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…nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia… (Note di D. Mattalia)

Canto XXXIII del Purgatorio, incisione di Gustave Doré

 

Prologo (a cura della Redazione)

La più famosa delle profezie dantesche. della quale qui proponiamo le note di commento di Daniele Mattalia, invitano a riflettere sulla funzione storica, non affatto conclusa, della Regalitas Imperiale.

Proprio nei presenti giorni, sulla cui valenza escatologica non pare esservi alcun dubbio, pare ancor più necessario il ripristino del Sacrum Imperium e della sua peculiare funzione legata alla Iustitia. La quale non deve esser colta soltanto nella sua accezione puramente amministrativa, ma anche, e piuttosto, in quella simbolico-metafisica.

La Giustizia è sì lo strumento atto al mantenimento dell'”ordine sociale”, ma solo per riflesso a quella che è la propria natura ontologica “principiale”: il costitursi, cioé, come la corretta “adesione alla norma (ius)”; la quale adesione, da parte sua, è in verità ciò che garantisce all’uomo la piena conformità e concordanza con l'”Ordine cosmico”. 

La funzione dell’Imperium rimane pertanto assolutamente parallela e sinergica a quella del Papato, in quanto entrambe costituiscono e rappresentano la diade di “Giustizia e Misericordia” che deriva direttamente dal Cristo Signore Gesù la propria ragione e la propria realtà.

 

Divina Commedia – Purgatorio, XXXIII vv.43-44

(A cura di Daniele Mattalia, Rizzoli Editore, Milano 1960)

 

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

v. 43

cinquecento… cinque: il modo dell’indicazione, fatta per mezzo di numeri, è derivato dalll’Apocal. XIII, 18, dove il personaggio simboleggiato dalla Bestia è appunto indicato da una serie numerica: «numerus eius sexcenti sexaginta sex». Su questo perno, come già sulla profezia del Veltro, di Inf. I, han girato il volano delle ipotesi e l’ingegnosità ermeneutica degli interpreti nobilmente impuntigliati a cavarne qualcosa di non troppo impreciso o inafferrabile. E il metodo più plausibile per approdare a qualcosa, più che il ricamo sul valore simbolico dei numeri entranti nella combinazione (5-10-100), è parso quello di leggere, integrando, il segno grafico romano dei tre numeri, rispettando o spostandone la successione. E si è così ottenuto: «DVX» («dux», duce, capitano); «DOMINI XRISTI VERTAGUS», (Veltro di Cristo); «DANTE XRISTI VERTAGUS» (Dante Veltro di Cristo) ecc.

Che Dante, semplice «scriba» o resocontista della profezia alluda a se stesso è nettamente da escludere, come pure che possa trattarsi di un Pontefice, tesi troppo in contrasto col generale ma perentorio significato del passo, e tanto più in quanto l’adombrato problema di una «liberazione» della Chiesa comporta una soluzione di forza. Messo di Dio, il dantesco 515, se non si voglia uscire indebitamente dai precisi limiti della dottrina politica esposta nel Mon.. ed echeggiante con toni apocalittici e messianici nelle Epist. Politiche, non può essere che un Imperatore o tutt’al più un Potere subordinato che dall’investitura imperiale derivi la legittimità e la natura provvidenziale del proprio mandato.

Non è strettamente necessario pensare a un personaggio determinato, e le varie ipotesi del resto s’insabbiano nella mal risolta questione della datazione degli ultimi canti del Purg. I due candidati più autorevolmente titolati a impersonare il 515 sono, comunque: Arrigo VII (e in tal caso il canto rifletterebbe direttamente le vampe dell’ardente aspettazione di Dante nei riguardi dell’impresa di Arrigo); e Cangrande della Scala: secondo qualche interprete, anzi, la profezia del Veltro (Inf. I, 101-105), questa, e la profezia su Cangrande di Par. XVII, 77-90, costituirebbero un tutto strettamente ed intenzionalmente coordinato. «Obscura est scientia in prophetis», avvertiva già Gregorio Magno (Homil. In Ezechielem: cit. V. Cian), e concediamo che l’Ermeneutica è interessante e ricca di curiosi piaceri: ma ci par anche che la tesi, audacemente accampata nel passo, della necessità e del diritto dell’Impero di intervenire per ricondurre la Chiesa nei limiti del proprio mandato, valga assai più di tutto il resto.

v. 44

messo di Dio: starebbe meglio (e così in qualche codice) «messo da Dio», (da ciel messo in Inf. IX, 85 e Purg. XXX, 10) con rituale ricalco del notissimo «fuit homo missus a Deo» dell’inizio del Vangelo di S. Giovanni. E’ sottintesa la dottrina, esposta nel Mon. e rincalzata in Par. VI, 28 sgg. dell’origine divina dell’Autorità imperiale.

anciderà : ucciderà, farà, perire.

la fuia: la ladra, propriamente (come in Inf. XII, 90; Par. IX, 75): la Meretrice. Se si tratta di Clemente V, si può desumere che Dante consideri come usurpata la potestà pontificale (e «usurpatio iuris non facit ius», si ricorda in Mon. III, 11) o per il modo dell’elezione; o per l’indegnità del Pontefice; o per l’indebito esercizio della potestà stessa, usata a fini illeciti o asservita ad altri poteri.

 

Epilogo (a cura della Redazione)

Nonostante la qui riportata lettura della nota profezia dantesca, operata dal Mattalia, mantenga un profondo significato ed il proprio indiscutibile valore, tuttavia – come del resto tutte quelle pur orientate nel medesimo senso – anch’essa non esaurisce le implicazioni sottese al simbolismo del n. 515.

A tal proposito, ci può venire in soccorso il procedimento ermeneutico della gematria, allorché si osservi come proprio questo numero costituisca il valore della parola greca παρθενος, che traduce “vergine” (515 = 80+1+100+9+5+50+70+200).

Che il misterioso “cinquecento diece e cinque” coincida dunque con l’idea archetipale del Sacrum Imperium, prima ancora che con un determinato e particolare individuo, è attestato dall’intima pregnanza che il suddetto termine παρθενος detiene, allorché venga colto alla luce del proprio valore etimologico.

L’etimo deriva infatti dall’ind. e. guhen, che è espressione della “pienezza fisica”. Ne rappresenta peraltro un analogo la parola ευ-θενεια, anch’essa derivante dalla medesima radice etimologica, che a sua volta significa “esser gonfio, abbondante, fiorente, prospero, fecondo”.

Lo stato di “verginità” a cui insomma rimanda il cinquecento diece e cinquenon è altro che quello stato ontologico di ciò che, di umano, risulta proiettato al massimo grado verso la fecondazione divina: la vacuità dell’anima disponibile e pronta a ricevere il seme dello Sposo. Solo l’integrità e l’interezza detenuti da ciò che si ponga nello stato di “verginità” può insomma presumere di potersi rivelare veramente e abbondantemente fecondo.

Anche il lat. virgo, con cui pure si traduce “vergine”, non viene meno alle suddette conclusioni, dato che il suo etimo è riconosciuto provenire dal verbo virere, “verdeggiare, essere fiorente, vigoroso, giovanile”. Sussiste oltretutto una sua relazione col sostantivo sempre latino virga, che indica un “ramoscello verde”, ma anche la “verga” e nella fattispecie proprio quella facente parte del romano “fascio littorio”; sempre a Roma era simbolo di alcune “magistrature”, mantenendo pertanto una relazione con la Iustitia e, non da ultimo, con la virga si indicava lo “scudiscio” adoperato nel cavalcare.

E’ del tutto evidente, quindi, quanta significatività mantenga il sussistere di uno stretto rapporto tra l’Imperiume la S. Vergine Maria; così come tradizionalmente venga sempre fatto coincidere con la presenza di un Sovrano legittimo la “fecondità e prosperità” della terra. Il colore dei ghibellini era il “verde”, nonché quello preferito da Federico II.