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Relazioni di un pellegrino da un manoscritto del Monte Athos (a cura di Don Divo Barsotti)

Autore: Anonimo –

(a cura di Don Divo Barsotti)

Editore: Libreria editrice fiorentina, Firenze 1995 –

 

Un omaggio di Regina Equitum alla pratica mistica della cosiddetta “preghiera interiore perpetua, la preghiera del cuore o noetica”; nonchè un attestato di stima per Don Divo Barsotti.

Le “Relazioni di un pellegrino da un manoscritto del Monte Athos” (testo conosciuto anche come “Racconti di un pellegrino russo”) è, assieme alla “Filocalia”, una delle opere fondamentali e più diffuse tra quelle prodotte dalla spiritualità ortodossa. Ne proponiamo la prefazione a cura di Don Divo Barsotti, il quale curò la prima versione, seppur ancora parziale, del testo russo in italiano, in una edizione risalente al 1949 (Ed. LEF, Firenze).

 

Prefazione

Chi era il pellegrino?

Le relazioni di un pellegrino al suo padre spirituale furono stampate la prima volta a Kazan nel 1881; oggi sono già divenute il libro più conosciuto e diffuso della spiritualità russa. Tradotte in tedesco dopo la guerra del 1914, hanno avuto da allora un’altra traduzione in tedesco, due traduzioni in francese, altre traduzioni in inglese: oggi hanno la loro traduzione in italiano. L’immediatezza del linguaggio parlato, il procedere confuso della narrazione, l’assenza di ogni ombra di letteratura e insieme la ricchezza delle scene e delle osservazioni, l’ingenuità fresca e saporosa del racconto, la vivacità popolare, la sincerità della testimonianza di una esperienza rara di vita mistica, la plenitudine di gioia che tutto lo pervade e l’illumina, fanno di questo, un libro forse unico in tutte le lingue del mondo. Si tratta di un testo delizioso che racconta in quattro relazioni fatte al padre spirituale, i pellegrinaggi di uno strannik[1] attraverso l’immensità della steppa e la campagna siberiana. È certo il documento più prezioso e interessante della religiosità popolare russa di un tempo che sembra ormai remoto. Chi scrive, e sembra davvero che parli tanta è la freschezza e la vivacità del racconto, è un paesano della Russia centrale che si è consacrato alla vita ascetica del pellegrinaggio, così frequente e caratteristica nella Russia di allora: tutti i romanzi di Tolstoj, Dostojevsky, di Turgenev, di Ljeskov conoscono questi tipi di pellegrini. Il vocabolario, la sintassi, le immagini sono quelle di un mugik[2], ma il libro anche se non ha pretese letterarie, è ritenuto ormai un classico della letteratura. Avventure succedono ad avventure, incontri a incontri: in poche pagine il pellegrino ci dà un quadro quasi completo e perfetto – anche se un po’ idealizzato – della Russia di un secolo fa: briganti e soldati, guardaboschi sperduti nel deserto delle immense foreste siberiane, scrivani increduli e motteggiatori, ragazze che fuggono alla vigilia del matrimonio, giudici ubriachi, polacchi cattolici, contadini, signori ospitali, nobili, pii sacerdoti, monache… Il pellegrino nelle sue soste ora fa l’eremita col guardaboschi, ora, sagrestano in una piccola cappella; fa la lettura della Filocalia[3] ai devoti, ora insegna a scrivere al figliolo di un contadino. Derubato dai briganti, vien giudicato poi come seduttore di ragazze; per alcuni è un matto, altri lo ritengono un santo e un taumaturgo. Vien bastonato, cade nell’acqua ghiacciata, si sperde nelle foreste, è tentato da una donna: attraverso tutti i suoi casi, egli continua a lodare Dio e il suo cuore trabocca di una gioia senza fine.

È uno dei più grandi libri di avventure: fantastico, vario, avvincente e, quello che più conta, vero. Libro strano, senza riscontro, di cui non sai dire con precisione né dove né quando fu scritto, né chi l’abbia composto. Quanto raccogliamo dalla lettura è tuttavia sufficiente a determinare pressappoco la data della sua composizione. Sembra di dover fissar questo tempo fra la guerra di Crimea 1853-54 e la liberazione del servi avvenuta nel 1862. Ma questo tempo non ci direbbe piuttosto l’epoca nella quale sarebbero avvenute le peregrinazioni del nostro strannik , invece che la data della composizione del libro? Il libro infatti da una parte reca tracce dell’epoca di Alessandro I – primi decenni dell’ottocento – e forse del romanticismo occidentale, dall’altra ha caratteristiche che sembrano proprie invece degli scritti monastici russi degli ultimi decenni del secolo scorso. La medesima incertezza riguardo al luogo. Il libro fu stampato la prima volta a Kazan nel 1881 da Paissio, abate del monastero di san Michele Arcangelo, il quale aveva ricopiato un manoscritto veduto molti anni prima in un monastero del Monte Athos; d’altra parte sembra che il manoscritto l’abbia avuto invece fra mano il celebre staretz Ambrogio di Optina[4] verso il 1860 e fosse di proprietà di una sua penitente. Lo staretz Ambrogio credeva anzi di aver conosciuto l’autore delle relazioni: un certo mercante Nemytov che era stato discepolo per qualche tempo dello staretz Macario di Optina.

 

Autobiografia?

Oggi il manoscritto che ebbe Ambrogio fra mano è scomparso e quello del Monte Athos è introvabile, e non possiamo confrontare nemmeno la prima con la seconda edizione delle Relazioni stampate a Kazan nel 1884 dopo la revisione di Teofano il recluso[5]. Nonostante l’incertezza finale, tuttavia non è difficile avvicinarci alla soluzione del problema che, in fondo, è unico, ed è quello dell’autore delle Relazioni. Le tracce dell’epoca di Alessandro e l’influenza del romanticismo tedesco si possono spiegare con relativa facilità in un uomo del popolo non assolutamente digiuno di cultura che sia vissuto in Russia verso la metà del secolo scorso. Di fatto il pellegrino, che ci narra in queste Relazioni le sue esperienze spirituali, ha cura di farci sapere che sa leggere e scrivere tanto da poter insegnare e forse guadagnarsi con questo mezzo la vita – confrontare nella III Relazione le parole del nonno: «Poiché Dio ti ha dato questo talento, potrai diventar ricco», dove magnificamene si esprime l’ingenua fede di un illetterato nell’onnipotenza della “scienza” –. Anche la professione di mercante si può conciliare con quanto dice il pellegrino, di aver avuto cioè un albergo, certo di infimo ordine. Concorda anche in questo quanto diceva lo staretz Ambrogio con quanto dice di sé il pellegrino, che Nemytov o comunque l’autore delle Relazioni sarebbe stato di una provincia della Russia centrale. Le caratteristiche proprie degli scritti spirituali degli ultimi anni del secolo scorso e soprattutto certe digressioni filosofiche e teologiche, che qua e là rompono la narrazione o commentano e spiegano gli

stati e le esperienze del pellegrino, si debbono invece a una revisione, e quasi con certezza a più revisioni fatte successivamente, con più o meno scrupolo e con mano più o meno felice, prima, forse,  dallo staretz medesimo che accolse le confidenze del pellegrino, e poi dai monaci che trascrissero e pubblicarono le Relazioni. Sembra anche di dover ammettere che il manoscritto avuto in mano da Ambrogio non fosse concorde altro che lontanamente con le Relazioni che noi possediamo. Dopo la morte dello staretz infatti furono trovate fra le sue carte altre tre relazioni che avrebbero continuato il nostro libro ma le tre relazioni, pubblicate nel 1911, hanno soltanto una vaga somiglianza con le altre quattro già conosciute. La loro composizione tradisce troppo il fine di propaganda religiosa e la mano di un dotto.

Si può dunque pensare che fra il 1840 e il 1860 un uomo del popolo, forse un piccolo mercante della provincia di Orel, inabile per qualche motivo al lavoro, si sia dato all’ascesi del pellegrinaggio divenendo uno strannik . Si può supporre che il suo padre spirituale stesso l’abbia sollecitato a scrivere le sue esperienze spirituali, comunque non ci sembra possibile mettere in dubbio il fondo autobiografico delle Relazioni. Se il padre spirituale al quale il pellegrino confidava le sue esperienze era un certo monaco Atanasio del Monte Athos che in quegli anni si trovava in un monastero della Russia centrale, sarebbe facilmente spiegabile il duplice manoscritto: quello che ebbe fra mano lo staretz Ambrogio e il manoscritto del Monte Athos. Il manoscritto dello staretz Ambrogio sarebbe stato soltanto una copia delle Relazioni del pellegrino fatta dal suo padre spirituale, che voleva diffondere la preghiera di Gesù col far conoscere le esperienze spirituali di un suo penitente. Il vero manoscritto egli invece l’avrebbe conservato per sé e sarebbe finito poi al Monte Athos.

Tuttavia più semplice di tutto è che il pellegrino abbia scritto le sue Relazioni, come risulterebbe proprio dal libro, per un monaco di Irkutsk. Ci sembra che la soluzione più vera debba essere quella che è più conforme a quanto vien narrato nel libro; fino a prova contraria, la revisione, pure innegabile, non è stata una rifusione del libro e noi dobbiamo far credito più all’ingenuo scrittore che alla nostra fantasia. Come il manoscritto sia giunto al Monte Athos e l’abbia avuto quasi contemporaneamente fra mano lo staretz Ambrogio rimarrà sempre un mistero. P. Dumont, conoscitore profondo dell’Oriente, ha veduto nelle Relazioni un «trattato della preghiera» che secondo un piano e una progressione didattica, dopo aver insegnato cos’è la preghiera e la sua necessità primordiale per la vita cristiana, dopo aver detto qual è il libro che può illuminarci e guidarci nella nostra vita interiore, di una importanza non inferiore quasi alla Sacra Scrittura (Prima Relazione del Pellegrino), attraverso i molteplici episodi descritti nella seconda e nella quarta Relazione, risolve le obiezioni che si possono fare a questa vita interiore di preghiera specialmente insistendo sulla possibilità di consacrarvisi anche per la gente del mondo: insegna l’uso della Filocalia e vuol dimostrare, dopo aver imparato in modo perfetto a praticarla, l’efficacia della preghiera di Gesù e i suoi effetti nell’anima che vi si è consacrata.

Non dobbiamo esagerare: il libro è letterariamente troppo bello perché sia nato come libro didattico e soprattutto perché sia stato scritto da un monaco che avrebbe inventato tutto e avrebbe preferito la forma aneddotica alla forma didattica. È più probabile che questo capolavoro letterario sia il frutto spontaneo di un pellegrino quasi senza cultura che pensarlo al contrario una finzione letteraria. Sarebbe un miracolo troppo grande in un monaco russo un così vivo senso dell’arte. Si può invece pensare che il revisore o i revisori abbiano scelto gli episodi, togliendone alcuni che forse con più verità ritraevano il livello medio della vita russa e lasciando i racconti che ritraevano invece il tipo ideale della vita evangelica per ogni classe della società: nobili, soldati, clero, contadini. Ai revisori poi si dovrebbero, e questo con maggiore probabilità se il libro è divenuto la guida per il miglior uso della Filocalia nello stabilire l’ordine delle letture, le indicazioni pratiche per il modo di interpretare quello che insegna la Filocalia stessa.

 

La via della santità

Comunque, lasciando da parte la questione dell’autenticità, la dottrina delle Relazioni è stata riconosciuta e approvata dallo staretz Ambrogio e dal vescovo Teofane il recluso, e pochi altri libri ci possono dare un’idea più vera della spiritualità russa: forse un’altra breve Relazione soltanto ha la sua stessa importanza, quella del colloquio di Serafino di Sarov[6] con Motovilov ed esse rimangono le testimonianze più alte del Cristianesimo russo. Il Colloquio di san Serafino ci è giunto senza cangiamenti, la revisione innegabile delle Relazioni del pellegrino ha forse adattato invece una viva e più libera esperienza alle dottrine e ai metodi mistici dell’esicasmo[7]. I due libri concordano nello spirito di una generosa larghezza che estende anche ai laici l’invito alle più alte esperienze della vita mistica e giustificano, anche per i cattolici, certe dottrine specificamente orientali che se hanno avuto delle interpretazioni e degli svolgimenti pericolosi ed erronei – in Gregorio Palamas[8] e nell’esicasmo –, possono avere però un’interpretazione e uno svolgimento che noi pure possiamo accettare: voglio dire in particolare la dottrina della trasfigurazione o della luce e l’altra della perpetua preghiera. È da notare del resto che queste dottrine non sono affatto dottrine orientali del secolo XIV: la dottrina della perpetua preghiera o della preghiera di Gesù risale con Diadoco di Fotichea[9] ai Padri del deserto, e la dottrina della luce e della trasfigurazione, oltre che gettar le sue radici nella liturgia, può riconoscersi in germe nelle opere dei più grandi e autorevoli Padri orientali. Tutte e due queste dottrine, molto prima del secolo XIV, hanno avuto il loro maestro nel più grande mistico che forse abbia avuto l’Oriente e che appartiene alla Chiesa indivisa perché morto nel 1022, trent’anni prima dello scisma: Simeone il Nuovo Teologo[10].

Se è particolare delle Relazioni la dottrina della continua preghiera, non mancano però cenni alle dottrine sulle quali insiste più particolarmente il Colloquio. Anche per il pellegrino la santità è il ritorno al Paradiso perduto; non soltanto, si badi, al possesso della grazia ma, con la grazia, al possesso anche dell’integrità naturale. Tutto ritorna soggetto all’uomo, il miracolo diviene l’azione del Santo, esprime il suo dominio sulla natura e la sua libertà.

Il maestro di scuola dice al pellegrino: «Tu sai bene che quando il nostro padre Adamo era innocente e santo, tutti gli animali gli erano obbedienti e gli stavano docilmente vicino, mentre dava loro dei nomi. Il vecchio a cui apparteneva il rosario era un Santo. Ora, cosa vuol dire esser Santo? Per noi peccatori, vuol dire ritornare allo stato primitivo d’innocenza, poiché quando l’anima è santa, anche il corpo diventa santo. Il rosario del Santo, che era sempre nelle sue mani, poteva contenere la forza del primo uomo avanti la sua caduta. Le bestie sono sensibili anche oggi a questa forza».

Mediante l’ascesi l’anima si districa dalla schiavitù dei sensi e «ritrova le sue facoltà e agisce nella pienezza delle sue forze. Allora molte cose incomprensibili divengono naturali», spiega il pellegrino al cieco sulla via di Tobolsk.

Più che cenno a una dottrina mistica, è testimonianza mirabile di vera esperienza, nelle Relazioni, la trasfigurazione di tutta la realtà, di tutta la natura. «Quando, in seguito, io pregavo nell’intimo raccoglimento del mio cuore, tutto quello che mi circondava mi pareva stupendo e miracoloso: gli alberi, le erbe, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce sembravano dirmi che tutto era creato per l’uomo, che tutto era la prova dell’amore di Dio per l’uomo, che tutto pregava Dio e tutto gli presentava lode e adorazione». E ancora: «Ciò che sentivo non era soltanto dentro di me: tutto quello che esisteva intorno mi appariva sotto una luce nuova, più bella; tutto mi spingeva a lodare, a ringraziare Dio. Gli uomini, gli alberi, le piante, gli animali, tutto mi sembrava come se avesse un’anima sola, dappertutto trovavo l’immagine di Gesù». Come non ricordare Macario Ivanovic nell’Adolescente di Dostojevsky? La stessa visione estatica della bellezza ineffabile dell’universo penetrato dalla luce di Dio, lo stesso intenerimento, la medesima purezza di gioia. L’uomo ritornato uno con Dio, ritorna anche uno con tutte le cose; non è più smarrito nella vasta solitudine del mondo, egli si sente circondato da amore. Una divina consonanza lo unisce a tutta la creazione nella lode di Dio e tutto ora gli è vicino, amico: gli uomini, gli alberi, gli animali; tutto è come se avesse un’anima sola e una sola è la bellezza e la vita dell’universo. Ora si rivela all’anima del pellegrino il mistero della creazione e la creazione intera ritorna ad essere nuovamente l’antico Paradiso nel quale Dio non era lontano dall’uomo ma viveva con lui.

Moltissimi sono i punti di contatto fra quello che dice il nostro pellegrino e quanto scrive Dostojevsky. La visione di Macario Ivanovic nell’Adolescente ripete la visione del pellegrino, l’atto di baciare la terra di Alioscia risponde al gesto di gratitudine commossa del pellegrino nelle Relazioni: «Pregai, baciai la terra in cui Dio aveva mostrato la sua grazia a me, indegno, presi il mio sacco e me ne andai». Finalmente la conversione del principe nelle Relazioni brulica di espressioni e di atteggiamenti familiari all’arte di Dostojevsky. La conversione di Zosima nei Karamazov come quella del principe nelle Relazioni è provocata dal rimorso per uno schiaffo dato senza ragione a un dipendente. Le apparizioni e gli incubi paurosi del principe ricordano uguali incubi e apparizioni in Stravoghin. Le espressioni del principe dopo la conversione ci ripetono le espressioni del fratello di Zosima: «Allora seppi per esperienza che cos’è il Paradiso e come il regno di Dio può schiudersi, sulla terra, nel nostro cuore». Se si tratta di una dipendenza bisogna pensare che Dostojevsky ha conosciuto le Relazioni, perché supera ogni verosimiglianza supporre che Teofano, il conoscitore profondo di tutta la tradizione spirituale dell’Oriente, non soltanto abbia aggiunto l’episodio del principe, ma si sia ispirato a Dostojevsky per divulgare, con le Relazioni, i metodi della spiritualità monastica orientale. Dostojevsky del resto ha potuto conoscere le Relazioni dallo staretz Ambrogio col quale più volte volle incontrarsi. Ed è stato notato come la spiritualità dello scrittore si ispiri alla religiosità popolare. Molto verosimilmente ci troviamo dinanzi a una delle fonti più importanti della grande letteratura russa.

 

San Serafino e il pellegrino

Non soltanto la dottrina che vede nella santità e nella vita mistica il ritorno allo stato primitivo d’innocenza avvicina le Relazioni al colloquio di Serafino, ma molto di più la dottrina della luce divina. Nel colloquio di Serafino la trasfigurazione dello staretz davanti agli occhi stupefatti di Motovilov e la visione di questa luce rappresentano il punto più alto di tutto il colloquio, come nella mistica orientale questa stessa visione è la più alta esperienza di Dio. Il pellegrino nelle Relazioni non ha la stessa esperienza di Serafino di Sarov; nel grande staretz la trasfigurazione e la visione è così libera, pura da ogni legame o riferimento a una dottrina già precedentemente conosciuta, così pura da ogni vanità dottrinale, così pura da ogni ripiegamento psicologico che non possiamo metterla in dubbio. Ci sentiamo davvero dinanzi a una manifestazione stupenda della grazia divina, a una testimonianza veritiera e meravigliosa nella sua semplicità della mistica orientale. Noi non possiamo mettere in dubbio la buona fede del pellegrino, ma le esperienze che egli narra della luce divina, tranne le illuminazioni interiori, ci persuadono assai meno, non hanno lo stesso tono di verità, la stessa pura, semplice grandezza. Egli ci parla di un cieco col quale viaggia verso Tobolsk: «Di quando in quando gli pareva di veder la luce, senza distinguere gli oggetti. Qualche volta discendendo nel proprio cuore, gli pareva di scorgere come la fiamma di una candela che si accendeva all’improvviso lì dentro e usciva dalla gola. Questa fiamma lo illuminava e gli permetteva di vedere a distanza».

In generale il pellegrino immiserisce, forse per una più stretta aderenza ai testi monastici, forse per una sua esperienza meno sublime, la grandezza, la semplicità, la generosità dell’insegnamento di Serafino di Sarov, anche quando concorda con lui. Così qui nella visione della luce, così prima di estendere ai laici l’invito alle più sublimi esperienze spirituali. «Per quel che riguarda il fatto che io sono un monaco mentre voi non lo siete, non bisogna neanche parlarne», dice Serafino. Ma il pellegrino insegna: «Caro Signore, non dite così! Che la preghiera continua è impossibile ai laici. Perché se fosse stata impossibile, Dio non ce l’avrebbe affatto raccomandata… Certo per gli eremiti questi mezzi sono maggiormente elevati, ma ve ne sono anche per i laici…». L’anima del pellegrino possiede meno libertà di quella dello staretz di Sarov; questo anche riguardo alla dottrina della continua preghiera di cui tuttavia Serafino non parla. Certo il pellegrino è ben lontano da aderire servilmente ai metodi e alle tesi dell’esicasmo: nel suo buon senso paesano egli si è tenuto all’essenziale e ha lasciato da parte quanto vi è di scabroso e anche di erroneo in quelle tesi e in quei metodi. P. Dumont prima, poi Gauvain hanno riconosciuto che nei metodi e nella dottrina della continua preghiera, com’è praticata e insegnata dal pellegrino, non sembra vi sia nulla che possa esigere un particolare avviso, una particolare riserva da parte cattolica. Una certa disciplina del respiro è raccomandata, per alcune forme di preghiera, anche da sant’Ignazio di Lojola negli Esercizi. D’altra parte non sembra che il pellegrino veda nel metodo una ricetta tecnica che ottiene infallibilmente l’effetto: l’esperienza mistica cioè rimane per lui una grazia cui possiamo e dobbiamo disporci, ma che non possiamo concederci o procurarci a piacimento. La preghiera incessante di Gesù, esigendo il distacco da ogni immaginazione o pensiero vano, esigendo un estremo raccoglimento e un abbandono pieno a Dio, non fa che disporre l’anima purificata, vuota di ogni fantasma e libera da ogni affetto, tranne della sua aspirazione, a ricevere il dono divino. Però il pellegrino rimane, nonostante tutto, troppo ancora legato alle formule e ai metodi, e preoccupato di realizzare l’insegnamento della Filocalia; assai più legato di Serafino di Sarov. «Bisogna pregare –questi dice – solo fintanto che lo Spirito Santo non scenda su di noi, dandoci la grazia nella misura a lui nota e quando si degnerà di visitarci occorre interrompere anche la preghiera». E spiega poi in che consista questa preghiera pura di silenzio e di abbandono a Dio che egli raccomanda. «Io vi dico nel nome di Dio che quando lo Spirito Santo, per la virtù onnipotente della fede e della preghiera, si degnerà visitarci e verrà a noi nella pienezza della sua inesprimibile grazia, allora occorre abbandonare anche la preghiera. L’anima parla mentre prega, ma al giungere dello Spirito Santo, occorre mantenere il silenzio più pieno per poter udire con chiarezza e profitto le parole che Egli ci vorrà manifestare». Non soltanto il pellegrino è più legato di Serafino di Sarov, ma perfino del suo revisore. E questo ci sembra molto importante anche per giudicare che dunque è il pellegrino che parla, e non un monaco che abbia trasformato interamente le relazioni per farle servire alla propaganda di metodi monastici. Teofane il recluso infatti ha scritto queste parole luminose: «Quando questa scintilla di fuoco che è la grazia si trova nel cuore, la preghiera di Gesù la rianima e la trasforma in una fiamma. E tuttavia non è questa preghiera che produce la scintilla, ma dona soltanto la possibilità di riceverla, unificando i pensieri e volgendo l’anima a Dio. La cosa principale è tenersi davanti a Dio, aspirando a Lui dalla profondità del cuore. Così debbono fare tutti coloro che cercano il fuoco della grazia: quanto alle parole o alle posizioni del corpo durante l’orazione, son cose secondarie. Dio guarda il cuore». Il pellegrino è troppo preoccupato di quello che dice la Filocalia e questa preoccupazione mi sembra che riveli più l’impaccio di un pellegrino laico che voglia tenersi scrupolosamente alle regole, a una certa “ortodossia letterale”, che la dottrina di un monaco che voglia far propaganda di un metodo ascetico, soprattutto perché, nonostante la sua fedeltà alla Filocalia e la sua volontà di attenersi alle regole, il pellegrino, nella sua semplicità e nel suo abbandono alla grazia, supera poi facilmente le strettezze e le stranezze del metodo. Protesta teorica di fedeltà e superamento pratico del sistema: ecco quello che mi sembra distinguere l’esperienza del nostro strannik.

Ma qual è questa dottrina e quale questo metodo della continua preghiera che il pellegrino vuole insegnare con la sua esperienza? È la dottrina e il metodo che egli ha trovato nella Filocalia. «Siediti silenzioso e solitario, china la testa e chiudi gli occhi respira più dolcemente, penetra con la tua mente nell’interno del tuo cuore, raccogli la tua intelligenza cioè il tuo pensiero dalla testa nel cuore e ad ogni respiro, muovendo dolcemente le labbra o col tuo spirito, dì: Signore Gesù Cristo abbiate misericordia di me. Sforzati di scacciare ogni pensiero, abbi calma e pazienza ripeti più spesso che puoi questo esercizio». Lo strannik sotto la condotta di uno staretz lo ripete vocalmente prima tremila volte, poi seimila, finalmente dodicimila volte per giorno; coll’andare del tempo egli impara, mediante la disciplina del respiro, a recitarla indipendentemente dal labbro, col cuore. Qualcosa di molto strano per noi è la tecnica di questa preghiera interiore nell’“attenzione” che presta ai vari “luoghi” del corpo. Questa attenzione, secondo quanto spiegava un monaco russo, nell’ultimo congresso internazionale di psicologia religiosa ad Avon – Fontainebleau, sarebbe soltanto un interessamento di diverse parti del corpo nell’attività orante, interessamento di cui l’anima si accorge quando, per qualche motivo esterno, interrompe inaspettatamente la sua preghiera: se stava ragionando avverte che era occupata la parte superiore del capo, se si trovava nella orazione affettiva si accorge di una certa attività del cuore. Secondo padre Gabriele di S. Maria Maddalena la tecnica esicasta della preghiera si avvicina molto più alla meditazione cattolica che alla tecnica indiana della contemplazione. Noi non lo sappiamo. Ci sembra tuttavia che l’“attenzione” che il pellegrino presta, durante la preghiera, al suo cuore sia molto più che un semplice interessamento del cuore nella preghiera ed è questa l’unica cosa che non riusciamo a capire e non sappiamo ancora approvare nella dottrina della continua preghiera, come ci viene insegnata dalle Relazioni del pellegrino.

Questa dottrina e questo metodo di preghiera è tuttavia della migliore tradizione spirituale russa. San

Nilo di Sora lo importò dal Monte Athos nel secolo XV e subito ebbe grande fortuna. Ma dal secolo seguente i movimenti mistici furono soppressi fino a che non li fece rivivere il grande Paissio Velitchkowski dopo essere emigrato nei Balcani, al Monte Athos in Romania. La tradizione spirituale di Paissio passò poi a Optina dove il pellegrino, secondo lo staretz Ambrogio, avrebbe forse appreso il metodo dallo staretz Macario che sarebbe stato per qualche tempo suo direttore. Il metodo non farebbe che liberare l’aspirazione inconscia e profonda dell’essere umano che creato da Dio tende a Lui con tutto il desiderio di cui è capace. «Un maestro di spirito aveva ragione a dirmi che nel fondo del cuore umano vive una preghiera segreta: l’uomo non lo sa, ma qualche cosa di misterioso è nella sua anima e lo spinge a pregare come può, secondo la sua comprensione». E il maestro di scuola spiega al pellegrino: «Non è scritto nel Nuovo Testamento che l’uomo e tutta la creazione obbediscono per loro istinto al governo di Dio? I nostri sospiri misteriosi, l’aspirazione naturale di tutte le anime verso Dio, questa è la preghiera interiore. Non c’è bisogno d’impararla, è innata in noi».

Col metodo e l’insegnamento della Filocalia, il pellegrino «la scoprirà in se stesso, la sentirà poi nel suo cuore, la comprenderà con l’intelletto, la riconoscerà con la volontà, possederà la gioia e sarà finalmente illuminato giungendo alla salvezza». In queste semplici parole in una sola frase meravigliosamente densa, è descritto tutto il cammino dell’anima a Dio, secondo la mistica orientale. Come il Padre eternamente genera il Verbo, così tutta la creazione aspira a Dio nel nome di Gesù. La vita di tutto l’universo esala in questa aspirazione: «Tutto pregava Dio e tutto gli presentava lode e adorazione». Quando il pellegrino stesso vivrà di preghiera, egli sarà in armonia con tutta la creazione. Allora frutto della sua preghiera sarà uno stato di pace e di rapimento, «purezza nei pensieri, leggerezza e vigore in tutte le membra, un benessere generale… intelligenza del linguaggio di tutte le creature e certezza della vicinanza di Dio e del suo amore per tutti». Tutto il libro canta con divina semplicità questa esperienza perché la preghiera non è soltanto il legame che unisce tutte le cose, ma è veramente l’anima e la vita del tutto. La luce che trasfigura ogni fatto, la pace che penetra ogni cosa è proprio il sentimento della presenza di Dio, anzi la chiara coscienza della grazia, la certezza di un Amore divino che abbraccia e riempie la creazione intera.

[1] Strannik: nel linguaggio popolare russo, indica il pellegrino, colui che gira per villaggi e paesi, senza fissa dimora, a motivo di Cristo, vivendo di elemosine e pregando per tutti. Il pellegrino era in genere una persona benvoluta dal popolo, che vedeva in lui benedizione di Dio, persona da ascoltare come un santo e alla quale raccomandarsi nelle preghiere.

[2] Mugik: in russo significa “contadino”, a volte col significato spregiativo di persona rozza.

[3] La Filocalia è una straordinaria raccolta di insegnamenti di Padri e maestri spirituali dell’Oriente cristiano. Uscì per la prima volta nel XVIII secolo e divenne ben presto un testo fondamentale nel mondo ortodosso. La dottrina della “preghiera di Gesù” viene ivi trattata magistralmente con ricchezza di insegnamenti. In Italia esiste una traduzione completa della Filocalia (Edizioni Gribaudi), ma anche estratti parziali della stessa.

[4] La parola staretz significa anziano, ossia, nella vita monastica, il padre spirituale. Optina è un famoso monastero che si trova in Russia nella provincia di Kaluga. Nell’800 ebbe un enorme sviluppo e impulso, divenendo faro e centro di riferimento per tutta la Chiesa russa del tempo, grazie anche a degli abati di grande spessore e santità, soprattutto tre: Leonida, Macario, Ambrogio. Uomini come Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’, Solov’ëv, Florenskij, erano abituali frequentatori del monastero di Optina.

[5] Teofano il recluso è il più eminente scrittore religioso russo dell’ ’800. Fu vescovo a Tambov, poi si ritirò e visse prima come monaco e infine come recluso, una vita dedicata interamente alla preghiera, al silenzio, alla celebrazione solitaria della divina liturgia. Tradusse in russo la Filocalia e curò le prime edizioni de I racconti di un pellegrino russo.

[6] San Serafino di Sarov (1759-1833) è il santo più venerato e amato in Russia, e probabilmente una delle figure più luminose di tutta la storia del cristianesimo. Famoso per la straordinaria gioia di cui era ricolmo e che trasmetteva con la sua sola presenza. L’unico scritto che si conserva di lui è il Colloquio con Motovilov, insegnamento sullo Spirito Santo trascritto dallo stesso discepolo M. Motovilov.

[7] La parola esicasmo deriva dal greco esichía che indica raccoglimento, silenzio, solitudine, unione con Dio. L’esicasmo è quel tipo di preghiera di chi tende allo stato di quiete e silenzio interiore, ricercato anche con tecniche esteriori, per favorire il raccoglimento in Dio.

[8] Gregorio Palamas (1296-1359), monaco del Monte Athos. Verso i 50 anni fu nominato vescovo di Tessalonica. Scrisse molti trattati di teologia mistica, soprattutto sulla conoscenza di Dio.

[9] Diadoco di Fotichea (400 ca. – 486 ca.), vescovo di Fotichea. Il suo insegnamento si pone nella tradizione dei Padri del Deserto. La sua opera più famosa è: Discorso ascetico in 100 capitoli.

[10] Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), una delle figure più eminenti del monachesimo orientale. Studioso e asceta si dedicò in particolare alla dottrina sullo Spirito Santo. Sospettato di dottrina non corretta, fu mandato in esilio, ove morì. Riabilitato in seguito, influenzò la vita spiritale di generazioni di monaci russi.