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Rapporti tra la Chiesa e l’Impero nella concezione di Federico II, di Antonino de Stefano (a cura della Redazione)

Sigillo aureo di Federico II

 

Preambolo del Curatore

In seno ad un suo saggio del 1937, intitolato Civiltà Medievale e recentemente ristampato da Cinabro Edizioni (Roma 2023), lo studioso e medievista Antonino de Stefano (1880-1964) dedica specificatamente il dodicesimo capitolo all’approfondimento della concezione imperiale che Federico II di Svevia (1194-1250) veniva portando ad estremo compimento durante il suo regno; e ciò con particolare riferimento ai rapporti che, alla luce di essa concezione, si auspicava dovessero sussistere tra Potere Regale ed Autorità Sacerdotale, tra Impero e Papato.

Nel rispetto del carattere di sintesi presentato dall’intero saggio, che in appena 200 pagine si propone l’ambizioso obiettivo di riassumere accuratamente l’intero periodo dell’Età di Mezzo nei suoi aspetti ideali, politici ed economici, l’argomento in questione viene trattato dal de Stefano in maniera in effetti rapida, eppure, nel medesimo tempo, soddisfacentemente completa ed incisiva.

Nonostante proprio in quello stesso anno ‘37 lo studioso, col dare altresì alle stampe il saggio L’idea imperiale di Federico II (ripubblicato dalle Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999), poteva dedicare maggior respiro e densità al medesimo argomento, tuttavia l’inserimento di tale tema in un contesto più ampio e generale, quale è quello appunto di Civiltà Medievale, dona alla questione la possibilità di una sua valutazione più organicamente meditata, articolandola con le dinamiche storiche entro cui la concezione imperiale federiciana maturò e poi venne ad esaurirsi.

Ne proponiamo qui di seguito una nostra personale e riassuntiva sintesi.

 

I precedenti

Realizzata da Carlo Magno con l’istituzione del Sacro Romano Impero (a.D. 800), l’unità politica dell’Europa non ebbe però vita lunga; e tuttavia l’ideale imperiale non tramontò con la morte del sovrano franco.

Il de Stefano individua in ciò il segno che suddetto ideale, piuttosto che nel Regno carolingio, affondava le proprie più profonde e vitali radici nella tradizione romano-cristiana, rappresentata principalmente dalla Chiesa.

Nei primordi del nuovo Impero, era diffusa e viva sia da parte papale che imperiale la coscienza che Dio stesso avesse provvidenzialmente compiuto la translatio imperii, piuttosto che non gli Istituti umani che da essi venivano rappresentati.

Quel periodo è ricordato come un felice momento di equilibrio fra i due supremi poteri della Cristianità, i quali si ispirarono e si integrarono a vicenda in una intima ed estrema compenetrazione. Sintomatica dell’epoca era una concezione apocalittica, universalmente diffusa, secondo cui le sorti delle due Istituzioni sarebbero sempre state così strettamente legate fra loro che quando avrebbe cessato di esistere l’Impero, avrebbe cessato di esistere anche il Papato, sarebbe apparso l’anticristo e sarebbe finito il mondo.

[Nota del Curatore. Detto incidentalmente, ci è possibile constatare come siano proprio gli avvenimenti odierni a dar ragione a quella profetica visione]

Dopo tale prima fase, il trono imperiale fu detenuto dalla dinastia ottoniana (962-1024), la quale fu in grado di rinnovare l’Impero e portare all’evidenza il suo carattere sacro, provvidenzialmente preordinato da Dio. La sua funzione religiosa venne peraltro ancor più posta in risalto da quello che può considerarsi il periodo medievale di maggior decadenza del Papato, della sua maggior miseria spirituale e materiale.

Fu proprio l’Impero ad impedire che la Chiesa divenisse preda di una cupida nobiltà romana, la quale tendeva a minare l’Istituto sacerdotale con la corruzione. E fu per riottenerne la virtuosità incrinata che l’Istituto regale, da semplice protettore e difensore della Chiesa, ne diventò in certo senso l’amministratore e capo. A tal fine, venne promossa una numerosa feudalità ecclesiastica, con vescovi che assunsero la dignità di conti e di principi, con funzionari ecclesiastici che furono anche ministri e diplomatici, guerrieri e condottieri.

Purtroppo, quella che prima era stata una solidarietà di interessi e di fini, una reciproca compenetrazione spirituale, adesso si era mutata in un confuso mescolamento di elementi religiosi ed elementi temporali, di rapporti spirituali e di rapporti politici. Oltretutto, si palesava manifestamente uno squilibrio di forze a favore dell’Impero.

Il sempre crescente dissidio, che doveva presto suggerire a Papato e Impero la oramai imprescindibile necessità di acquisire una maggiore e più chiara coscienza della propria rispettiva funzione storica, scoppiò con virulenza all’epoca di Enrico IV (1050-1106): terzo Imperatore della casa di Franconia, che nel frattempo era succeduta a quella ottoniana.

Siamo nel periodo della cosiddetta ‘lotta delle investiture’ (1076-1122), durante la quale si inasprirono i contrasti in vista dell’elaborazione e dell’affermazione di quale identità dovesse assumere il potere laico nel collocarsi accanto a quello ecclesiastico.

Se le rivendicazioni erano diversificate ed opposte, rimaneva tuttavia comune ad entrambi i poteri l’obiettivo di garantire alla Chiesa i valori dell’unità cristiana e della libertà delle istituzioni. Tuttavia, mentre l’Imperatore accentuava i toni sulla salvaguardia dell’unità, che a suo dire veniva minata dalle velleità del Papato di pervenire ad una separazione dei poteri, d’altro canto il Pontefice insisteva maggiormente sulla tutela della libertà, affermando che questa si sarebbe potuta basare solamente sulla reciproca autonomia tra i domini spirituale e temporale.

[Nota del Curatore. Ci si conceda en passant una valutazione personale. A noi pare che il problema di fondo, qui nel merito, risieda praticamente nel dubbio, peraltro oggi non ancora risolto, riguardante il dover, o meno, riconoscere anche all’Impero lo status ‘ontologico’ di Chiesa, tanto quanto il Papato: seppur certamente con i dovuti distinguo, legati alle peculiarità delle rispettive differenti funzioni]

Ma tale autonomia del Papato doveva essere innanzitutto realizzata attraverso una riforma interiore del clero, tramite la lotta contro le sue due principali forme di corruzione: la simonia ed il concubinato.

A ciò si indirizzò innanzitutto la riforma cluniacense, la quale, in linea col proprio carattere monastico, imponeva al clero il ritorno ai principi evangelici di castità e povertà.

Tuttavia, appena recepita dalla gerarchia, tale riforma assunse presto un carattere il quale, oltre a moralizzare la vita del clero, in verità tese a destare e a maturare una nuova coscienza religiosa nelle masse popolari, affinché divenissero più consapevoli dei propri diritti e del proprio valore, più avvertite delle proprie capacità di critica e di iniziativa. In altre parole ci fu, da parte del Papato, anche un utilizzo socio-politico della riforma, col quale si cominciava a delineare una sua sempre crescente rivendicazione di egemonia anche nel campo temporale.

La figura cardine di questa svolta fu il diretto antagonista dell’Imperatore Enrico IV: Papa Gregorio VII (1015-1085).

Monaco di Cluny, una volta asceso al soglio pontificio (a.D. 1073) egli manifestò un carattere di tale aspro zelo, veemente foga e spregiudicata ostinazione, che se a taluni apparve come santo e profeta, per altri sembrò incarnare addirittura l’anticristo.

Per il trionfo delle proprie idee politico-religiose, che scuotevano dalle fondamenta l’ordinamento tradizionale della società, egli non provò inibizione nel servirsi, appunto, delle forze popolari.

Il suo pensiero può essere così sintetizzato: la Chiesa (ovviamente da lui intesa come costituita solo dal Papato) doveva godere di libertà illimitata e, di conseguenza, di completa egemonia anche in ambito temporale. Poiché il potere regale del Cristo era stato trasmesso al solo vicarius Petri, il Papa doveva pertanto mantenere la funzione di giudice supremo di tutta la cristianità, in quanto detentore della massima sovranità feudale.

[Nota del Curatore. Ci sembra quasi inutile rimarcare come questa posizione strida clamorosamente con alcuni noti passi delle Scritture Sacre, quali ad esempio: Rm 13,1; Pr 8,15; Sap 6,1-3. Da essi desumiamo, infatti, che il potere ‘regale’ proviene direttamente da Dio, cosicché l’Investitura imperiale o regale viene semplicemente ‘amministrata’ dal sacerdozio, che non la ‘comunica’ ma piuttosto la ‘ratifica’]

Basandosi oltretutto sul falso documento della Donazione di Costantino (la cui autenticità, come è noto, fu confutata nel 1440 da Lorenzo Valla), Gregorio VII rivendicò il dominio su tutta l’Europa medio occidentale.

Pur alla fine dimostrandosi utopistici e destinati al fallimento, i termini della cosiddetta ‘riforma gregoriana’ vennero comunque a scavare ormai, per gli anni a venire, un incolmabile dissidio tra i due poteri. Il tentativo di mutare i reciproci rapporti di forza aveva difatti ormai instaurato un’irreversibile pregiudizio all’attuazione persino di quell’equilibrata, rispettiva autonomia nell’unità, per la quale Gregorio VII stesso aveva sempre detto di voler strenuamente lottare.

Fu così che i timori di parte imperiale, che da tempo si erano andati sollevando, alla lunga si dimostrarono palesemente giustificati.

Se il ‘sogno gregoriano’ non ebbe alcun impatto degno di rilievo nel contenimento della corruzione del clero, le sue conseguenze si fecero invece sentire proprio in campo sociale. La possibilità data anche alla plebe di legittimamente rifiutarsi di assistere alla messa celebrata da un sacerdote indegno o di porre addirittura in discussione la validità dei sacramenti amministrati da preti simoniaci e concubinari, fece percepire alle masse di essere ormai divenute fattore attivo e ricercato della vita pubblica. Il popolo cominciò insomma a sentirsi dotato di forza. E se questa si costituì, in una prima fase, come utile per il Papato (ma in parte anche per l’Impero), nel corso di breve tempo si tramutò per i due poteri in una propria pericolosa vulnerabilità.

Quale arma a doppio taglio, infatti, il potere dato al popolo nel collaborare ad impedire la corruzione del clero, presto si trasformò nella presunzione di avere la capacità di giudicare i propri pastori ed i propri maestri: divenendo, per questo, più pericolosamente incline alla ribellione.

Tale fenomeno, spiega il de Stefano, fu il germe del futuro sviluppo della coscienza civile del popolo, che sfocerà nella futura e lunga rivoluzione borghese dell’Occidente. Sulla scorta dei presupposti inaugurati con la riforma di Gregorio VII, insomma, la borghesia era destinata a divenire la vincente classe sociale dell’era moderna. Essa deporrà la Regalitas imperiale, sostituendone la potestà col proprio modello politico di governo democratico, nonché ridimensionerà l’impatto sociale e spirituale del Sacerdotium papale, diffondendo e sempre più imponendo, in maniera pervasiva, i principi antireligiosi del laicismo.

In definitiva, l’irruzione del popolo nel grande dramma che opponeva Papato e Impero, provocato dalla teoria gregoriana, trasferì la questione dai dibattiti teologici a palpitante materia di opinione pubblica. Ciò non soltanto fece riaccendere le lotte tra i due poteri in maniera più ardente che mai, ma preparò oltretutto le vie alla restaurazione delle libere istituzioni comunali.

L’ascesa della popolazione nuova dei Comuni, la quale sfruttava la rivalità dei due poteri aderendo ora all’uno ora all’altro, secondo le proprie necessità del momento, si ritorse innanzitutto contro l’Impero, in quanto dal popolo fu avvertita più immediatamente la pretesa dell’autonomia politica. La lotta assunse peraltro non solo un carattere dichiaratamente antigermanico, contro l’elemento nazionale che appunto caratterizzava le casate che si erano avvicendate sino ad allora sul trono imperiale a cominciare dagli Ottoni, ma altresì giuridico: e ciò con la rinascita del Diritto Romano e la formazione del Diritto Canonico. Lo sviluppo di quest’ultimo era indirizzato alla formulazione in termini vieppiù vigorosi dell’indipendenza del Papato di fronte all’Impero

L’azione giuridica si estese man mano che si accentuavano le pretese assolutistiche e temporalistiche del Papato, trovando nella redazione delle innumerevoli decretali l’arma più consona. La loro promulgazione finì addirittura per assumere una importanza ed una prevalenza decisiva sulle stesse fonti scritturali e teologiche.

Culminando con Bonifacio VIII (1235-1303), questo sviluppo della scienza canonica, determinato essenzialmente da fini politici, sancì praticamente la sostituzione del teologo con il giurista e i fini religiosi con le esigenze politiche della potenza papale. Mortificando le ragioni spirituali della propria esistenza, il Papato oramai mirava convintamente a sostituire la podestà civile, proponendosi quale unico e supremo legislatore.

Fu proprio sul terreno giuridico che germogliarono i conflitti più aspri tra Papato e Impero, allorquando Federico II venne fondando su di esso la propria concezione imperiale.

Il suo generoso sforzo di erigere un legalmente legittimato baluardo contro le pretese temporali del Papato, senza per questo venir meno alla tradizionale disponibilità dell’Impero a porsi a totale servizio della cristianità, non rappresentò altro che l’ultimo vano tentativo di armonizzare i diritti delle due podestà supreme.

 

I rapporti tra la Chiesa e l’Impero nella concezione di Federico II

La formulazione giuridica dell’Impero, data da Federico II, si basava sulla concezione di una sovranità temporale di diritto divino, la quale comunque cercava di eliminare ogni possibile conflitto con l’autorità religiosa sulla base della precisa puntualizzazione delle rispettive, distinte sfere d’azione.

Esattamente in direzione contraria alla concezione gregoriana, che vedeva nella sovranità regale un’origine peccaminosa e quasi diabolica, lo Svevo, riconnettendo il proprio pensiero politico alla dottrina agostiniana del peccato originale, le riconosceva invece un’origine provvidenziale e divina.

La caduta di Adamo, contestualmente alla perdita della perfezione naturale, aveva comportato per l’umanità una deriva di disordine spirituale e temporale che aveva provocato lo scatenamento di sentimenti quali l’invidia e la cupidigia, a loro volta causa di violenze e di guerre.

Nel proemio alle sue Costituzioni del Regno di Sicilia, redatte a Melfi nel 1231, egli affermava che Dio, per tenere a freno gli istinti delittuosi dei sudditi, aveva provvidenzialmente suscitato i Principi, il cui compito era quello di restaurare l’ordine naturale sconvolto dal peccato d’origine, al fine di garantire ai popoli la giustizia e la pace.

La rerum necessitas (la necessità) di tale restaurazione non poteva che scaturire dalla gratuita grazia di Dio. La sovranità temporale infatti non poteva che essere determinata e generata dal volere divino, il quale appariva a Federico II come principio attivo direttamente inerente all’insieme delle cause naturali.

Al di sopra della natura, di ogni arbitrio individuale, vi è quel Diritto che scaturisce da Dio e che, manifestazione di un ordine provvidenziale, sostiene il trono dei Principi, a cui è anteriore.

Sempre secondo il concetto di Federico II, organi di tale Diritto sono i Principi e gli Stati particolari, dei cui reciproci rapporti l’Impero rappresenta il supremo organo regolatore. Come il concetto della redenzione presuppone l’unità del genere umano, la quale implica, a sua volta, il concetto teologico della ‘subordinazione degli esseri’ in cui si invera il principio – omnia ordinantur ad unum (tutte le cose sono ordinate all’unità) – così sussiste, accanto ad una gerarchia spirituale con al vertice il Papa, una gerarchia temporale al cui vertice si colloca l’Imperatore, il Monarca Universale.

Quest’ultimo è designato dagli Elettori in virtù di un’ispirazione divina analoga a quella che assiste i Cardinali nell’elezione del Pontefice, ricevendo direttamente da Dio il proprio potere.

Per i suddetti motivi – ossia, per la sua diretta origine divina e per la provvidenziale sua missione temporale – all’Impero, nella propria sfera d’azione, spetta una perfetta autonomia da ogni altro potere, venendosi così a ribadire la sua completa parità con il Papato.

Se da una parte l’autorità sacerdotale è destinata a condurre gli uomini, per mezzo della rivelazione, della fede e dei sacramenti, alla salvezza ed alla felicità del Cielo; dall’altra parte, per mezzo della legge e della ragione (dei philosophica documenta, come dirà Dante) il potere regale li condurrà alla felicità terrena, che a quell’altra è propedeutica.

In fin dei conti, la separazione dei due poteri e il diritto mantenuto dalle autorità civili sul temporale era un concetto che Federico II riprendeva tale e quale come era già stato chiaramente formulato da S. Ambrogio (339-497) e da Papa Gelasio († 496), sulla scorta del passo evangelico di Mt 22,21 (anche in Mc 12,17 e Lc 20,25).

La paradossalità della questione era che, mentre nel caso di Gelasio I codesto concetto era servito per sottrarre il Papato alla dipendenza dello Stato temporale, Federico II lo adoperava invece esattamente per necessità opposta: liberare l’Impero dalla dipendenza dell’autorità spirituale. Ma ad ogni buon conto, la concezione teocratica del Papato rimaneva palesemente in contraddizione con gli assunti su cui si sarebbe dovuto convenire.

Il de Stefano ribadisce a questo punto che, secondo la posizione mantenuta da Federico II, tale affermata autonomia dei due poteri non poteva né doveva prescindere dalla loro reciproca solidarietà e collaborazione; e ciò alla luce proprio della loro comune origine divina e della comunione dei loro fini.

Se la felicità celeste non poteva essere raggiunta senza la felicità terrena, d’altro canto questa non poteva esser guadagnata a scapito della prima. Ecco perché l’Impero doveva mantenere tra i suoi compiti soprattutto quello di proteggere la Chiesa tutta, difendendola dai suoi nemici esterni ed interni: intendendo con questi ultimi, gli eretici.

Anche nei periodi di più aspro dissidio col Papato, lo Svevo mantenne sempre integre le sue Costituzioni contro le eresie, giacché la sua posizione era chiara: ogni esaltazione o decadimento del Papato si sarebbe tradotta in esaltazione o decadimento dell’Impero, dacché entrambi fondati sulla stessa fede cristiana.

Tale fede – la Fides secondo il concetto tradizionale – era da intendersi infatti nel duplice senso di credenza religiosa e di fedeltà temporale. Pertanto, siffatta comunanza non poteva non tradursi che in un’intima compenetrazione fra i due poteri e quasi in una loro fusione; la qual cosa era da lui così ribadita: «Per l’onore e l’esaltazione della fede cristiana, Impero e Sacerdozio formano una sola e medesima cosa».

 

Conclusioni del Curatore

Proprio a conclusione delle sue osservazioni inerenti all’idea imperiale di Federico II, il de Stefano si trova a citare un risvolto della questione in una maniera che rimane purtroppo solo incidentale, ma che a nostro avviso invece risulta essere dirimente. Al fine di evitare quegli annosi equivoci che ancora oggi sono alla base di un’idea confusa ed errata in merito alla reale posizione ‘ontologica’ occupata dall’Impero all’interno della Chiesa, nonché alla legittimità delle sue pretese, bisognerebbe insomma interpretarne le implicazioni con la dovuta attenzione.

In pratica, lo studioso sottolinea come lo Svevo, nonostante la sua fiera difesa dell’autonomia dell’Impero rispetto al Papato oltretutto dichiarata al pari della loro comune origine divina e della comunione dei loro fini, si ritroverebbe ad ammettere, in maniera che parrebbe invero contraddittoria, una certa preminenza della Chiesa sacerdotale: e ciò, allorquando le si rivolge col rispettoso e sottomesso appellativo di ‘madre’.

Peraltro, è alquanto emblematica e curiosa la contingenza del fatto di come risulti analogo con ciò anche l’atteggiamento che assumerà Dante, qualche decennio più tardi, al termine del suo trattato eminentemente filoimperiale del Monarchia (i cui contenuti appaiono totalmente in linea con le concezioni federiciane). Lo constatiamo laddove egli invita ‘Cesare’ (l’Imperatore), ad usare reverenza per ‘Pietro’ (il Papa): così come il ‘figlio primogenito’ deve usarla per il proprio ‘padre’.

Per cogliere correttamente la questione, ci sembra chiarificante riprendere quanto già scritto in un nostro precedente saggio[1], laddove citavamo alcune illuminanti intuizioni del filosofo Augusto del Noce.

In effetti, nella sua riflessione sulla filosofia politica dantesca e sulla autonomia tra Papato ed Impero, egli così spiega il fatto per il quale un ordine possa essere ordinato in vista di un altro ordine come in vista del suo fine, senza essergli tuttavia subordinato quanto all’autorità: «[…] in Dante (e quindi anche in Federico II, N.d.A.), la gerarchia di dignità non deve essere confusa con la gerarchia di giurisdizione. Tale confusione, lungi dall’essere omaggio all’ordine stabilito da Dio tra le cose, ne è la violazione: ed è essa che permette alla cupiditas, che nel dominio filosofico ha il significato dell’opposto della giustizia e in quello teologico della volontà pervertita dal peccato, di prevalere. Per cui il riconoscimento dell’autonomia degli ordini è la forma autentica del rispetto all’ordine stabilito da Dio, o alla sovranità di Dio stesso […]. Che questa confusione della gerarchia di dignità con la gerarchia di giurisdizione sia la via attraverso cui la cupiditas si afferma nel mondo politico e viene a trionfare, è quel che risultava a Dante nella sua diretta esperienza; ed è quel che oggi si è reso manifesto come non mai. La Chiesa, infatti, nella ricerca di dominare completamente il piano temporale non potrà cercare appoggio altrove che nella cupiditas dei laici: e questa fu la condizione a cui dovette obbedire il grande avversario di Dante, Bonifacio VIII, nella sua ricerca di sottoporre gli uomini al “giogo apostolico” in conseguenza del principio che Dio lo aveva posto “super reges et regna”»[2].

Questa sottile differenziazione ben spiega dunque come mai Federico II (e con lui anche Dante) se da una parte ritenga la sfera del Potere temporale assolutamente autonoma rispetto a quella dell’Autorità sacerdotale, d’altro canto riconosce come l’Impero nel medesimo tempo tanto ‘relativamente superiore’ dal punto di vista ‘giurisdizionale’ quanto ‘relativamente inferiore’ dal punto di vista della ‘dignità’.

Se l’ambito spirituale è per propria natura fornito di maggior ‘elevatezza’ rispetto a quello temporale (ed è per tale motivo che il Papa è ‘padre’, ovvero la gerarchia ecclesiastica è ‘madre’), d’altro canto questo ambito, sempre per propria natura, mantiene una chiara ‘precedenza’ nella gestione e nell’attuazione delle norme giuridiche e quindi del governo.

E così, si può concludere dicendo che i due supremi Poteri della Chiesa sono autonomi tra loro, ma non indipendenti: così come, nella persona umana, la fede e la ragione o l’anima ed il corpo.

 

NOTE

[1] C. INTINI, Potere Regale ed Edificio Ecclesiale, in AA.VV. Cristo è Re. La Regalitas quale archetipo della Chiesa Cattolica, (a cura di) SODALITIUM EQUITUM DEIPARAE MISERIS SUCCURRENTIS, Ed. Cantagalli, Siena 2021, pp. 43-59.

[2] A. DEL NOCE, Dante e il nostro problema metapolitico, in L’Europa, V, 30 aprile 1971 (ora in A. DEL NOCE,

Rivoluzione Risorgimento Tradizione, a cura di F. Mercadante, A. Tarantino, B. Casadei, Milano 1993, p. 324).