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Riflessioni sul Trattato di Evagrio Pontico “LA PREGHIERA PURA” (di don Vincenzo Cuffaro).

Ritratto di Evagrio Pontico, Manoscritto 285 del Patriarcato Armeno di Gerusalemme (1430)

 

Preambolo (a cura della Redazione)

La preghiera costituisce una parte fondamentale e determinante del carisma cavalleresco. Ciò, per la battaglia che ogni Cavaliere deve in prima istanza affrontare con sè stesso, sì da purificarsi in vista di quella che deve poi combattere con il mondo e contro il Nemico di Cristo.

Da qui la necessità per il Cavaliere di possedere una piena consapevolezza su quali siano il più giusto atteggiamento esterno e la più sincera disposizione interiore da mantenere, affinché la sua orazione non scada in un mero, vacuo ed inefficace formalismo.

Per aiutare a perseguire tale obiettivo, risulta di preziosissimo ausilio il trattato “La Preghiera pura” (De Oratione) del monaco e asceta greco Evagrio Pontico, di cui proponiamo qui un sintetico commento da parte del sacerdote don Vincenzo Cuffaro.

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LA PREGHIERA PURA (di Evagrio Pontico)

 

Cenni biografici

Evagrio Pontico nasce in una regione sulle rive del Mar Nero intorno al 345. La sua formazione culturale e teologica si svolge sotto la guida di Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno e visse presso la sede vescovile di Costantinopoli a partire dal 380. Qui si dedicò alla confutazione degli eretici della città. Intorno al 382 partì da Costantinopoli per recarsi a Gerusalemme, dove una patrizia romana di nome Melania aveva fondato un monastero. Qui rimase per circa un anno, poi partì per l’Egitto dove si unì ai Padri del deserto, divenendo discepolo di Macario. Morì nel 399.

L’insegnamento di Evagrio sulla preghiera pura è composto da un trattato in forma di detti brevi[1].

L’autore, così come consuetudine dei Padri del deserto, non presenta un’esposizione discorsiva e ordinata degli argomenti, ma un insieme di aforismi, il cui numero complessivo è di 153. Questo numero non è casuale ma vuole essere simbolico, in quanto corrisponde ai pesci pescati dal gruppo apostolico nel lago di Tiberiade (cfr. Gv 21,1-14). Il numero di 153 rappresenta infatti la Chiesa formata dalla predicazione degli Apostoli e vivificata dall’azione dello Spirito Santo.

 

Metodo e contenuti

I 153 detti che costituiscono la materia del piccolo trattato sulla preghiera sono presentati dall’autore in numero progressivo ma non disposti per argomenti o categorie. Anche noi, nel darne un commento essenziale, li presenteremo nell’ordine in cui figurano nel testo originale, senza operare alcun raggruppamento. Procederemo quindi selezionando quei detti che, sebbene originariamente composti per orientare la vita monastica, ci sembrano tuttavia più vicini e utili all’esperienza della preghiera che tutti noi facciamo nella quotidianità della vita cristiana, ciascuno nel suo stato.

Prima di iniziare il percorso che ci siamo prefissi, sarà opportuno aver chiaro cosa sia la “preghiera pura” nel pensiero di Evagrio. Tale definizione va considerata come sinonimo di “preghiera autentica”, in contrapposizione alla “preghiera apparente”. Infatti, l’insegnamento evangelico è molto chiaro su questo punto: Gesù dice ai suoi discepoli che non ogni preghiera è un contatto autentico con Dio. Vi sono taluni che pregano senza tuttavia giungere a dialogare veramente con Dio, o perché naufragano in un eccesso di parole; o perché sono troppo preoccupati del giudizio altrui; o perché non riescono a superare il livello del monologo, che imprigiona quelli che pretendono di costruire dal basso la santità; oppure perché chiedono tante cose, ma non quelle che stanno più a cuore a Dio (cfr. Mt 6,5-15). Tutte queste maniere di pregare, per quanto possano essere tecnicamente corrette, sia nella liturgia comunitaria sia nella spiritualità personale, si fermano al di qua della “preghiera pura”, cioè di quella preghiera che, superando il cerchio chiuso dell’io umano, si apre alla comunione col Tu divino.

 

Iniziamo associando due detti dal significato analogo:

«Dura con pazienza nella tua fervente preghiera, e combatti le fonti di pensieri e preoccupazioni; esse infatti ti inquietano e ti disturbano per minare la tua fermezza».

 

«Quando i demoni ti vedono pronto alla vera preghiera, insinuano allora nella tua mente il pensiero di certe cose che paiono indispensabili, e poco dopo le riportano alla mente perché essa ne vada in cerca e, non trovando soluzione, si disperi. Se invece sei immerso nella preghiera, ti ricordano le tue preoccupazioni; e tu, fisso su questi ricordi, distogli la tua attenzione perdendo il buon frutto della preghiera».

 

Questi due detti sembrano abbastanza chiari nel descrivere una strategia con cui l’azione del demonio tenta di sviare la mente umana dall’attenzione al dato rivelato, quell’attenzione, cioè, dovuta alla verità di Cristo. La preghiera prevede che la mente non venga distratta da oggetti secondari, e i demoni scelgono, in maniera alquanto astuta, gli oggetti da presentare alla mente di chi si accinge a concentrarsi per la preghiera. Essi di solito non ci propongono oggetti secondari o trascurabili, ma immagini di cose che sul momento paiono indispensabili e che suscitano l’idea di un’urgenza che richiede un differimento della preghiera. Occorre allora imparare a smontare alla radice questa tattica demoniaca, prima ancora che essa si presenti alla nostra mente. A questo scopo, è necessario collocare la preghiera in momenti preferibilmente neutri della giornata, ovvero inserirla in uno schema ordinato, in cui tutte le cose urgenti da fare, hanno già un loro orario; in questo modo, difficilmente possiamo venire distratti da una qualsivoglia urgenza, dal momento che la fascia oraria per quell’opera è già preordinata. La consuetudine delle comunità religiose di strutturare la giornata secondo un orario che tutti devono osservare, a nostro modo di vedere, non va intesa semplicemente come una scelta pratica di ordine lavorativo, ma soprattutto come una custodia della pace interiore, fondamentale per una vita di preghiera. Infatti, dalla gestione sapiente del tempo quotidiano, scaturiscono la custodia della vita interiore e una grande forza nel combattimento spirituale. Nel momento in cui una persona cade in questa tentazione dell’urgenza, e si è lasciata distrarre dall’attenzione dovuta alla Parola e alla presenza del Signore, Evagrio mette in guardia dinanzi alla successiva strategia: il demonio si gioca a questo punto una seconda carta vincente, rendendo difficoltosa l’attività che ci ha proposto, per portarci verso la disperazione. Spingendoci verso la soluzione dell’urgenza e al tempo stesso creando impedimenti, egli fa in modo che «[…] essa ne vada in cerca e, non trovando soluzione, si disperi». Tutte le svariate attività del demonio hanno un solo scopo: rubare la quiete dell’animo. Questa strategia potrebbe presentarsi anche prima dell’inizio della preghiera, o anche durante. La vigilanza evangelica deve dunque coprire l’intero arco della vita cristiana.

 

Evagrio si sofferma anche sul problema di alcune condizioni soggettive che impediscono all’orante di mettersi in contatto con Dio:

«Ciò che avrai fatto per vendicarti di un fratello che ti abbia offeso diventerà per te un ostacolo nel tempo della preghiera».

Vale a dire che la preghiera non è turbata soltanto dalle distrazioni ingiustificate, o dalla mancanza di disciplina sia giornaliera sia mentale, ma anche dal peccato compiuto in tempi diversi da quello della preghiera. In particolare, i peccati che producono uno stato d’animo negativo permanente, come ad esempio lo spirito di vendetta o la mancanza di perdono, costituiscono un ostacolo insormontabile all’innalzarsi della preghiera. Lo spirito di vendetta, a cui Evagrio fa riferimento, potrebbe anche essere interscambiabile con qualunque altro termine che indichi un determinato atteggiamento contro l’amore. Qualunque gesto contro la volontà di Dio, insomma, perpetuato nel tempo, spegne la preghiera e le impedisce di innalzarsi fino a Dio, spezzando ogni comunione con Lui. Un impedimento di questo genere rappresenta sicuramente una causa più grave della semplice distrazione, che invece non tocca la coscienza morale, ma si colloca soltanto sul piano metodologico della disciplina mentale.

 

Nei detti che seguono, Evagrio mette in luce alcune caratteristiche, da cui risulta riconoscibile la preghiera autentica:

«La preghiera è germe di carità e mansuetudine».

Ciò implica che la preghiera deve trasformare la persona in positivo, rafforzando l’apparato delle virtù cristiane. La carità e la mansuetudine sono citate come due virtù rappresentative: la prima indica la dimensione soprannaturale delle virtù teologali, mentre la seconda esprime la qualità delle relazioni quotidiane e quindi rappresenta la dimensione umana. L’una e l’altra abbracciano i due versanti che impegnano il credente e lo mettono alla prova: l’incontro con Dio e l’incontro con il prossimo. L’armonia e la perfezione di entrambe le relazioni si radicano fondamentalmente nella preghiera autentica. Di conseguenza, è molto semplice capire come uno prega: basta vedere come vive.

 

«La preghiera è frutto di gioia e di riconoscenza».

In questo detto altri due termini, o per meglio dire due atteggiamenti dell’animo, svelano le caratteristiche della preghiera pura: la gioia e la riconoscenza. Qui si tratta piuttosto di definire non tanto il frutto visibile che scaturisce dalla preghiera ma la disposizione visibile da cui nasce, come da una sorgente, la preghiera pura. La prima disposizione d’animo citata da Evagrio è la gioia. Ciò implica che una persona tendenzialmente pessimista e malinconica rischia di pregare senza varcare il confine del proprio io. Rischia di arenarsi nel monologo. La preghiera pura scaturisce insomma da uno stato d’animo positivo e pieno di speranza teologale. Ma c’è un secondo sentimento capace di ispirare la preghiera pura: la gratitudine. Infatti, se la vita quotidiana non è percepita in tutti i suoi aspetti, e in tutti i suoi ambiti umani e soprannaturali, come dono gratuito di Dio, difficilmente si può giungere alla preghiera pura, anche se tecnicamente si prega correttamente. Del resto è chiaro: se al mattino si prega è perché si ha la consapevolezza che non è scontato alzarsi dal letto ed essere vivi, come non è scontato che le azioni quotidiane potranno essere gradite a Dio o costituire una adeguata attuazione della sua divina volontà. Se ciò si verificherà nel corso della giornata, sarà pura gratuità. Insomma, la preghiera pura richiede la rinuncia alla convinzione – peraltro teologicamente inesatta – di essere gli autori della nostra quotidianità.

 

«La preghiera ti conserva immune dalla tristezza e dallo scoraggiamento».

La preghiera pura, cioè l’autentico contatto con Dio, produce dei frutti ben precisi e ha la forza di cambiare il cuore dell’orante. Essa non è un’astrazione che porta la persona lontano dalla realtà, ma anzi la umanizza ancora di più, conformandola all’umanità meravigliosa di Cristo. Per questo, chi prega veramente, non conosce la tristezza, né lo scoraggiamento, ma è ispirato dall’amore in tutti i suoi gesti e conserva la mansuetudine in ogni circostanza lieta o triste, nelle relazioni e nei diversi ambienti in cui vive.

 

«Se vuoi pregare come si conviene, rinuncia a te stesso in ogni momento».

Questo enunciato individua una disposizione che impedisce la preghiera e che sta alla la radice di tutti i peccati che una persona possa commettere, una grave malattia spirituale che si chiama “ricerca di se stessi”. A chi desidera pregare come si conviene, Evagrio suggerisce il distacco da sé e dalla propria volontà come prima e fondamentale istanza. Se questa guarigione si verifica, viene meno la radice di ogni peccato e quindi viene rimosso anche ogni ostacolo tra noi e Dio nel dialogo intimo della preghiera.

 

«Se poi sopporterai ogni fatica con pazienza, ne troverai il frutto nel tempo della preghiera».

La pazienza è una delle più alte manifestazioni della carità. Questa grande virtù non si manifesta in maniera vistosa e, a volte, si nasconde del tutto. Al contrario, l’impazienza si manifesta immediatamente. Chi riesce a pazientare nelle avversità, rimanendo equilibrato e padrone di sé, nell’attesa che il Signore disponga diversamente, si trova su un altissimo livello teologale. Infatti, non è possibile accogliere dalle mani di Dio le avversità, per tutto il tempo da Lui decretato, senza possedere le tre virtù teologali in grado eroico. Ma c’è di più: per Evagrio la pazienza prepara la strada alla preghiera profonda e autentica.

 

Il detto seguente riguarda il fatto che la preghiera è condizionata, positivamente o negativamente, dalle disposizioni d’animo che la precedono:

«Chi si sazia di dolori e cattivi ricordi, convinto di pregare, è simile a chi attinge l’acqua versandola poi in un vaso bucato».

Evagrio fa qui un’osservazione, come si può facilmente intuire, tratta dalla sua esperienza personale. L’idea di fondo è che la disposizione antecedente alla preghiera, costituisce un elemento indispensabile per garantire la giusta quiete interiore su cui si fonda la preghiera pura. Se, infatti, nelle ore precedenti, ci si è nutriti di pensieri cattivi, di ricordi dolorosi che turbano la mente, la preghiera diventa un’attività estremamente difficile e rischia di essere fallimentare, «come chi attinge l’acqua versandola poi in un vaso bucato». La fatica di prendere l’acqua c’è stata, ma il lavoro fatto risulterà inutile, se poi essa viene versata in un recipiente bucato. Un detto analogo, breve e incisivo, suona così: «Se desideri pregare come si deve, non angustiare la tua anima, o i tuoi sforzi si riveleranno vani».

In definitiva, la vigilanza sui pensieri e sui sentimenti abituali è il presupposto della preghiera, che non può stabilirsi saldamente se non su un animo pacificato.

 

Il genere di pace di cui si sta parlando è l’argomento del detto successivo:

«Armato contro l’ira non soffrirai la passione, che alimenta l’ira e turba l’occhio dell’intelletto, guastando la quiete della preghiera».

Evagrio, in questo detto, come in quello precedente, non fa altro che sottolineare l’importanza della quiete. Da questa condizione deriva la definizione che i Padri del deserto utilizzano per indicare la preghiera: esicasmo o preghiera esicastica (dal greco esychia che significa quiete). Condizione fondamentale della preghiera è dunque la quiete: senza di essa non c’è alcuna possibilità di giungere alla preghiera pura.

Nella medesima linea, ma in un contesto più specifico che riguarda il perdono, Evagrio ricorda il detto di Gesù, che invita a lasciare il dono presso l’altare per andarsi a riconciliare col proprio fratello (cfr. Mt 5,23-24): «e allora pregherai sereno, perché il ricordo delle offese annebbia la ragione di chi prega offuscandone la preghiera».

 

Sul tema decisivo che riguarda quali siano le finalità della preghiera, ci viene insegnato:

«Non pregare perché si compiano le tue volontà, poiché esse non sono del tutto conformi al disegno di Dio; prega piuttosto come ti è stato insegnato, dicendo: “Si compia in me la tua volontà”. In ogni caso chiedi ciò che è buono e utile per l’anima, benché non sempre sia questo che cerchi».

Evagrio vuole insomma porre l’accento sul fatto che noi non sappiamo cosa sia utile chiedere. Nella debolezza della nostra umanità siamo portati talvolta a seguire i molteplici bisogni che urgono sul livello superficiale della sensibilità, e perciò formuliamo le richieste secondo «le tue volontà». Va notato il plurale usato qui da Evagrio: la molteplicità dispersiva delle tante necessità secondarie, turba la vera finalità della preghiera. Al contrario, nella preghiera del Padre Nostro, a cui egli evidentemente si riferisce, la richiesta è che si compia la volontà di Dio: «prega piuttosto come ti è stato insegnato, dicendo: “Si compia in me la tua volontà”». Il fatto che la volontà di Dio sia definita al singolare, non significa che essa consiste in un’unica volontà, ma che essa crea l’unità interiore del cuore umano, lo integra, lo rende solido e lo libera da ogni forma di dispersione. Quando il cuore umano si sottomette a questa divina volontà, e fa di essa l’oggetto della propria preghiera, si annullano tutte le interiori frantumazioni e ci si sente in armonia con se stessi e con l’universo.

Dice inoltre Evagrio che, se proprio vogliamo chiedere qualcosa a Dio, dobbiamo individuare quali cose siano utili all’anima per la propria santificazione; ma è certamente più perfetto accogliere dalla volontà di Dio quello che Lui sceglie di darci ed essere sicuri che ciò è il massimo bene che possiamo desiderare. Evagrio esorta insomma il suo lettore a ridimensionare la convinzione di sapere quale sia il bene per noi, perché solo Dio lo sa senza possibilità di errore. Per questo motivo, nella preghiera, bisogna chiedere a Dio di realizzare quel bene che lui conosce, e che a noi potrebbe rimane ignoto. Su questo punto è opportuna un’altra osservazione: quando la nostra preghiera pretende di far cambiare idea a Dio, rischia di impedirgli di compiere il bene previsto da lui. In altre parole: non sono soltanto le opere cattive ciò che impedisce a Dio di operare la salvezza, ma anche uno stato di interiore disarmonia rispetto alla sua volontà.

 

Il detto che segue riguarda ancora il tema della consegna della propria volontà a Dio, rinunciando alla propria. Evagrio ne ha fatto personalmente esperienza e ne trasmette l’insegnamento come segue: «Spesso ho pregato che mi capitasse ciò che mi sembrava fosse bene per me, e in questa richiesta insistevo irragionevolmente, forzando la volontà di Dio; in questo modo ho impedito che Egli mi concedesse ciò che a suoi occhi pareva utile. Nondimeno, dopo aver ottenuto soddisfazione alle mie richieste, mal sopportavo che si fosse compiuta piuttosto la mia volontà, perché il frutto della mia preghiera non era pari alle aspettative».

Questo riferimento autobiografico merita la nostra attenzione in diversi punti.

Il primo è l’illusione di sapere ciò che è il bene, da cui deriva una preghiera di domanda, che tralascia la fiducia e l’abbandono. Qui Evagrio aggiunge: «in questa richiesta insistevo irragionevolmente forzando la volontà di Dio». Questa forma di ostinazione che nessuno vede, perché non espressa in un’opera, ha tuttavia degli effetti che mortificano l’opera della grazia anche negli aspetti visibili ed esteriori della vita cristiana.

Il primo effetto è espresso così: «in questo modo ho impedito che Egli mi concedesse ciò che ai suoi occhi pareva utile». Una preghiera di domanda che pretende di sapere quello che Dio deve fare, escludendo un’adesione spontanea e fiduciosa, impedisce a Dio di darci quello che è veramente utile e vantaggioso per noi. Dio,infatti, non può farci pervenire i doni che ha deciso di farci, se noi desideriamo altre cose. Se ci riflettiamo, neppure nelle relazioni umane potrebbe verificarsi. È questo il senso della domanda che Gesù rivolge al paralitico che da trentotto anni giaceva presso la piscina di Betzatà: «Vuoi guarire?» (Gv 5,6).

Gesù non può dargli la salute se prima, quest’uomo, non esprima la sua volontà determinata di guarire. Così, Dio non può darci il bene autentico, se noi siamo tesi verso un bene apparente, pensando che sia reale. Il primo effetto negativo è dunque la perdita del vero bene. Tuttavia, Dio potrebbe accondiscendere e darci quello che stiamo chiedendo, quasi imponendogli i nostri desideri, ma questo non è certamente un vantaggio per noi.

Il secondo effetto che Evagrio osserva, è espresso in questi termini: «Nondimeno, dopo aver ottenuto soddisfazione alle mie richieste, mal sopportavo che si fosse compiuta piuttosto la mia volontà, perché il frutto della mia preghiera non era pari alle aspettative». Egli dice in sostanza che, dopo aver ricevuto il beneficio desiderato, provava un profondo senso di delusione, e ciò era ovviamente dovuto al fatto che quel desiderio non coincideva con la volontà di Dio.

 

«Prega anzitutto per essere purificato dalle passioni, liberato dall’ignoranza e infine mondato da ogni tentazione e sconforto».

In riferimento alla preghiera di domanda, Evagrio dice che è comunque sempre lecito e conveniente chiedere a Dio ciò che riguarda la propria crescita nel bene e nella santità. Infatti, l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, esprime proprio questa priorità: «il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono» (cfr. Lc 11,9-13). Quando ti viene dato lo Spirito Santo hai tutto, sei purificato, sei liberato dall’ignoranza e da ogni tentazione e sconforto.

 

Ancora sulla preghiera di domanda:

«Nella tua preghiera cerca soltanto la giustizia e il regno di Dio, cioè la virtù e la conoscenza, e tutto il resto ti sarà dato in aggiunta».

Questo detto riformula sostanzialmente l’insegnamento del vangelo di Matteo: «Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Evagrio invita a ricercare la maturazione soggettiva nella santità cristiana, che è opera dello Spirito Santo, e a ridimensionare conseguentemente i singoli benefici umani, che, una volta ricevuti, non saziano l’animo umano.

 

Nel detto che segue, Evagrio considera come sia difficile mantenersi costantemente nel livello della preghiera pura. Anche chi ha ormai ripudiato ogni passione (con questa parola egli si riferisce ai sentimenti gravemente disordinati come l’ira, l’invidia, l’odio, il rancore), non per questo ha già definitivamente conquistato la preghiera pura:

«Chi ha ormai ripudiato ogni passione non per questo padroneggia la vera preghiera; può infatti lasciarsi andare a vani pensieri, distraendosi a riflettere e perdendo così il contatto con Dio». Evagrio considera l’orazione mentale come un’attività estremamente delicata e difficile non solo a conquistarsi ma anche a mantenersi, perché presuppone una condizione permanente di quiete interiore, costantemente minacciata dall’instabilità naturale dell’animo; basta, infatti, seguire un pensiero banale per essere distolti dal contatto con Dio. La conquista della preghiera pura, allora, non è solo una questione di purificazione dalle passioni disordinate, ma è anche una questione di disciplina mentale cioè capacità di controllo dei pensieri, anche di quelli banali che in sé potrebbero non essere peccaminosi, ma che possono deviare la concentrazione della mente dal mistero di Dio. Infatti, una persona «se pure non perde tempo in pensieri vani, non per questo l’intelletto ha raggiunto il luogo della preghiera».

 

In definitiva:

«Se desideri pregare, non fare nulla che ostacoli la preghiera, affinché Dio si accosti a te e ti accompagni».

Circa il discernimento di ciò che possa ostacolare la preghiera, ormai l’equivoco è smascherato: non si deve pensare che la preghiera sia ostacolata solo dal peccato; essa viene alterata anche da qualunque forma di leggerezza o di deviazione del pensiero su oggetti banali. Di conseguenza, l’orante non può sottovalutare nemmeno le più piccole cose che possano distoglierlo da Dio nel momento delicato del colloquio interiore. Infatti: «non può correre chi è legato, né la mente schiava delle passioni può contemplare la preghiera spirituale, perché è sedotta dai pensieri corrotti dalla passione e vive in uno stato di continua agitazione».

 

Per Evagrio, insomma, non c’è alcuna possibilità di raggiungere la preghiera pura quando non si abbia la mente disciplinata e libera dalla sudditanza ai pensieri capaci di dominarla:

«Non potrai pregare nella purezza se ti dibatti nelle preoccupazioni materiali e sei turbato da costanti pensieri, perché la preghiera è rifiuto dei pensieri».

Attraverso questo enunciato risulta chiaro come la preghiera sia legata indissolubilmente ad una disciplina di grande controllo della mente,la quale diversamente potrebbe facilmente deviare verso oggetti secondari. Evagrio chiarisce pure che, questo esercizio di autodominio è un dono soprannaturale; il monaco, e quindi il cristiano, non raggiunge il controllo della mente soltanto esercitandosi, ma in forza di una grazia speciale di orazione che Dio gli concede in un tempo imprevedibile. Allora la mente si stabilizza in Dio a diversi livelli di profondità[2].

 

Più precisamente:

«Se ancora non hai ricevuto la grazia della preghiera o della salmodia, persevera e la otterrai».

Qui Evagrio si riferisce esplicitamente alla “grazia della preghiera”, appunto perché questo stato di quiete e di controllo dei pensieri non è il risultato umano dell’impegno ma è un carisma. Il Signore, però, solitamente aspetta che nella persona si crei la disposizione dell’accoglienza, che poggia, in primo luogo, sulla virtù della perseveranza. Lo stesso concetto è espresso nel vangelo di Luca: «Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1); l’impegno personale, pur non essendo decisivo, costituisce tuttavia la base su cui potrà fiorire produrre la grazia della preghiera.

 

L’insegnamento prosegue sul criterio di valutazione della preghiera:

«La preghiera merita una lode non per la quantità, ma piuttosto per la qualità; lo dimostrano quelli che salirono al tempio e le parole: “Pregando poi, non sprecate parole”, e quanto segue».

Il Vangelo sta ancora una volta alla base della riflessione di Evagrio. La questione affrontata è quella del valore della preghiera. Viene innanzitutto affermato che essa non trae la sua efficacia dalla lunghezza. Essa non risulta valida perché prolungata nel tempo, ma perché conduce a un dialogo intimo col Signore. Basta allora anche poco tempo, quando non se ne ha a disposizione di più. Quando la preghiera realizza un vero contatto con il Signore, anche un minuto è sufficiente per riempire l’anima di energia. Lo dimostra il detto di Gesù: «Pregando, non sprecate parole» (Mt 6,7), come pure la parabola del fariseo e del pubblicano che vanno al tempio a pregare (cfr. Lc 18,9-14). Andando alla sorgente evangelica indicata da Evagrio, si scopre che la preghiera del fariseo è lunga ma non realizza il contatto personale con Dio, mentre la preghiera del pubblicano è breve ma conduce a un incontro che trasforma la vita. Il pubblicano, dopo questa preghiera, se ne ritorna a casa cambiato; il fariseo se ne va, rimanendo com’era. Sotto questo profilo, Evagrio precisa: «Se nel tempo della preghiera il tuo intelletto si perde nelle parole, ancora non prega come un monaco; è invece ancora legato alla mondanità».

Si vede ancora dalla parabola del fariseo e del pubblicano, come l’obiettivo della preghiera non sia quello di cambiare le circostanze, per quanto avverse o gravi, ma quello di cambiare l’orante. In definitiva, noi non preghiamo per convincere Dio a cambiare i suoi piani, ma preghiamo piuttosto per essere cambiati nel profondo, per divenire idonei ad entrare nei piani di Dio.

 

Infine, possiamo affermare che la preghiera pura porta sempre con sé un frutto di gioia:

«Se nel momento in cui ti dedichi alla preghiera provi una gioia superiore ad ogni altra gioia, allora hai veramente scoperto la preghiera».

La preghiera, in quanto autentico incontro personale con Dio, costituisce un’esperienza anticipata, sia pure nell’oscurità della fede, di ciò che rende felici i beati del paradiso: l’ingresso nella comunione trinitaria. La felicità che Dio ha previsto per l’essere umano, fin dalla fondazione del mondo, non è il senso di pienezza che deriva delle cose che vanno a gonfie vele, bensì la gioia della comunione con Lui. Sono felici coloro che hanno incontrato Dio nel suo Figlio e vivono la loro quotidianità nel “Noi” della comunione trinitaria. Sulla terra e nel cielo essa è la sorgente dell’unica vera felicità. Infatti: «non cercare subito il coronamento delle tue richieste, quasi che maturassi una superiore potenza; Egli vuole infatti concederti più importanti benefici, poiché ti sei dedicato a Lui nella preghiera. Cosa è infatti più sublime che colloquiare con Dio ed essere ammessi alla comunione con Lui?». Questo enunciato sintetizza i nuclei più importanti dell’insegnamento dedicato alla qualità e agli scopi della preghiera pura: la richiesta di ciò che a noi sembra un bene, non ci fa crescere come se fosse «una superiore potenza». Il maggior bene che Dio vuole donarci non è nemmeno “qualcosa” ma è Lui stesso, ovvero la comunione con Sé. Per questa ragione, Evagrio pensa che «se sei teologo pregherai veramente, e se preghi veramente sarai teologo».

Don Vincenzo Cuffaro (dal sito https://cristomaestro.it)

 

NOTE

[1] EVAGRIO PONTICO, La preghiera pura, Edizioni Il Leone Verde, Torino 1998.

[2] I gradi di orazione sono trattati da Teresa d’Avila, soprattutto nel Castello Interiore, ma ne fa cenno anche in altre opere destinate alle monache della Riforma carmelitana (cfr. S. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa, Opere, Postulazione Generale O.C.D., Roma 1985).