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Carlo Magno e la “cultura della cancellazione” (di Cosmo Intini)

Monogramma Karoli, da un documento emesso a Kostheim il 31 agosto 790.

 

Dispiace e, sinceramente, pure un po’ disturba, quando qualche rappresentante di quelle forze e di quelle intelligenze vive le quali stanno attualmente partecipando alla medesima lotta contro il comune anticristico Nemico – pur ciascuno secondo la propria specificità di carisma o di ambito operativo – cada per ingenuità o per superficialità di valutazione nel clamoroso errore di porre uno dei propri possibili “alleati” sotto il suo “fuoco amico”.

E’ quel che succede ad esempio con l’articolo di Walt Garlington intitolato “L’ossessione dei globalisti per Carlo Magno”, pubblicato recentemente sul sito Ide&azione[1].

Il giovane ingegnere chimico statunitense, esponente di un pensiero legato al più recente conservatorismo e che da qualche tempo si è impegnato anche sul fronte della saggistica e della poesia, non trova infatti miglior argomento per attaccare, pur giustamente, il globalismo e i suoi deleteri europeismi, prendendo tuttavia di mira, ahinoi, proprio l’Imperatore Carolingio (peraltro canonizzato dalla Chiesa ed il cui culto è ancor oggi ufficialmente riconosciuto, seppur a livello locale); nonché, sparando a zero contro il Sacro Romano Impero e la Chiesa cattolica tutta.

Oltretutto, alla luce delle conclusioni a cui perviene l’autore, più che ad un semplice revisionismo storico, ciò a cui a noi pare di assistere è un qualcosa che assume l’aspetto di una vera e propria operazione di “cultura della cancellazione”. E come poter definire altrimenti una tesi così estremistica che farebbe del primo Sacro Imperatore Romano, addirittura, un anticristiano eretico, naturale “ispiratore dei moderni globalisti occidentali” (sic), vanificando così in un sol colpo, senza distinzioni di sorta, tutti i luminosi secoli della europea e romana Regalitas?

Un’improbabile eredità

Per supportare la propria tesi, volta a mostrare gli espliciti tratti di un siffatto “nemico e distruttore” (sic) dell’Occidente e di quanto in esso possa esserci di “vero e bello”, Garlington, sempre nel summenzionato articolo, indica in prima istanza quel che a suo modo di vedere rappresenterebbe il sintomo di un emblematico e sintomatico innamoramento mostrato per Carlo Magno dai globalisti europeisti: l’intitolazione al suo nome tanto dell’edificio dell’UE, tanto del Premio europeo per i giovani dell’UE, quanto addirittura della Via stessa del Consiglio d’Europa. Ciò quasi a dimostrare, appunto, il sussistere di una sorta di “sintonia” tra l’Imperatore e le odierne ideologie globaliste.

Ma evidentemente, all’autore sfuggono in questa occasione i paradossi a cui può dar adito l’ipocrita pratica dell’ideologismo.

Infatti, da un canto egli stesso rimarca la contraddizione che insorge quando viene a manifestarsi un entusiastico “amore” per tale figura storica, notoriamente legata alla difesa della cultura tradizionale cristiana occidentale, proprio da parte di quella masnada di laicisti e massoni che, nel redigere la Costituzione dell’UE, si sono caparbiamente sempre rifiutati di inserire ogni seppur minimo riferimento all’identità cristiana della storia dell’Europa.

D’altro canto però Garlington, ingenuamente, non giunge a riconoscere in questo equivoco atteggiamento il semplice frutto di un tentativo di appropriazione ad usum Delphini dei meriti culturali, politici ed economici di Carlo Magno. Cioè a dire, una strategia dei globalisti, menzogneri per natura, volta ad adattare e manipolare quei valori secondo i propri interessi di parte.

Omettendo il significato principalmente “sacrale” rivestito dalla figura e dall’operato dell’Imperatore – fondatore di una nuova Europa non più vista come una semplice Comunità, ma come una vera e propria Unione propriamente fondata sui valori cristiani – ai globalisti-europeisti è gioco facile auto-eleggersi quali improbabili suoi più veri e legittimi eredi.

Due infondati motivi per “cancellare” S. Carlo Magno

Le eccezioni che Garlington solleva all’indirizzo di Carlo Magno sono fondamentalmente due:

  1. La sua convocazione del Concilio di Francoforte, tenutosi nel 794 d.C., nel quale furono respinte le decisioni del Secondo Concilio di Nicea del 787 in merito alla liceità della venerazione delle icone. Questo sarebbe stato, peraltro, il primo passo verso la “desacralizzazione dell’arte in Occidente”, che avrebbe portato al “brutalismo della sua architettura più recente”.
  2. La sua decisione di modificare il Credo niceno; in maniera tale che lo Spirito Santo proceda dal Padre e dal Figlio (la cosiddetta questione del Filioque) anziché semplicemente dal Padre, come recitava invece la versione originale approvata dal Primo Concilio di Costantinopoli del 381. Ciò avrebbe portato ad effetti catastrofici in tutta la cristianità, allontanando sempre più irreversibilmente l’Occidente cattolico dall’Oriente ortodosso.

A nostro modo di vedere, tali argomentazioni rimangono frutto di un approccio evidentemente superficiale e preconcetto.

In merito alla prima questione, vorremmo far notare che la posizione critica effettivamente assunta da Carlo Magno nei confronti della venerazione delle icone, non fu dettata da motivi di carattere teologico e dottrinale, quanto piuttosto politico-diplomatico.

Lasciamo intanto volentieri da parte le giustificazioni, altresì avanzate dagli storici, sulla difficoltà incontrata dall’Imperatore nel pervenire a comprendere a fondo i dettagli delle conclusioni riportate negli atti del Concilio di Nicea, digiuno come egli era di lingua greca e supportandosi con una pessima traduzione in latino. Quel che soprattutto conta è invece che la sua presa di posizione fu senz’altro ispirata sia dal fatto che un Concilio definentesi “ecumenico” fosse stato convocato senza informarne i vescovi franchi, sia perché la questione teologica, da esso dibattuta, si fosse risolta sotto la direzione dell’Imperatrice d’Oriente, piuttosto che la sua. Il “pretesto” dell’illiceità di un Concilio presieduto da una donna gli veniva del resto fornito dal noto passo paolino in cui era scritto: «Non permetto alla donna di insegnare né di comandare agli uomini» (1Tm 2,12).

Va aggiunto che la reale posizione di Carlo Magno era votata all’equilibrio, in quanto da una parte non intendeva certamente avallare l’iconoclastia, ma d’altra parte temeva che la venerazione delle icone potesse dar adito a degenerazioni improntate al fanatismo: soprattutto tra le popolazioni europee di recente conversione quali i Sassoni e gli Avari, tra i quali serpeggiavano ancora sentimenti politeistico-idolatrici. A suo dire, insomma, il culto per le figure dipinte avrebbe potuto inopinatamente far riemergere equivoci sulla loro reale natura[2].

Senza volerci dilungare troppo oltre, ribadiamo insomma che le motivazioni che spinsero Carlo Magno ad un’opposizione contro il Secondo Concilio di Nicea, rimasero eminentemente nel circoscritto ambito della politica e non della dottrina. La qual cosa, quindi, non inficia affatto il valore cristiano del suo operato, né tantomeno avvallerebbe una qualche sua responsabilità in merito ad eventuali conseguenze che ne sarebbero derivate, visto che egli non fece altro che obbedire al proprio ruolo, di cui per l’appunto era ormai “politicamente” investito, di difensore della Cristianità latina.

Sbaglia oltretutto Garlington nell’addebitare all’Imperatore la responsabilità di aver avviato un processo di decadenza e di desacralizzazione dell’arte. Lo dimostrerebbe anche solo il fatto che l’apprezzamento per il culto delle icone è entrato ed è rimasto anche in ambito cattolico: basterà rileggersi le ultime esplicite affermazioni contenute nel recente Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1159-1162).

Ma vi è di più. Rimanendo anche solo nell’ambito dell’architettura, bisogna notare come dalla carolingia “Cappella Palatina” di Aquisgrana fino a quello straordinario unicum simbolico-sacrale costituito dal “Castello di Sancta Maria de Monte” di Federico II di Svevia – e senza nemmeno menzionare tutta la produzione delle cattedrali romanico-gotiche realizzatesi sino al sec XIII – la sacralità artistica mantenuta all’interno della fede cattolica, e specificatamente in ambito imperiale, può vantare fulgidi esempi che non hanno mai fatto presagire nulla della successiva, moderna decadenza.

Semmai, la responsabilità di questa parabola discendente deve essere rintracciata nel ribaltamento della percezione della realtà assunta dall’individuo europeo, il quale passò progressivamente da una visione teocentrica del mondo ad una più antropocentrica. Ciò comportò la conseguente perdita anche del carattere “simbolico”, e quindi “sacro, che è intrinsecamente proprio della natura dell’arte: con tutti gli epiloghi degenerativi a cui effettivamente assistiamo.

Ma tale ribaltamento cominciò a manifestarsi molto più tardi rispetto a Carlo Magno: ossia con l’Umanesimo ed il Rinascimento; ossia, proprio in parallelo con la contestuale perdita di quella naturale sinergia che nella precedente e piena Età di Mezzo vigeva tra l’Autorità Spirituale ed il Potere Regale: condizione che riconosceva non solo nel Papa, ma anche nell’Imperatore la funzione di Vicarius Christi. Era difatti il pieno e reciproco accordo nell’adozione di una tale “sinergia” di funzioni ciò che permetteva anche alla componente “Regale” della Chiesa di potersi riconoscere direttamente partecipe di una dimensione di “sacralità” che poi, per proprio tramite, si infondeva più immediatamente in quell’ambito temporale di cui era responsabile.

Il grande errore dell’Autorità Sacerdotale cattolica, insomma, è stato commesso quando ha peccato della presunzione di potersi e doversi occupare direttamente anche del “potere temporale”, privando sempre più l’Imperium di tale sua legittima e peculiare prerogativa. Come è noto, alla fine ciò le ha inevitabilmente comportato, per incompetenza di funzione, la totale perdita di controllo del “saeculum”; il quale, lasciato a sé stesso, in quanto privo della guida imperiale è ormai divenuto irreversibilmente laicista.

In merito invece alla seconda questione, si può tranquillamente affermare che la polemica teologica sul Filioque che per secoli ha tormentato i rapporti fra Cattolici e Ortodossi, in realtà non ha motivo di esistere, in quanto dovuta ad incomprensioni ormai superate dalle chiarificazioni avvenute successivamente alle summenzionate vicende carolingie.

E’ proprio del 1995 la pubblicazione di un fondamentale testo intorno al relativo dibattito. Esso è stato redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in seguito all’espressione del particolare desiderio di Papa Giovanni Paolo II, durante l’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro, davanti al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I (29 Giugno 1995), al fine di mettere in luce la piena armonia della tradizione latina con il simbolo niceno-costantinopolitano (381), ossia «il Padre quale fonte della Santa Trinità, sola origine del Figlio e dello Spirito Santo»[3].

In termini teologici, volendo sintetizzare la posizione di Roma sulla questione, il Filioque non riguarda l’ekporeusis dello Spirito proveniente dal Padre in quanto sorgente della Trinità, ma manifesta il suo proiénai (lat. processio) nella comunione consustanziale del Padre e del Figlio, escludendo un’eventuale interpretazione subordinazionista della monarchia del Padre.

Se l’ekporeusis greca non significa altro che la relazione d’origine in rapporto al solo Padre, in quanto principio senza principio della Trinità, per converso, la processio latina è un termine più comune che significa la comunicazione della divinità consustanziale del Padre al Figlio e del Padre, per mezzo e con il Figlio, allo Spirito Santo.

La dottrina del Filioque deve essere insomma compresa come non contraddicente la monarchia del Padre, né che Egli è la sola origine dell’ekporeusis dello Spirito. Tale dottrina si situa infatti in un contesto teologico e linguistico diverso da quello dell’affermazione della sola monarchia del Padre, unica origine del Figlio e dello Spirito. Essa ha inteso mettere in risalto il fatto che lo Spirito Santo è della stessa natura divina del Figlio, senza con questo mettere in causa l’unica monarchia del Padre, soprattutto per prevenire eventuali nuovi eretici rigurgiti dell’arianesimo.

San Tommaso d’Aquino, che conosceva bene la Fede ortodossa, non vide opposizione tra il Filioque e la seguente espressione di san Giovanni Damasceno: «Dire che lo Spirito Santo riposa o dimora nel Figlio non esclude che esso proceda da lui; poiché si dice anche che il Figlio dimora nel Padre, sebbene egli proceda dal Padre» (Summa theologica Ia, q. 36, a. 2, 4o)[4].

Concordiamo pertanto pienamente con Sergej Nikolaevič Bulgakov (1871–1944), allorché dichiarava che il Filioque non deve essere considerato né un dogma, né una eresia, ma un “theologoumenon”, ovvero un’ammissibile opinione teologica.

E del resto, come non condividere altresì le parole di Vladimir Solov’ev (1853-1900), il quale, dopo aver studiato per lunghi anni le differenze tra cattolici e ortodossi, giunse a questa conclusione: «Cattolici e ortodossi continuano immutabilmente a essere membri dello stessa Chiesa di Cristo, una e indivisibile. Benché separati non hanno cambiato il loro rapporto con Cristo e con lo sua Grazia misteriosa. Da questo punto di vista, non dobbiamo nemmeno preoccuparci della riunione, perché siamo già una cosa sola».

Il falso problema

Nell’ultima parte del suo intervento, Garlington tocca un ulteriore punto su cui vorremmo esprimere tutto il nostro dissenso. Si tratta di ciò che egli dispregiativamente indica quale l’“agostinizzazione” dell’Europa e del Cristianesimo.

Secondo lui, S. Agostino avrebbe inaugurato un sistema basato su di un rapporto di continuità tra la teologia cristiana e la filosofia greca; “matrimonio” che sarebbe così sfociato nell’identificazione dell’UNO (To En) della filosofia greca con l’Unico Dio e Padre della dottrina cristiana. In tal modo, “nel suo nucleo la Seconda Europa (scilicet quella romano-cattolica) è pagana, perché adora una definizione pagana di Dio”.

A partire da ciò, l’Europa “agostiniana” d’Occidente sarebbe “arrivata a considerare se stessa come il canone della civiltà giudeo-cristiana”. Oltretutto, tale indebito accrescimento del proprio status, sì da auto-ritenersi la misura canonica di quanto sia genuinamente “cristiano o europeo”, deriverebbe in ultima analisi proprio “dall’equazione carolingia dell’agostinismo con la propria ortodossia e le proprie ambizioni imperiali”.

Il problema è che Garlington, dopo aver affermato di trarre le proprie conclusioni dal saggio di Joseph Farrell “God, History, and Dialectic: The Theological Foundations of the Two Europes and Their Cultural Consequences”, qui non supporta le proprie argomentazioni con alcuna spiegazione dimostrativa, non permettendo pertanto di giustificarle agli occhi del lettore.

Ad ogni modo, concedendogli perlomeno per buona l’allusione, pur non esplicitata, al rapporto effettivamente posseduto da S. Agostino con il pensiero di Plotino e con il neoplatonismo, da cui egli desumerebbe appunto il concetto di “UNO”, ebbene succede che non si può non osservare che l’UNO plotiniano non mantiene alcuna fondamentale caratteristica poi rintracciabile nella teologia cattolica.

Difatti, quantunque Plotino sia più vicino di qualunque altro filosofo “pagano” alla nascente teologia cristiana, egli tuttavia non attribuisce all’UNO una volontà, né un finalismo, a differenza del Dio cristiano. E questo ci pare già sufficiente per tagliare la testa al toro.

Ma se volessimo insistere, chiederemmo a Garlington quale sarebbe allora la sua posizione, che pare soffermarsi così pervicacemente sull’inconciliabilità tra teologia cristiana e filosofia precristiana (preferiamo, infatti, non definirla tout court “pagana”), di fronte al basilare concetto di Logos di giovannea memoria, altrettanto fondamentale nel pensiero antico: almeno quanto quello di To En.

Oltretutto, e con questo suggelleremmo la questione, la verosimiglianza delle affermazioni di Garlington si scontra definitivamente col fatto, segnalato dal teologo Giovanni Battista Mondin, che il principale tentativo di sintesi fra filosofia classica e cristiana fu compiuto piuttosto da S. Tommaso d’Aquino, che non da S. Agostino[5]. Una tesi simile è peraltro sostenuta anche da William Ralph Inge, per il quale l’Aquinate «è più vicino a Plotino di quanto non sia al vero Aristotele»[6].

Il vero problema

La presunta “eresia originaria che ha diviso la Chiesa latina dall’ortodossia orientale e ha creato le due Europe”, viene fondamentalmente addebitata da Garlington a Carlo Magno per i motivi sin qui esposti e, sempre secondo lui, rappresenterebbe la naturale causa della “nostra attuale crisi morale e spirituale, che non sarà risolta finché le Chiese che vi persistono, a cominciare da Roma, non si pentiranno e non ritratteranno l’errore”.

A nostro modo di vedere, qualunque possano essere le responsabilità cattoliche e/o ortodosse che hanno portato al “grande scisma”, la questione non può rimanere ridotta ad un problema d’ordine “morale e spirituale” nell’accezione letterale dei termini. Oltretutto, ciò di cui la gerarchia sacerdotale cattolica dovrebbe “pentirsi” è ben altro, e lo abbiamo già evidenziato precedentemente.

Per quel che riguarda l’attuale decadenza sociopolitica e di fede patita dall’Europa occidentale – pienamente promossa e coltivata nell’orizzonte degli odierni piani del globalismo mondialista – il vulnus è infatti identificabile a partire piuttosto da un punto di vista di tipo “metafisico”: checché ne dica appunto Garlington sulla criticità endemica che sarebbe insita nel rapporto tra fede e ragione (teologia cristiana e filosofia ellenistica).

Come abbiamo già accennato, se bisogna parlare di una crisi o di un’anomalia della cattolicità, ciò va collegato principalmente con la presente insussistenza, in Europa, di una Chiesa cattolica coerentemente basata tanto su di una Auctoritas Sacerdotalis (il Papato) quanto su di una Potestas Regalis (l’Impero).

In analogia con la duplice funzione Sacerdotale e Regale svolta da Cristo Gesù, la Sua Ecclesia non può non mantenerne analogicamente la medesima ripartizione: la sola in grado di garantire l’equilibrio necessario alla sua stessa vitalità, nella Verità della Misericordia e Giustizia.

Nell’assenza dell’Istituto preposto anche solo ad uno di tali rispettivi esercizi, la Chiesa, pur senza potersi annullare data la sua natura archetipica che comunque le garantisce un’ininterrotta esistenza metastorica, tuttavia, a motivo di tale suddetta sua incompletezza, potrebbe storicamente ridursi ad uno stato di latenza: a ciò costretta da un temporaneo preponderare su di essa delle forze infere.  .

Come già avvenuto in altre occasioni, continueremo a ribadire incessantemente che la dottrina politico-filosofica espressa da Dante (facendo una purificatoria tabula rasa di tutto quanto lo ha seguito) rimane il punto fisso da cui la nostra Europa non può e non dovrebbe prescindere, ma anzi da cui occorrerebbe ripartire per attuare la tanto necessaria Renovatio Imperii.

Con buona pace di Garlington e di tutti coloro che vivono il rapporto tra ortodossia e cattolicesimo all’insegna di un’insanabile rivalità e contrapposizione, nelle odierne contingenze storiche tutto ciò che è sintomo di disunione va rigettato.

I nostri fratelli cristiano-ortodossi dell’euroasiatica Russia hanno appena dato inizio all’eroica battaglia contro il nostro medesimo nemico, quale è il Nemico di Cristo; e ciò secondo una loro già acquisita e profonda consapevolezza della necessità di ricostituirsi in un Impero.

Da parte nostra, allora, noi cattolici Milites Christi, difensori in temporalibus della restante parte della cristianità europea, traendone esempio e sprone dovremmo lavorare per guadagnare la medesima consapevolezza; così da poter un giorno guardar loro, con gli stessi occhi vincitori e con la medesima fiera dignità di chi non ha chinato il capo.

Il presente scritto è stato pubblicato sul seguente blog:

www.ideeazione.com (12.05.23)

 

NOTE

[1] https://www.ideeazione.com/lossessione-dei-globalisti-per-carlo-magno/ (6 maggio 2023).

[2] Cfr. F. CARDINI, Carlo Magno, Ed. Rusconi Libri, Milano 1998, p. 83 sg; cfr. pure A. BARBERO, Carlo Magno, Ed. Laterza, Bari 2002, p. 93 sg.

[3] Il testo della «Chiarificazione» è stato pubblicato sotto il titolo «Le tradizioni greche e latine riguardo la processione dello Spirito Santo» (Documentation catholique , n. 2125, 5 Nov. 1995, p. 941- 945), inaugurando così una prospettiva per una nuova convergenza intorno a questo serio dibattito teologico, in vista della relazione tra le due Chiese.

[4] Cfr. https://apostoliki-diakonia.gr/it_main/catehism/theologia_zoi/themata.asp?cat=dogma&contents=contents.asp&main=texts&file=2.htm

[5] G. B. MONDIN, Storia della metafisica, Volume 2, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998, p. 476.

[6] W. R. INGE, citato in B. RUSSELL, Storia della filosofia occidentale, Londra, George Allen & Unwin Ltd., 1946, p. 286. Lo stesso Inge sottolinea anche come «il platonismo fa parte della struttura vitale della teologia cristiana, con la quale nessun’altra filosofia, oserei dire, può venire a contatto senza contrasti»; a parere dell’autore inglese, quindi, vi è un’«assoluta impossibilità di separare il platonismo dal Cristianesimo, senza mandare in pezzi il Cristianesimo».