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L’Impero come corpo della Chiesa: una riflessione (di Attilio Mordini).

Preambolo (a cura della Redazione)

Nel capitolo intitolato La Lotta per le investiture, facente parte del saggio ‘Il Tempio del Cristianesimo’, Attilio Mordini affronta il controverso tema dello status che l’Istituto Imperiale mantiene nei propri rapporti con il Papato. Le sue conclusioni prendono le mosse dal fatto che solo per dei tardivi equivoci ed incomprensioni, più o meno in buonafede, si è rimossa quella verità che invece, durante il medioevo, di fatto riconosceva già molto chiaramente che tanto il Papato quanto l’Impero nel loro insieme costituiscono ‘la Chiesa’. Se il primo ne è difatti l’anima, il secondo ne è il corpo.

Riproponiamo qui quelle riflessioni, con l’auspicio che esse possano contribuire a chiarire quegli equivoci e a dissipare quelle incomprensioni.   

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LA LOTTA PER LE INVESTITURE (di A. Mordini)

Si è scritto molto sulle relazioni tra stato e Chiesa nel medioevo ad opera di autori moderni, ma non si è ancora compreso a sufficienza che nell’ordinamento medievale non v’era dualità tra stato e Chiesa come se si fosse trattato di due enti diversi. In realtà non esisteva stato; v’era solo la Chiesa, unico gregge sotto un solo pastore ma con due diverse autorità e due diverse gerarchie, la gerarchia del clero e la gerarchia civile. Era appunto l’ordinamento civile a chiamarsi Impero; ma Imperium significa solo comando, autorità; una virtù dunque, non una vera e propria società quale è la Chiesa, vale a dire tutta l’organizzazione spirituale, civile e materiale della Cristianità cattolica. E se Roma era la sede dei Papi, era al tempo stesso la vera capitale dell’Impero.

Con la colpa originale l’uomo aveva perduto soprattutto due prerogative: lo scire recte e il recte agere; vale a dire la perfetta conoscenza della verità, sì che era diventato fallibile, e la forza di agire rettamente; non solo in quanto per fare il bene è necessario determinarsi secondo retto giudizio e quindi secondo verità, ma anche perché troppe volte l’uomo, pur vedendo il bene e distinguendolo dal male, è portato ad appetire più il secondo che il primo. È appunto la violenza della tentazione che rende necessario l’aiuto della coercizione dall’alto. Nella società cristiana della Chiesa perciò si davano, nel medioevo, due complementari potestà; quella del romano Pontefice, per restaurare lo scire recte col Magistero di Cristo e con i dogmi, e quella del romano Imperatore, per restaurare il recte agere con la forza delle sue armi e della sua giustizia ordinate alla verità di Cristo e al Magistero del successore di San Pietro.

Come padre e madre della civiltà sono dunque l’Impero e il Papato; e ciascuno di essi è appunto padre laddove è madre l’altro. È padre l’Impero in quanto sull’Impero di Roma il Papa articola la sua autorità sul mondo; è padre il Papato, se si considera che proprio da questo l’Impero-Chiesa ha misura della verità rivelata. Anche sul piano fisico-biologico, se l’uomo fosse soltanto uomo e la donna soltanto donna, non vi sarebbe alcuna affinità tra loro; come due mondi estranei e non più complementari, non potrebbero nemmeno odiarsi! Invece l’uomo è ricco anche di ormoni femminili, e la donna – pur essendo prevalentemente femmina – è ricca anche di ormoni maschili. A ben considerare, in ogni unione riuscita, sul piano psicologico ciascuno dei due coniugi ha tendenze femminili ove le ha maschili l’altro, e viceversa; e in modo analogo si regge ogni diade nell’ordinamento dell’universo.

Così il Romano Pontefice è sacerdote; ma appunto perché è sacerdote in tutta la sua pienezza, ha da essere anche Re; questo il primo motivo per cui ha da avere un territorio, sia pur minimo, su cui esercitare la propria sovranità. Ogni altro motivo di necessità pratica, pur essendo valido, è solo contingente, e quindi non essenziale. Essenziale è invece il fatto che, se il sacerdote per eccellenza non fosse anche Re, la sua religione sarebbe astratta anziché ideale, e perciò non sarebbe religione vera, come non sarebbe vero uomo chi fosse privo di corpo[1].

D’altra parte l’Imperatore è Re, ma appunto perché regalità suprema da cui ogni altra autorità civile procede sulla terra, ha da essere anche sacerdote.

Se ciò non fosse, la sua persona non sarebbe sacra, nessun vero onore gli sarebbe dovuto da uomini liberi nella grazia, e la sua autorità sarebbe un abuso. L’Imperatore non ha da celebrare il divino Sacrificio, gli è severamente proibito; ma deve pertanto ordinare principi e cavalieri, e deve perciò trasmettere certi carismi del potere con l’imposizione delle mani.

Papato e Impero, che Dante considerava come due soli, son segnati dalle prerogative della luce che son prerogative del Verbo. Il consiglio imperiale si chiama Dieta dal latino dies che significa giorno; e la dieta è appunto il giorno di cui l’Imperatore è il sole. Anche oggi, in lingua tedesca, parlamento si dice Tag, che letteralmente significa appunto giorno. Sole della Chiesa è Cristo tra i dodici Apostoli come il sole fisico nello zodiaco, come la luce del giorno nelle dodici ore; e dodici erano appunto i Paladini di Carlo Magno. Come l’Imperatore tra i suoi principi elettori, così il Romano Pontefice tra i suoi Cardinali. Il Principe degli Apostoli e successore di Pietro è Papa in quanto Vescovo di Roma città imperiale; e così, non appena Niccolò II, liberatosi dall’ ingiusto privilegium Othonis, istituiva il Sacro Collegio dei Cardinali, prendeva ancora a modello le istituzioni del Sacro Romano Impero che erano – in ultima analisi – le sole veramente tradizionali in fatto di ordinamento gerarchico.

Il comandamento di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, è molto più sottile di quanto a prima vista non sembri; e nel medioevo ci si era già accorti che, in realtà, essendo anche quella di Cesare, come ogni autorità, d’emanazione divina, si trattava di due diversi modi di dare a Dio il culto che gli era sempre dovuto. Quindi, se luce che illumina ogni uomo veniente al mondo è Cristo, due soli di questa stessa luce dovevano essere il Romano Pontefice e il Romano Imperatore.

Quello che troppo spesso viene considerato un grave difetto del medioevo, e cioè la cosiddetta confusione dei due poteri, in realtà confusione non era o non avrebbe mai dovuto esserlo, era bensì armonia. Come nei colori dell’iride si deve ben distinguere il rosso dall’arancio e l’arancio dal giallo e così via, senza che tra colore e colore vi sia una ben netta linea di distacco, bensì una sfumatura, come è praticamente impossibile dire ove il rosso termini e l’arancio inizi, altrettanto avrebbe dovuto essere nell’ordinamento di entrambi i poteri. E con l’iride siamo ancora nella legge della luce, simbolo della legge del Verbo.

Così, come nell’unità armonica dei colori, avviene nell’unità della persona umana. Una è la natura spirituale, altra la natura fisica; una è la natura dell’anima, altra quella del corpo. Ma proprio per il fatto che anima e corpo – anche se troppe volte in lotta tra loro per il peccato originale – sono per natura ben complementari l’una all’altra, appunto per la loro armonia è impossibile individuare il luogo ove il corpo termina e l’anima inizia. In modo analogo aveva da essere per il Papato e per l’Impero, anima dell’universo e della Chiesa per l’assistenza diretta dello Spirito Santo, il primo, corpo civile della stessa Chiesa, il secondo. Entrambi i poteri avevano valore spirituale e materiale, eterno e temporale; ma eminentemente spirituale ed eterno era il Papato, ed eminentemente materiale e temporale era l’Impero. Le figure dei vescovi-conti, dunque, erano le delicate sfumature di tutto il meraviglioso ordinamento terreno della Chiesa.

Pretendere una determinazione più netta dei due poteri significa non avere ben avvertite le intime leggi dell’armonia e del soffiare del Verbo sulla società cristiana; a meno che non lo si voglia per il presentarsi di situazioni in cui ben poco vi sia da fare in senso più alto. Tali sono i nostri tempi, tali erano, benché in minor misura, i tempi di Dante, e cioè il XIV secolo; sì che lo stesso Alighieri, nel De Monarchia, tende già, e forse già troppo, a una netta distinzione tra spada e pastorale.

Prima di Dante, Innocenzo III aveva formulate le teorie politiche del guelfismo secondo cui il Papa è analogo al sole, emanazione d’ogni potere, e l’Imperatore alla luna. Non si tratta certo di teorie in sé errate, ma soltanto un po’ unilaterali. E fuor di dubbio che essendo il successore di Pietro sole di verità e il successore di Cesare sole di giustizia e di ordine sul mondo il primo è, per così dire, più sole di quanto non lo sia il secondo. Infatti non si avrebbe certo giustizia là dove non si avesse soprattutto verità, e la stessa saggezza nell’esercizio del potere l’Imperatore la riceve dall’unzione di Pietro. Resta però vero che tale teoria venne formulata più che altro per la difesa legittimissima del trono pontificio durante la lotta per le investiture che già erano – al tempo di Innocenzo III – nel loro massimo acuirsi. In realtà se il Papa è sole là dove l’Imperatore è la luna, è anche evidente che il Papa è luna laddove è sole l’Imperatore. Insomma vero o falso che sia stato il documento pergamenaceo della famosa donazione di Costantino, il fatto che per secoli questa donazione – che per altro è senza dubbio da ritenersi vera nella sua sostanza – sia stata addotta dai Papi come fondamento giuridico del loro potere temporale, è la prova più eloquente della preminenza dell’Imperatore su tutto quanto concerne la regalità terrena. Del resto, come avviene per i simbolismi autentici, l’ordine fisico dell’universo tende sempre più a comprovarne la fondatezza; e questo come vedremo, mostrerà legittima l’ingerenza della teologia nella scienza sperimentale. Oggi infatti possiamo constatare, non soltanto che la terra gira attorno al sole – cosa molto più coerente al simbolismo dell’Impero di quanto non lo sia il sistema tolemaico – ma anche che la terra percorre un’orbita ellittica di cui il sole è uno dei fuochi. Cosi, oltre al sole fisico, c’è un sole, che potremmo dire matematico, e che, con il primo, regge tutto l’equilibrio della rivoluzione. Ciò avviene, naturalmente, per la corsa del sole stesso nella sua rivoluzione attorno a un altro centro, rivoluzione che si manifesta sensibilmente all’osservazione astronomica nel continuo avvicinamento dell’astro alla costellazione di Ercole. E come i due fuochi dell’ellittica descritta dalla rivoluzione della terra denunciano l’attrazione di un centro ulteriore, così i due soli, Papato e Impero, denunciano il Cristo alla destra del Padre.

Il Papato era l’anima della Chiesa come l’Impero ne era il corpo, ne era la compagine nel suo aspetto civile; e San Paolo aveva scritto che solo il Verbo è spada si acuta e tagliente da dividere l’anima dal corpo e lo spirito dall’anima (Cfr. Ebrei IV 12). Era appunto al Verbo che la società avrebbe dovuto soprattutto ricorrere a mantenere vivo il delicatissimo istituto della cattolicità medievale. Purtroppo invece ci si fidò – più di quanto fosse stato lecito – del verbo umano nelle controversie del diritto; ma, quel che è peggio, ci si fidò del verbo umano nella sua umanissima espressione di spada tagliente; sì che le lotte per le investiture trassero al declino l’ordinamento dell’Impero universale.

Posti il Papato e l’Impero l’uno di fronte all’altro, rispettivamente rappresentati dalla parte guelfa e dalla parte ghibellina, come antitetici, ne consegui subito un reciproco oscurarsi, poiché a ciascuno dei due veniva meno quel particolare lume per cui l’altro era stato predisposto dalla provvidenza al governo del mondo. Cadde in eresia l’Imperatore ogniqualvolta pretese di sostituire il Pontefice; e per il mondo ghibellino serpeggiarono le teorie più insidiose. Mentre la gerarchia del clero cadde in quelle miserie di cui le accuse di Dante nella Commedia – sono i segni più noti. Se da un lato il Papa, e lui solo assistito dai vescovi, sapeva ben indicare ove fosse il bene ove il male, dall’altro la forza di attuare quel bene sarebbe dovuta scaturire dal potere civile, dal potere sacro dell’Imperatore; ma proprio di questo la Chiesa era ormai vedova.

I liberi comuni, prima retti da consoli, più tardi dai podestà e dai capitani del popolo, stavano inserendosi, come feudi delle arti e del commercio, nell’ordinamento gerarchico dell’Impero, quando il dissidio tra potere temporale e potere sacerdotale si presentò loro come occasione per svincolarsi del tutto dalla gerarchia civile e proclamarsi – ciascuno di essi – indipendente e sovrano. Dal canto loro i Papi si trovarono più volte costretti a sciogliere i vassalli dal voto di fedeltà che li legava all’Imperatore, additando così ai nobili la via presa dai liberi comuni e dalle monarchie nazionali levatesi contro il potere imperiale. Si può dire che i Papi, qualche volta, abusassero del loro potere contro i legittimi Imperatori; ma in linea di massima si deve riconoscere che la pretesa di ordinare i vescovi da parte imperiale era un grave abuso; e tale abuso valeva bene ogni rischio – sia pure quello di veder crollare tutta la compagine civile – poiché colpiva direttamente la Tradizione degli Apostoli e della loro successione.

Ma d’altra parte, il mondo guelfo, staccandosi dall’Impero, si privava di quanto le istituzioni civili avevano sino allora tramandato di precristiano (e diremmo quasi di pagano) di secolo in secolo sempre rispondente al Verbo del Cristianesimo come l’impulso naturale più atto a rispondere al soprannaturale. La Tradizione dell’Impero romano è la Tradizione dell’attesa dei gentili; e con squisita sensibilità Pietro, Paolo e i loro successori, hanno sempre educato ogni cristiano all’ossequio di quella autorità come al presupposto essenziale all’ordinarsi e all’ ingrandirsi della Chiesa. La somiglianza delle gerarchie civili dell’Impero alle gerarchie dei cori angelici, è somiglianza dell’uomo, nella sua natura più intima, a Dio. E se da un lato i singoli individui, educati nell’ambiente guelfo, riuscivano ugualmente dei veri cristiani e anche dei santi, dall’altro la società che negava il substrato naturale dell’Impero si avviava irrimediabilmente il scristianizzarsi nelle sue istituzioni. Si apriva fatalmente e disgraziatamente la via al laicismo moderno, e, per reazione, al clericalismo e al confessionalismo propriamente detto.

La Cattedra di Pietro otteneva la sua libertà e la sua salvaguardia dagli abusi degli Imperatori; e ciò senza dubbio era un bene, ma l’insegnamento di Pietro, venuta meno la gerarchia dell’Impero, era destinato a volgersi al deserto civile. Primo passo verso la disgregazione del mondo cattolico doveva essere il nazionalismo; vale a dire la proclamazione di monarchie nazionali del tutto sovrane, sulle rovine dell’Impero. E come sull’Impero di Roma sera fondata la cattolicità della Chiesa, del Corpo mistico dell’Uomo universale Cristo Gesù, sui sorgenti nazionalismi e particolarismi regionali si fonderà la riforma protestante nello scandalo delle Chiese separate! E nel XVII secolo, la Beata Maria d’Agreda, ne La Mistica Città paragonerà i nazionalismi alla defezione delle schiere di Lucifero che si proclamavano indipendenti dal supremo Principio di Luce, da Dio.

Fu duramente necessario per il Papato chiedere l’aiuto del Re di Francia contro la casa di Svevia; e con tale appello ha inizio quel compito di difesa del Santo Seggio cui la Francia adempirà ripetutamente nel corso della storia fino ai nostri tempi. Quello francese fu infatti il primo nazionalismo ad affermarsi contro l’unità dell’Impero cattolico; mentre, d’altra parte, non si può parlare di vero nazionalismo tedesco da parte della casa di Svevia né delle altre case imperiali che si avvicendarono al supremo potere civile. Eppure, se non si può chiamare nazionalismo tedesco né il gesto con cui Federico I di Svevia detto il Barbarossa discese in Italia nel giusto tentativo di esigere il tributo dai comuni lombardi, né il modo con cui Federico II volle rispettata l’unità dell’Impero cattolico, è un fatto che le lotte per le investiture, che già da lungo tempo si protraevano, avevano lasciato tracce ben profonde nella stessa tradizione ghibellina[2]. Il vero senso del feudalesimo che aveva prima permesso, almeno nei limiti umanamente possibili, una distribuzione del potere dall’alto senza menomazione del potere centrale, accennava ad affievolirsi per tutto l’Impero. Si sentiva meno viva nell’aristocrazia ghibellina quella presenza del pontificato romano, e quindi quell’afflato di vera unità che è misterioso potere del Verbo. Federico II supplì alla vera unità tradizionale con l’espediente dell’accentramento, sì che il suo Impero – sempre per carenza di vera unità- prese a irrigidirsi in modo tale da costituire la perenne preoccupazione di Papa Gregorio IX[3]. Regnava allora in Francia San Luigi IX che fu sempre sovrano esemplare e fedelissimo a Federico II; e solo dopo la morte di questi – avvenuta nel 1250 – consenti a Carlo d’Angiò di scendere in Italia contro Manfredi (figlio dello stesso Federico di Svevia) in aiuto del Papa.

E dalla discesa di Carlo d’Angiò in Italia in poi, il regno di Francia interverrà di volta in volta alla difesa del Papato, dandosi però a distruggere – quasi metodicamente – le istituzioni civili e universali della società cristiana. Quanto diremo d’ora in avanti su tale criticissima posizione della Francia, non deve quindi venir considerato come un giudizio morale negativo sulla nazione francese; quel popolo è e resta cristianissimo, caro a Dio quant’altri mai; solo si tratta di reazioni molle volte dolorose con cui la provvidenza bilancia le storture del mondo per dar nuovo equilibrio alla storia. A proteggere la Chiesa Dio ha eletto il Romano Imperatore; e là dove – sia pure per colpa dell’Imperatore stesso – occorra appellarsi ad altro difensore, la crisi di un’innaturale situazione si pone come inevitabile. È ormai noto, infatti, che l’innaturale difesa si concluse più tardi con la deportazione dello stesso Romano Pontefice ad Avignone; e la crisi che ne seguì fu certo la più disastrosa per il Santo Seggio e per la cristianità. E d’altra parte, ponendosi decisamente contro l’Impero, la Francia ha ormai aperta la via all’assolutismo monarchico nazionale e, quindi, alla rivoluzione francese.

Provvidenziale fu dunque, nel secolo successivo alla deportazione avignonese, quel concludersi della guerra dei cento anni. Dio sembrava infatti insegnare, proprio alla Francia, come si sarebbe potuta condurre una rivoluzione cristiana, un intervento dal basso a richiamare il sovrano ai suoi doveri assunti di fronte all’ Altissimo. Nella crisi più grave che mai avesse colpita la Francia nel medioevo, una pastorella di Domremy, di nome Giovanna, affrontava con energia il proprio Re per insegnargli a governare greggi umani. Come aveva già fatto Giovanni Battista di fronte a Erode, fece Giovanna d’Arco di fronte al suo Re. Non si volsero, né Giovanni né Giovanna, a sobillare il popolo contro la maestà dell’unto da Dio; si volsero invece agli stessi sovrani per esigere dignità verso la corona e verso il Re dei Re. Fu decapitato il primo, ma la seconda parlava ad un Re cattolico, ed ebbe ascolto; ebbe ascolto e truppe d’armati che seppe condurre alla riconquista di quelle terre che dovevano tornare alla Francia. Questo l’esempio che l’Europa si guarderà bene dal seguire nei tempi moderni.

A. MORDINI, ‘Il Tempio del Cristianesimo’, Ed. Settecolori, 1979

 

NOTE

[1] Si noti poi che ogni successore di Pietro ha da essere Sacerdote secondo l’ordine di Melkitsedeq; e Melkitsedeq era al tempo stesso Sacerdote e Re. È chiaro, perciò, che tutti gli intellettuali cristiani moderni che vedono un peccato di temporalismo in ogni affermazione, da parte del Papa, della regalità civile e terrena della cattedra di San Pietro, non fanno altro, in realtà, che scalzare il sacerdozio cristiano sin dalle sue fondamenta a tutto vantaggio della rivoluzione dell’ateismo. D’altronde il temporalismo non consiste affatto nell’affermazione della regalità civile del papa, bensì nell’anteporre, da parte del Pontefice o di un qualsiasi vescovo, gli interessi terreni e temporali agli interessi spirituali ed eterni. Veri temporalisti sono perciò quei prelati tutti propensi ad abbandonare ogni pretesa della regalità di Pietro pur di entrare nelle grazie delle attuali classi dirigenti del mondo materialista. Tale genere di temporalismo diventa particolarmente perfido ogni qualvolta lo si traveste da paziente atteggiamento nel tentativo di ricondurre al Cristianesimo il mondo attuale.

 

[2] Anche Bernardino Barbadoro, che ci sentiamo onorati di avere avuto come maestro e che è da poco scomparso, sosteneva che Federico Barbarossa, all’atto di imporsi sulla lega dei comuni lombardi, era nel giusto di fronte al diritto e di fronte alla Tradizione; mentre la lega, dal canto suo, aveva ragione di fronte allo svolgersi degli eventi in vista dell’affermazione della futura civiltà moderna. Tale giudizio è esatto, salvo naturalmente che, secondo noi, la civiltà moderna a cui i guelfi tendevano e che oggi ci sta di fronte, non è altro – anche se, naturalmente, la brava gente guelfa nemmeno lo sospettava – che il trionfo dell’ateismo. Ed è addirittura grottesco vedere come, nel secolo scorso, siano stati soprattutto i più anticlericali (si pensi al Carducci) ad esaltare le gesta della lega guelfa a Legnano!

[3] Tale crisi di elasticità delle istituzioni imperiali e feudali non deve apparire in contraddizione a quanto abbiamo detto, proprio accennando a questo periodo del medioevo, parlando del mito del Graal e del senso dell’Impero. Non bisogna confondere il senso dei principii con quelli che sono i fatti contingenti, anche se questi, purtroppo, finiranno per prevalere su quelli. Federico II era ben consapevole della crisi che stava affrontando; e il fatto che San Luigi, Re di Francia, aderiva all’Impero, rivela quanto era allora vicino a realizzarsi, anche se difficilmente, l’ideale imperiale.