanto una parte di sé rimanendo quindi, in sostanza, un enigma, in quanto richiede l’esplicarsi di altre potenzialità umane per essere veramente conosciuto. Ma se per giungere a tanto, molteplici sono stati gli itinerari lungo i quali si dà per scontata la priorità del piano psichico, ugualmente si dovrà tenere presente che nessuno di questi, sia pure in forme e gradi diversi, può esulare dal piano fisico, inteso in primo luogo come corporeità. Anche se per i contemporanei tale riferimento obbligatorio potrebbe risultare quasi incongruo, la realtà vivente del simbolo, affinché la sua azione sia efficace, presuppone che il simbolo stesso sia agito. Nei processi iniziatici tribali relativi ai riti di passaggio e, ancor più, nelle iniziazioni sciamaniche, in quelle relative ai medicine men, ai guerrieri e alle società segrete, le rappresentazioni simboliche, le ritualità sono tutt’altro che tali se rapportate a ciò che noi oggi intendiamo per rappresentazione. Le prove da affrontare, le torture fisiche che hanno fatto gridare alla barbarie gli etnologi, il terremoto psichico e il conseguente terrore assoluto subiti dai neofiti sono intensamente autentici e ripetuti: si rischiano, in concreto, la pazzia e la morte. Le torture rituali, le malattie sia fisiche che psichiche, hanno per scopo la trasmutazione integrale del soggetto nel segno dello spirito; sono espressione tangibile della “morte iniziatica”, della sofferenza che essa comporta sui diversi piani dell’essere. Una sofferenza e una morte che sole possono consentire l’accesso alla Conoscenza, all’assimilazione delle dottrine segrete, alla chiave stessa dei diversi simbolismi che vi si connettono, attraverso la rinascita che ne consegue; tenendo anche conto che l’iniziazione implica la presenza attiva di Esseri sovrumani[12]. Quanto ne consegue, sulla base dei dati raccolti sul campo e della loro elaborazione comparativa, può essere così configurato:

 

Non siamo più di fronte a prove simboliche e per spiegare le migliaia di testimonianze dobbiamo riconoscere che l’uomo può modificare profondamente non soltanto la propria sensibilità ma anche le facoltà del corpo […] Nulla ci permette di assegnare un limite al trauma dell’iniziazione capace di provocare una simile trasformazione. Senza dubbio le prove fisiche ci stupiscono maggiormente, ma non abbiamo mai tentato di misurare scientificamente gli effetti prodotti dalle prove che noi consideriamo puramente simboliche. In tutti i casi studiati, vi è una discesa dell’essere al nocciolo più intimo della persona umana[13].

 

Nell’iter iniziatico dunque, il simbolo distende tutta la propria efficace concretezza, mostra il dilatarsi della propria realtà attraverso la compenetrazione dei piani dell’essere annichilendo l’impianto separativo, dualistico della coscienza: realtà fenomenica/invisibile; interiore/esteriore; vita/morte. L’attuale e ormai statuita concezione del simbolo, cristallizzata in un’astratta concettualità associativa, non può che precluderne, va ribadito, l’autentica conoscenza, nonchè una corretta e completa identificazione della funzionalità, sia dal punto di vista antropologico che, più estesamente, storico-culturale. Il simbolo, nell’immediatezza del suo offrirsi, accenna, ma non svela. Agire pienamente il simbolo, allora, implica sempre un processo di intima trasmutazione, un sinuoso percorso della consapevolezza verso il centro dell’essere, dove tale processo si compie (dalla vita alla morte alla rinascita), dando luogo alla trasformazione vera e propria e alla conseguente “rivelazione” del simbolo medesimo, che viene così ad essere assimilato entro la realtà stessa dei presupposti che lo determinano. La conformazione di siffatto percorso, come modalità di andamento dell’iter iniziatico, cui è sottesa la nozione sacrale di “centro”, si palesa chiaramente emblematizzata in quello che potrebbe essere definito, in tal senso, il simbolo per eccellenza, il labirinto, strettamente connesso al simbolismo arcaico della spirale.

Il disegno del labirinto forse implica, come genesi, le movenze di una danza rituale centrata sul rapporto vita-morte-rinascita. È possibile che i tracciati di questa danza costituiscano il supporto sul quale si manifestò, originariamente, l’idea stessa di labirinto[14]. Il primo riferimento ad una danza labirintiforme si trova in Omero[15], allorché descrive lo scudo di Achille, sul quale sono raffigurati fanciulli e fanciulle che danzano con le movenze che un giorno, racconta il poeta, Dedalo apportò a Creta per Arianna. Questa danza, con andamento a spirale, risulta essere quella più arcaica in ambito cretese. I suoi movimenti sinuosi da destra a sinistra avevano un valore ben preciso e concretamente terrifico, per i partecipanti: la destra simboleggiava la vita e la sinistra la morte. Raggiunto il centro, si tornava indietro su un percorso parallelo al primo. Al centro stava la “Signora del labirinto”, che molto probabilmente è identificabile con la stessa Arianna, la quale, a sua volta, era originariamente la Signora del Regno dei morti. Raggiuntala, si invertiva il senso di marcia, ritornando così dalla morte alla vita. Tra parentesi, va ricordato che il tipico labirinto, quello cretese appunto, si snoda attraverso sette volute e che sette sono, pressoché ovunque, i gradi ben definiti di un percorso iniziatico. Giova poi sottolineare che la danza, nel suo autentico significato primordiale, rappresenta ‹‹la verità, e insieme la giustificazione, dell’essere-del-mondo […] E con il suo incedere porta alla luce quello che sta alla base di ogni cosa: l’Eternamente splendido e il Divino […] In quell’attimo l’essere vivente […] si è fuso in una sola realtà con il fluire universale della vita››[16]. Nella cristianizzazione del labirinto, è ugualmente mantenuto il riferimento essenziale, morte-rinascita, del percorso di trasformazione dell’essere, attraverso un tracciato purificatore verso il centro, il sancta sanctorum o Gerusalemme Celeste. Sui labirinti pavimentali di epoca medievale, collocati nelle cattedrali, questo viaggio lustrale veniva effettuato non di rado (anche come sostitutivo del pellegrinaggio in Terrasanta) percorrendo in ginocchio le volute del disegno. Appare poi ben distintamente il collegamento fra quanto abbiamo sopra specificato e le danze che si tenevano presso i labirinti delle chiese, sempre nel medioevo, soprattutto in occasione della Pasqua, ossia per la celebrazione del mistero relativo alla morte sacrificale e resurrezione del Cristo[17]. Nel mantenersi con continuità, attraverso i millenni, del portato essenziale di questo simbolismo, va anche letta l’assunzione del labirinto come configurazione fondamentale dell’Opus alchemico. È infatti al centro di quello che dagli alchimisti viene definito il “Labirinto di Salomone”, che si scatena il duello fra le due nature[18]. Gli esempi proposti relativamente all’epoca medievale, documentano altresì il permanere, seppur in forma assai attenuata (ma ugualmente presente), di un simbolismo agito nella sua fisicità. Un atteggiamento, questo, che sembra essere attestato anche dalla sopravvivenza nei tornei cavallereschi, secondo alcuni studiosi, del Troiae Lusus[19]. Si trattava di una figura di movimento che, originatasi probabilmente in ambito etrusco, venne poi ripresa dai Romani[20]. Due gruppi di cavalieri (poi tre), che si affrontavano in combattimenti simulati, percorrevano le volute di un labirinto forse tracciato sul suolo prima del ludo. Significativamente, un gruppo di cavalieri muoveva verso destra e l’altro verso sinistra. Virgilio specifica che in principio il Troiae Lusus veniva praticato in due occasioni solenni: per esequie funebri e per la fondazione di città e potevano parteciparvi soltanto coloro che erano stati iniziati[21]. Inoltre, tale pratica aveva una funzione lustrale, di purificazione e riconsacrazione della città; il che rinvia anche alla danza labirintico-iniziatica dei Salii, collegio patrizio di sacerdoti-guerrieri romani di antichissima origine[22]. Il labirinto quindi, (così come può accadere per ogni altro simbolo) è in grado di acquisire anche un valore apotropaico, di protezione, in questo caso relativamente al confine sacro di una città o di altro luogo[23]. Il che vale non solo per il labirinto costruito, ma anche per certe danze o movimenti processionali labirintici, legati a riti e tecniche ben precisi volti ad allontanare, con esatte movenze, forze malefiche delle quali si conoscono atavicamente le leggi che ne governano l’azione. Per quanto concerne il richiamo sia a questa specifica, arcana potenzialità del labirinto (vale a dire come possibile ricettacolo-conduttore di forze “magiche”), sia al suo essere agito e “costruito” da figure umane, troviamo un altro importante esempio nel Mahâbhârata, il monumentale poema epico-eroico della letteratura indiana. Come è noto, il tema centrale dell’opera è la lotta tra i malvagi Kaurava e virtuosi Pândava, nelle cui file risplende l’eroe Arjuna, discepolo di Krishna e simbolo della ricerca spirituale. L’episodio che qui interessa è quello relativo al labirinto umano forgiato dal mago-sacerdote Drona, capo dei Kaurava, per distruggere il figlio di Arjuna, Abhimanyu. Questi infatti, assente il padre dal campo di battaglia, è l’unico a saper penetrare il chakravyûha, cioè le truppe schierate a formare un labirinto attraversato da potenti forze magiche. E Abhimanyu vi riesce ma, non avendo ricevuto dal padre un addestramento (iniziazione) completo, non sa come fare ad uscirne, così il labirinto dei guerrieri nemici gli si richiude intorno e il giovane viene fatto a pezzi[24].

Qui si palesa distintamente un altro tema capitale legato al simbolismo del labirinto: il modo di venirne fuori. Se infatti può apparire relativamente facile raggiungerne il centro (è il caso del labirinto cretese), non lo è assolutamente guadagnarne l’uscita, ciò dipendendo da quanto può accadere una volta arrivati in fondo al labirinto, rappresentando tale percorso, come abbiamo veduto, un iter perfectionis, ossia la possibilità di accedere ad un’inziazione completa. Allora risulta evidente che l’uscita presuppone il compimento, secondo gradi diversi, del processo iniziatico. Il modo di uscita comunemente conosciuto e accolto è quello di ripercorrere la via a ritroso seguendo il “filo” di Arianna. Questo simboleggia, secondo alcuni autori, l’acquisita consapevolezza del Sé, ossia della propria autentica natura spirituale, avvenuta mediante il superamento dei limiti imposti dalla condizione umana, la vittoria sulla barriera rappresentata dallo psichismo inferiore, dal mondo “infero”, necessaria per accedere all’esperienza diretta del divino. A ciò si riferiscono il mitologico “combattimento” con il Minotauro, il “duello” fra le due nature degli alchimisti e, in altre narrazioni, la lotta con il Drago, che spesso si nasconde nelle viscere della terra, in una remota “caverna”, dove è posto a guardia di un favoloso “tesoro”. Raggiunta tale condizione, non ci si potrà più “smarrire” restando prigionieri nell’illusorio viluppo della materialità e nei meandri della psiche. Questa consapevolezza è appunto rappresentata dal “filo” che collega e unisce tutte le modalità dell’essere, indicandone l’acquisita conoscenza[25]. Tuttavia, è ipotizzabile che questa possibilità di uscita corrisponda solo ad una realizzazione parziale identificabile, per analogia diretta – sempre secondo alcuni autori – con l’iniziazione ai Piccoli Misteri. Esisterebbe dunque un’altra via d’uscita connessa all’iniziazione-accesso ai Grandi Misteri, alla via della Divinità o “Porta degli Dei”, lungo l’asse verticale del “Nord Cosmico”, simboleggiato dalla volta della caverna. A ciò sembrerebbero rimandare le vicende di Dedalo. Questi infatti viene imprigionato, insieme al figlio Icaro, dentro il labirinto di cui era stato l’ideatore. Ciò, secondo una logica ordinaria, non può che stupire, visto che nessuno più di Dedalo ne conosceva ogni intimo anfratto, ogni recondita possibilità. Eppure egli non percorre, per uscirne, la via consueta a ritroso, ma invece costruisce per sé e per il figlio delle ali di cera e spicca il volo verso il “Cielo”, atterrando poi a Cuma, dove consacrerà le proprie ali al dio Apollo, altro simbolismo assai esplicito. Icaro però, sordo agli ammonimenti del padre-Maestro (dunque mostrando la mancanza di una qualifica effettiva per accedere ad una iniziazione di grado superiore), vola troppo vicino al “Sole”, la fonte della Conoscenza suprema e da essa viene “bruciato”[26]. Ciò richiama l’incompleto addestramento del figlio di Arjuna, come abbiamo veduto, allorché penetra nel labirinto magico dei guerrieri nemici senza essere capace di uscirne, per cui, conseguentemente, verrà annientato. Per l’universalità del simbolismo legato al labirinto, alla caverna-grotta, sia come centro spirituale o “cuore” dell’essere, che “fisico” (luogo consacrato all’iniziazione) e al suo rapporto complementare con il simbolismo della “Montagna Sacra”, è significativa la testimonianza offerta dagli Eschimesi della Smith Sound. Presso questo popolo il candidato all’iniziazione viene fatto avvicinare di notte ad una scogliera interamente traforata di caverne. Lasciato solo egli, nel buio delle “tenebre esteriori” e attraverso un percorso labirintico, deve cercare a tentoni l’ingresso di una caverna. Se vi riesce, ciò sottintende che l’Invisibile lo ha prescelto e ne guida i passi. Allorché il neofita penetra nella caverna, questa si richiude su di lui e rimarrà sigillata per un tempo non definito a priori, ma deciso dall’Invisibile stesso. Al termine di questo periodo più o meno lungo, ne uscirà completamente rigenerato a nuova vita[27]. Per quanto poi attiene alla specificità del percorso iniziatico interpretato come preparazione all’iter del post-mortem e quindi alla relativa funzione conoscitiva dei simboli, ne troviamo vivida illustrazione in un mito dell’Oceania. Qui, la Madre (Grande Madre, Signora dal Mondo sotterraneo, del Regno dei morti), attende l’anima del defunto sulla soglia di una caverna ‹‹inesplorabile››, al cui ingresso è disegnata la pianta del labirinto. Quando il morto però vi giunge, il disegno viene distrutto, cosicché l’anima è portata a smarrirsi in una dimensione intermedia. Questo però non accade se il defunto è un iniziato, dato che egli potrà ritrovare nella “memoria” la pianta del labirinto, avendola appresa durante il proprio ritiro[28].

Crediamo siano più che evidenti le ragioni per le quali ci siamo soffermati a lungo sull’esemplarità delle trame tessute dal simbolismo del labirinto, che potrebbe, in questa ottica, essere quasi definito come simbolo dei simboli. Ritornando ad un quadro più generale, ci si dovrebbe allora interrogare non solo o non tanto sull’universalità dei vari simbolismi, bensì sull’universalità delle specifiche cognizioni che li sottendono, nonché sulle modalità della loro rivelazione e acquisizione. Altrettanto dovrebbe stupire lo smarrimento o l’avvenuta rimozione “culturale” dei nessi essenziali che li connettono, ab origine ed univocamente, alla dimensione metafisica. Di fatto, è ancora il simbolo a rivelare, questa volta più indirettamente, fungendo quasi da specchio, la concezione dell’essere predominante in una certa fase della storia umana, osservando la funzione rappresentativa di cui viene investito. Uno dei casi più eclatanti è riscontrabile nella deviante limitazione subita dal simbolismo del cuore. La sua attuale portata è circoscritta all’ambito dell’affettività, con una marcata tendenza alle espressioni degenerative del sentimentalismo e, non di rado, anche a quelle di una istintualità pulsionale in tal senso orientata. In contrapposizione, si erge l’altrettanto superficiale simbolismo legato alla testa, ossia al cervello, spesso connotato solo negativamente, come razionalismo o cerebralità. Quello che appare subito evidente è che questa presunta conflittualità mostra l’essere ridotto solo a due dimensioni, lette, nel loro rapporto, attraverso molteplici supporti concettuali, fra i quali oggi predomina la nozione di inconscio che, peraltro, oltre ad essere di per sè già nebulosa, è anche soggetta a variegate interpretazioni. Questa concezione menomata dell’essere risalta, per netto contrasto, se ci rapportiamo al vero e proprio simbolismo del cuore, stabilito pressochè in tutte le tradizioni[29]. Se infatti è scontata, per la fisiologia animale e quindi umana, la funzione essenziale del cuore come fonte della vita stessa, questo non può che essere riconosciuto come “centro” dell’essere nella sua modalità corporea. Per analogia simbolica dunque, il cuore è il ricettacolo del divino, il “luogo umano” dove questi risiede. È questa la dimora dello Spirito, dell’autentico Sé dell’uomo e quindi il punto di contatto-coincidenza con il divino stesso; ma non basta. Bisogna anche sottolineare come il cuore, per questi motivi, sia conseguentemente sede della Conoscenza reale, del vero intelligere. Questo non è né di natura puramente razionale né, tantomeno, sentimentale, ma pur potendosi servire di entrambe le componenti (come supporto diciamo propedeutico o veicolo, anche espressivo), si qualifica in termini sovrarazionali o superumani, con quei connotati che abbiamo già specificato più volta nei capitoli precedenti. Elemento, quest’ultimo, che indica un’altra peculiarità nella deviazione di cui dicevamo: ossia quella di far corrispondere l’intelligenza umana alla semplice razionalità e relativo simbolismo cerebrale, spiegandosi così come al cuore non sia rimasta altra funzione che quella di simboleggiare il luogo dell’affettività.

Alcuni esempi, anche se scelti fra molti possibili e succintamente esposti, contribuiranno a chiarire meglio questa prospettiva originaria, che ha attraversato i secoli e i millenni con continuità, pur attuandosi in contesti diversi. Già nella religione degli Egizi, troviamo che il dio menfitico Path crea l’universo nel proprio cuore, prima di renderlo manifesto. È noto, altresì, che soltanto il cuore veniva lasciato all’interno del cadavere mummificato, affinché potesse essere pesato e giudicato davanti ad Osiride. C’è poi il geroglifico che rappresenta il cuore, ossia un vaso, da cui i successivi collegamenti con il Graal e con il crogiolo ermetico o vaso degli alchimisti, il «Divino recipiente» di Basilio Valentino. È altrettanto significativo che il simbolismo della coppa, presente negli Arcani minori dei Tarocchi, si sia trasformato nel seme di cuori delle comuni carte da gioco. Per quanto concerne l’Antico Testamento, è da rilevare che soltanto dieci volte la parola cuore indica l’organo fisico, contro le mille e più in cui è utilizzata per richiamare la profonda simbologia che qui interessa. Nello Zohar, il testo più importante della cabbalà, in un riferimento simbolico-descrittivo alle dieci sephiroth così si esprime: «La sapienza, chokma, è il cervello, il pensiero interno. L’intelligenza, binà, è il cuore, di cui è detto: “il cuore comprende”. Di queste ultime sephiroth è scritto: “Le cose segrete appartengono a Dio”»[30].

Entrando un po’ più nello specifico delle diverse tradizioni, risalta il fatto che l’esatta cognizione di questo simbolismo comporta anche la consapevolezza di un percorso all’interno del cuore, le cui fasi possono costituire altrettanti punti di riferimento operativo- esperienziale. Nelle Upanishad, al cuore è assegnato il riconoscimento più alto, in quanto sede delle diverse manifestazioni del Brahama-pura, la “Città di Brahman”. Qui

 

un sottile loto forma una dimora, dentro la quale vi è un piccolo spazio. Bisogna ricercare ciò che vi è dentro questo spazio, bisogna desiderare di conoscerlo […] Questo spazio che si trova all’interno del cuore è altrettanto vasto quanto lo spazio che abbraccia il nostro sguardo. L’uno e l’altro, il cielo e la terra vi sono riuniti; il fuoco e l’aria, il sole e la luna, la folgore e le costellazioni, e tutto ciò che appartiene a ciascuno di loto in questo mondo e ciò che loro non appartiene, tutto ciò che vi è riunito[31].

 

L’Âtman (identico a Brahman) in quanto nucleo preesistenziale dell’essere vivente è dunque emblematizzato come racchiuso in un atomo (anu), posto al centro del cuore. E come non richiamare, dunque, la «secretissima camera del lo cuore» di Dante, dove dimora «lo spirito de la vita»[32]? Per quanto attiene all’Islam, in ambito sufi, i mistici vengono appellati come “gli uomini del cuore”, e il sufismo medesimo è definito come spirito e cuore dell’Islam (rûh al-islâm o qualb al-islâm)[33]. In questa tradizione, però, non solo il simbolismo del cuore (associato sovente a quello dello specchio) è fondamentale, ma è anche significativamente analogo a quello che abbiamo veduto espresso nelle Upanishad. Al-Jîlânî (m.1166) precisa che il cuore è la sede dello “Spirito Angelico”, tramite il quale si comprende la via iniziatica, mentre il centro del cuore (fu’ âd) è la sede dello “Spirito sovrano”, da cui dipende la Gnosi: ossia l’attività dello Spirito sovrano è quella di conoscere ogni scienza divina. Tale fine è raggiungibile mediante la recitazione costante dei quattro nomi divini intermedi, con “la lingua del cuore” (lisân al-janân). Ma all’interno di questo centro, ancora più in profondità, si trova «la Stazione da cui governa lo Spirito di Santità […] il segreto ricettacolo che Allâh Si è riservato al centro del cuore, dove egli ha deposto il suo segreto [sirr] per conservarlo inalterato […] Questo centro è occupato con la conoscenza della realtà essenziale [‘ilm al-haqîqa], che è la conoscenza dell’Unità [tawhîd]». Anche la trasformazione suprema della molteplicità nell’Unità, si raggiunge mediante l’incessante ripetizione degli ultimi quattro Nomi, detti appunto dell’Unità, nella lingua del segreto divino (lisân al-sirr), «che non è lingua udibile all’esterno»[34]. Questo riferimento continuo ad esercizi di meditazione-preghiera, fondati sulla incessante recitazione dei nomi divini, cui si connette il basilare esercizio sufi del dhikr (costante ricordo-menzione-invocazione di Dio), richiama direttamente la pratica spirituale cardine del Cristianesimo orientale, l’esicasmo, centrato sulla continua ripetizione della “Preghiera di Gesù” o “Preghiera del Cuore”[35]. Niceforo il Solitario (sec. XIII) descrivendo questo esercizio, inteso a ricongiungere lo Spirito al “Luogo di Dio”, il cuore, raccomanda:

 

Mettiti seduto, raccogli il tuo Spirito e introducilo nelle narici; è il cammino che l’aria segue per andare al cuore. Spingilo, forzalo a discendere nel cuore. Quando vi sarà giunto vedrai la gioia che eromperà: nulla avrai da rimpiangere […] il Regno dei cieli è dentro di noi […] Mentre il tuo pensiero dimora nel cuore, non stare silenzioso né ozioso, costantemente sii impegnato a gridare “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio abbi pietà di me”[36].

 

Nella dottrina e nelle pratiche del cattolicesimo, oltre all’importanza attribuita al “Sacro cuore di Gesù”, vengono in sostanza riaffermate le medesime valenze espresse universalmente dal simbolismo del cuore:

 

È il cuore che prega. Se esso è lontano da Dio, l’espressione della preghiera è vana. Il cuore è la dimora dove sto, dove abito […] È il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo […] È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita e la morte. È il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’Alleanza[37].

 

Gli esemplari simbolismi inerenti al labirinto e al cuore testimoniando, per contrasto, come abbiamo detto, dell’astratta concettualità associativa cui è stata ridotta ormai la funzione del simbolo, sembrano rivelare anche quella che forse può essere indicata come la causa principale di un simile stravolgimento. La perdita o rimozione di quei nessi essenziali, cui ci riferivamo, che qualificano il simbolo come espressione dell’Invisibile e dunque elemento tangibile che ad esso connette, presuppone il non credere nella reale presenza di quanto viene simboleggiato. Questa considerazione può apparire indubbiamente scontata, almeno alla luce della situazione attuale e di quella che è giunta ad essere la concezione stessa di “cultura”. Può però risultarlo meno se si riconosce che la condizione imprescindibile affinché un simbolo dispieghi, attuandole pienamente, le proprie prerogative, è quella di un contatto diretto con l’interiorità dell’uomo, adeguatamente predisposta e ricettiva; altrimenti il simbolo, ogni simbolo, rimane cosa morta, immagine inerte. Se poi la nostra considerazione viene spostata in una prospettiva storica e storico-religiosa in particolare, risulta per niente scontata, tenendo conto che la difesa del simbolo, della sua funzione, di quella “presenza” reale che esso esprime, è costata, ad esempio, centinaia se non migliaia di morti, nell’arco di oltre un secolo (VIII-IX d.C.). Ci riferiamo al periodo durante il quale la profonda crisi che attraversava l’Impero bizantino prese la forma anche di una guerra contro le icone, scatenata da quelle correnti politico-religiose iconoclaste, le quali consideravano idolatra il culto tributato alle immagini sacre, Torture, mutilazioni, massacri, concili, si susseguirono con sorti alterne, legati a conflitti dinastici, controversie con Roma e il papato, dispute teologiche. Fino a quando, nell’843, una processione solenne, guidata dall’Imperatrice Teodora e dal Patriarca Metodio, a cui gli iconoclasti avevano strappato le labbra, attraversò le vie di Costantinopoli celebrando la definitiva vittoria dell’ortodossia. Per meglio confrontarsi con la tenace consapevolezza sottesa a questo atteggiamento, conviene ricordare quanto Pavel Florenskij scrive in un magistrale saggio sull’icona, che investe però non solo tutta una concezione dell’arte opposta a quella venuta affermandosi in Occidente dal Rinascimento in poi, ma comprende anche riflessioni più ad ampio raggio sulla funzione primaria del simbolo, direttamente correlata, in questo contesto, alla nozione di iconostasi. Scrive dunque Florenskij:

 

L’iconostasi è il confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile […] L’iconostasi è la visione, l’iconostasi è la manifestazione dei santi e degli angeli […] l’iconostasi è i santi […] L’iconostasi apre delle finestre, e attraverso ad esse vediamo […] calare i vivi testimoni di Dio […] Una finestra è una finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà la luce è luce, non è “somigliante” alla luce […] ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio […] e allora l’opera pittorica condivide con tutti i simboli in genere la loro caratteristica ontologica fondamentale – di essere ciò che essi simboleggiano[38].

 

Ma, precisa ancora Florenskij, se l’artista (e, aggiungeremmo, in chi guarda l’icona), «quel contatto con l’essenza spirituale non si è prodotto, essa [l’icona] non ha nessun significato»[39]. Relativamente dunque all’iconostasi e a ciò che procede da una concezione sacrale dell’arte, legata, nel caso della pittura, ad una metafisica dell’immagine, emerge la significativa nozione di «simbolo efficace», dove per efficace si intende “attivo”, ossia in cui è effettivamente presente ciò a cui il simbolo rimanda. Per comprendere meglio questa funzione attribuita alle immagini sacre, con particolare riguardo all’arte bizantina e quindi alle icone, bisogna ricollegarsi alla famosa visione, così si tramanda, avuta da Costantino alla viglia della battaglia di Ponte Milvio: la croce fiammeggiante con la frase «In hoc signo vinces». La notte stessa, l’Imperatore ebbe un’altra visione: Cristo che, reggendo la medesima immagine, ordinava a Costantino di metterla sui labari dietro cui avrebbero marciato le truppe vittoriose. Tale concezione del simbolo efficace permane e si sviluppa, tanto che nel VII secolo troviamo sugli stendardi dell’imperatore Eraclio l’immagine del Cristo Acheiropoietós, “non fatto da mano d’uomo”[40].

Quest’ultimo riferimento, insieme agli altri elementi teologici e alle vicende che siamo venuti delineando, fa ben comprendere lo specifico carattere dell’icona, per cui in essa tutto, fin nei minimi dettagli, ha valore di simbolo esatto e, in assoluto, non modificabile arbitrariamente. Nella fissità ieratica dei propri canoni, l’icona non consente divagazioni, dubbi o astrazioni davanti al mistero che testimonia direttamente, tanto da poter essere definita, sotto un altro aspetto, un rigoroso testo di teologia mistica. Su quest’ultima, ha avuto un influsso determinante la dottrina di Dionigi Aeropagita, che si riflette marcatamente nell’essenza stessa dell’arte bizantina, quale emerge oltre che nelle icone, nei mosaici: la luce. Si assiste così al continuo tentativo di superare, trasfigurandole, le forme del mondo, di andare oltre la materialità, ed è perciò che le figure dipinte sono letteralmente composte di luce, sono il riflesso della luce divina increata. Relativamente a tale influenza sul simbolismo, sulla teologia dell’icona, sullo strutturarsi della sua dinamica interna, si ricorderà, in sintesi, che l’Aeropagita «vede nelle immagini l’ultimo elemento delle gerarchie celesti e terrestri attraverso cui Dio comunica la sua luce alla creazione. L’immagine sacra è il riflesso della luce di Dio che nel colore fa risplendere la materia»[41]. Così, il pittore di icone, cui è sempre richiesta una perizia estrema e, prima di tutto, ispirata, diviene un Creatore-falegname, quando sceglie la tavola di legno e la leviga attentamente, perché questa è la tabula rasa, la materia prima che «sussiste ab eterno». Sulla tavola vengono poi stesi diversi strati di gesso bianco e d’impasto di alabastro, che rappresentano la prima luce creata. Di solito viene posto anche un tessuto, subito sopra il legno, a significare i «i movimenti primordiali dell’Universo». Quindi sullo strato bianco si disegnano i contorni dell’intera composizione, che poi verranno incisi per esprimere ciò che, in quella fase della creazione, è ancora in potenza, nella luce della volontà divina. Luce che si materializza poi nel fondo d’oro delle icone, il quale viene posto subito dopo il disegno iniziale. Sulle lamine d’oro così adagiate, che simboleggiano il «fondamento cosmico», si comincia a dipingere. Con la rottura di un uovo inizia la preparazione dei colori. È il dischiudersi dell’Uovo Cosmico, da cui uscirà il mondo separando l’albume dal tuorlo, che verrà poi diluito in acqua. Ai colori (verde, blu, rosso e giallo), esclusivamente fatti con sostanze naturali e a cui si ricollegano precise corrispondenza minerali e planetarie, si aggiungeranno il nero e il bianco come estremi di tenebra e luce. La creazione passa così dalla potenza all’atto, attraverso le successive stesure di colore (quattro o cinque), che vanno verso tonalità sempre più chiare. Significativamente, gli ultimi tocchi di colore sono costituiti dal bianco puro, in certi casi con lumeggiature auree, simbolo della Grazia divina, che interviene a completare la definitiva separazione della luce dalle tenebre, a «fissare» il mondo creato. A ragione dunque, è possibile affermare che l’oggetto risulta progressivamente «modellato con la luce stessa»[42].

Certo non è difficile ravvisare in tutto ciò e nell’idea stessa di iconostasi, così come nella recondita istanza espressa dalla nozione di “simbolo efficace”, l’esatta consistenza, quasi a tutto tondo potremmo dire, dell’homo symbolicus, l’esplicarsi di quella sua precisa facoltà di cui dicevamo all’inizio del presente capitolo, di cosa si possa e si debba (o dovrebbe) intendere per “creatività culturale”. Altrettanto, ci sembra, appaiono concretamente vivide le nozioni di “realtà” del simbolo e di “simbolo agito”, con tutto ciò che queste, da sempre, implicano, così come abbiamo fin qui cercato di dimostrare. Ci sembra perciò quasi necessario concludere queste pagine con un sillogismo che Florenskij formula riferendosi all’icona più famosa e rappresentativa: la Trinità di Andrej Rublëv e nel quale ci pare come rappresa la migliore definizione di simbolo e, insieme, lo svelamento della sua ineffabile essenza: «Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è»[43].

 

 

[1] Cfr.J. Ries, Il Sacro nella storia religiosa dell’umanità, cit., pp. 231-241; dello stesso, cfr. anche Le religioni. Le Origini, Milano, Jaca Book 1994.

[2] Cfr. AA. VV., I simboli nelle grandi religioni, cit., dalla Postfazione di J. Ries, p. 266; cfr. J. Vidal, Sacro, simbolo, creatività, Milano, Jaca Book 1992, in particolare pp. 31-43, 89-126, 216-224. Per una panoramica articolata sul significato e valore del simbolo dalla religiosità preistorica alle grandi religioni, con un excursus attraverso i principali simbolismi, cfr. N. Spineto (con i contributi di F. Facchini e J. Ries), I Simboli nella storia dell’uomo, Milano, Jaca Book, 2002.

[3] Il richiamo qui è alle tesi proposte da G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo 1991 e cfr. anche Imagination symbolique, Paris, PUF 1984.

[4]J. Vidal, Simboli e simboliche, in I simboli delle grandi religioni, cit., pp. 13-14.

[5]Ivi, p. 15 e riferimento bibliografico di cui alla nota 35.

[6] Data la mole degli studi specialistici sulle valenze di questo simbolismo, per una sintesi orientativa si rimanda a J. Chevalier-A. Cheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli 1989, 2voll, vol. I, alla voce “Croce”, pp. 341-351. Per una emblematica tipologia di ricerca, relativamente allo spessore simbolico insito in talune valenze di cui è portatrice la figura del Cristo, cfr. L. Charbonneau Lassay, Le Bestiaire du Christ, Milano, Archè 1975.

[7]Cfr. M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., pp. 16-17.

[8] Cfr. E. BenvenisteIl vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi 1976, 2 voll., vol. II, p. 485; cfr. anche G. Dumézil,L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Rimini, Il Cerchio 1988.

[9]J. Servier, L’uomo e l’Invisibile, Milano, Rusconi 1973, p. 103 e p. 124.

[10]M. Eliade, The Quest-History and Meaning in Religion, Chicago-London, The University of Chicago Press 1969, tr. It. La nostalgia delle origini, Brescia, Morcelliana 1972, p. 7.

[11]M. Eliade, Immagini e Simboli, Milano, Jaca Book 1980, p. 154.

[12] Cfr. M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, cit., pp. 63-88, 133-168; La nascita mistica, cit., pp. 17-154; V. N. Basilov, Scelti dagli Spiriti, in M. Mandelstam Balzer, I mondi degli sciamani, Milano, Gallone 1998, pp. 5-62; cfr., Aa. Vv., I riti d’iniziazione, Milano, Jaca Book 1989.

[13]J. Servier, L’uomo e l’invisibile, cit., pp. 197-198; inoltre cfr., J. Campbell-M. Eliade-G. Scholem, Iniziazione e rinnovamento: i miti di rigenerazione spirituale nelle grandi tradizioni religiose, Como, RED 1996.

[14] Cfr. H. KERN, Labirinti, Milano, Feltrinelli 1981, p. 16; sul labirinto come “idea mitologica” cfr. K. KERÉNYI, Nel Labirinto, Torino, Boringhieri 1983, pp. 31-105. Sulla configurazione del labirinto come possibile iter iniziatico cfr. M.C. Fanelli, Labirinti, Rimini, Il Cerchio 1997, pp.39-42; P. SANTARCANGELI, Il Libro dei Labirinti, Milano, Frassinelli 1984, pp. 109-153. Relativamente alla nozione di centro cfr. M. ELIADE, Il sacro e il profano, cit., pp. 19-46 e, più in generale, cfr. I riti del costruire, Milano, Jaca Book 1990.

[15] Iliade, XVIII, 590-602.

[16] W. F. OTTO, Die Gestalt und das Sein, Düsseldorf, Diederichs 1955, nella traduzione proposta da M. C. Fanelli, Labirinti, cit., p. 30.

[17] Ibidem e p. 60, nota 34.

[18] Cfr., ad esempio, FULCANELLI, Il Mistero delle Cattedrali, Roma, Mediterranee 1972, pp. 51-53.

[19] Cfr. H. KERN, Labirinti, cit., pp. 85-96. Ciò testimonierebbe anche, più in generale, della presenza di un’altra via di collegamento dell’idea tradizionale di labirinto, dall’antichità al Medioevo cristiano.

[20] Il riferimento è alla pittura vascolare presente sulla cosiddetta “Brocca di Tragliatella”, rinvenuta in una tomba etrusca presso Tragliatella, vicino a Cerveteri e databile intorno al 620 a.C.

[21] Eneide, V, 545-605.

[22] Cfr. R. DEL PONTE, Dei e miti italici, cit., pp. 150-151 e p. 164, note 137-139.

[23] Questa funzione sacrale-apotropaica del labirinto ne spiegherebbe la presenza all’ingresso di antiche città e siti fortificati, come protezione contro forze sottili malefiche.

[24] Cfr. Mahâbhârata, narrato da Rajagopalachari, Milano, Mondadori 1995, p. 79 e sgg.; H. KERN, Labirinti, cit., p. 373 e sgg.

[25] Cfr. supra, nota 14, i rimandi al testo di Santarcangeli.

[26] Cfr. KERÉNYI, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, Milano, Garzanti 1985, 2 voll., vol. II, p. 248. Per quanto concerne il simbolismo della caverna o grotta, in tale prospettiva, si potrebbe far riferimento ai luoghi di culto mithraici, che erano scavati in grotte (o in costruzioni riadattate in tal senso), sulla cui volta era sovente dipinta l’immagine di un cielo stellato; elemento che poi diverrà caratteristico delle logge massoniche. Inoltre, l’iter iniziatico legato al dio Mithra, era costituito da sette gradi che il neofita doveva percorrere per rivivere la mitica esistenza del dio: partendo dalla nascita da una roccia per passare poi alla lotta vittoriosa contro il toro, raggiungendo infine l’ascesa al cielo e la identificazione trasmutativa con il Sole, l’Assoluto. Inoltre, in certi ambienti, si giunse ad assimilare il dio Mithra con Apollo; cfr. A. C. AMBESI, Le società esoteriche, cit. pp. 13-14; R. IORIO, Mitra. Il mito della forza invincibile, Venezia, Marsilio 1998, pp. 12-26.

[27] Cfr. J. SERVIER, L’uomo e l’invisibile, cit., p. 158.

[28] Ivi, p. 169.

[29] Per un’utile disamina della funzione simbolica del cuore, in relazione anche alla fisiologia dell’uomo, nella filosofia antica, cfr. L. ROSSI, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., pp. 178-226.

[30]Il Libro dello Splendore, a cura di E. e A. Toaff, Pordenone, Studio Tesi 1988, p. 5; sulle correlazioni cabbalistiche fra cervello e cuore, nonché sulla “circoncisione del cuore” (Deuteronomio 10, 16), cfr. A. SAFRAN, Saggezza della Cabbalà, cit., pp. 133-143.Per una panoramica ampia, seppur non esaustiva né troppo approfondita, sulle implicazioni del simbolismo relativo al cuore, nelle varie tradizioni e alle corrispondenti fonti, cfr. J. CHEVALIER-A. GHEERBRANT, Dizionario dei Simboli, cit., vol. I, alla voce “Cuore” pp. 359-362.

[31]Chândogya-upanishad, VIII, I, 1 e 3, in Upanishad antiche e medie, cit., p. 330.

[32]Vita nuova, II.

[33]Cfr. T. BURCKHARDT, Introduzione generale alle dottrine esoteriche dell’Islam, cit., p. 14. Cfr. anche F. SCHUON, L’occhio del cuore, cit., pp. 13-20; S. HOSSEIN NASR, Ideali e realtà dell’Islam, cit., p. 158.

[34]‘ABD AL-QÂDIR AL-JÎLÂNÎ, Sirr al-asrār. Il segreto dei segreti, cit. pp. 81-87.

[35]Cfr. THOMAS ŠPILĺK, La spiritualità dell’Oriente cristiano, cit., pp. 288-295, 314-316, sul cuore in particolare, pp. 104-108: V. LOSSKY, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, cit., pp. 189-209; L. ROSSI, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., pp. 178-226, 267-337.

[36]Nella versione datane in Filocalia, a cura di G. Vannucci, Firenze, LEF 1988-1989, 2 vol.II pp. 108-109. Risulta esplicito qui il riferimento alla teoria dei centri sottili, avallata dal riferimento, in altri testi, alla concentrazione-respirazione sulla regione ombelicale. Nelle fondamentali partiche yoga relative ai sei centri (Chakra) o fiori di Loto (Padma), tale zona e quella relativa al plesso cardiaco sono indicate rispettivamente come Manipûra e Anâhata. Per la basilare funzione di questa “fisiologia invisibile”, con particolare riguardo al Kundalini-yoga, cfr. A. AVALON, Il Potere del Serpente, Roma, Mediterranee 1992, pp. 86-202. Questa metodologia è ben conosciuta anche dal sufismo (sebbene con rilevanti differenze), che definisce tali centri come Lataif; cfr. I. SHAH, I Sufi, cit. pp. 338-339. Relativamente al Cristianesimo, cfr. l’introduzione di G. Vannucci ad ANONIMO, Lo joga cristiano, Firenze, LEF 1978, pp. 7-26.

[37]Catechismo della Chiesa Cattolica, 2562-2563.

[38]P. FLORENSKIJ, Le Porte Regali, Milano, Adelphi 1997, pp. 56, 58, 60-61; cfr. anche P. N. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Cinisello Balsamo, S. Paolo 1990.

[39]P. FLORENSKIJ, Le Porte Regali, cit., p. 67.

[40]Cfr. E. SENDLER, L’icona, immagine dell’invisibile, Cinisello Balsamo, S. Paolo 1995, pp. 11-40.

[41]Ivi, p. 153; inoltre cfr. DIONIGI AEROPAGITA, Gerarchia Celeste e Gerarchia Ecclesiastica, in Tutte le opere, cit., rispettivamente, pp. 69-135, pp. 139-242.

[42]Cfr. J. L. Opie, Icona, in L’immagine dello Spirito. Icone dalle terre russe, a cura di C. Pirovano, Milano, Electa 1996, pp. 19-22.

[43]P. FLORENSKIJ, Le Porte Regali, cit., p. 64; sulle potenzialità mistico-teologiche espresse da questo dipinto cfr. D. ANGE, Dalla Trinità all’Eucaristia. L’icona della Trinità di Rublëv, Milano, Ancora 1999.