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Se la memoria è senza il memoriale (di Cosmo Intini)

Giotto, Cristo davanti a Caifa, (affresco 1303/1305), Cappella degli Scrovegni, Padova

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“Venne a casa sua e i suoi non Lo ricevettero” (Gv 1,11)

Una contraddizione palese o apparente?

Data la loro concomitanza, molto spontaneamente viene da chiedersi in questi giorni come possano ritenersi conciliabili due eventi quali la prossima scadenza commemorativa ebraica del ‘Giorno della memoria’ (27 gennaio 2024) e l’ultima genocida invasione armata, israeliana, della Striscia di Gaza.

Volendo qui di seguito operare una riflessione in merito a quella che da alcuni viene percepita come una stridente contraddizione, mentre da altri è invece riaffermata e giustificata come coerentemente rientrante nella medesima ratio, prescinderemo tuttavia dall’approfondirci sulle posizioni più generali che vengono usualmente assunte a partire dalle logiche contrapposte.

Da una parte, insomma, non insisteremo su quei tentativi portati avanti da coloro che, ‘ideologicamente’, riducono tutto al contesto della persecuzione razziale che il popolo ebraico sarebbe chiamato a subire e fronteggiare[1].

D’altra parte, non trarremo nemmeno conclusioni sulla base dello sconcerto ‘emotivo’ che l’opinione pubblica mondiale sta largamente mostrando di fronte al fatto che proprio coloro i quali si sono sempre lagnati di essere le sofferenti vittime, oggi si sono esplicitamente rivelati quali impietosi invasori e carnefici.

In verità, l’esigenza di offrire nel merito un nostro contributo nasce sulla base di una precisa convinzione: per meglio inquadrare la questione è necessario abbandonare ogni forma di approccio di carattere soggettivo – ideologico o emotivo che sia – per affidarsi invece all’oggettività desumibile da considerazioni basate su principi metafisici.

In quanto cattolici, poi, ci chiediamo allo stesso tempo quale posizione sarebbe più opportuno assumere, volendoci esprimere alla luce delle nostre convinzioni di fede.

Differenza tra memoria e memoriale

Intanto risulterà utile specificare subito quale sia la differenziazione che si pone tra ‘memoria e memoriale’.

Nonostante ciò sembri inerire ‘direttamente’ solo al primo dei due avvenimenti citati (memento: Giorno della memoria e genocidio di Gaza), proprio codesta questione, purché affrontata da un punto di vista metafisico, risulta invece indicativa e dirimente per inquadrare ‘indirettamente’ anche il secondo di essi. Questo perché è tale presa in carico che ci permette di discernere e consapevolizzare, in maniera anche più generale, quali siano le peculiarità della natura ‘essenziale’ (ossia l’‘essenza’ ontologica) della cultura ebraica. In tal modo, potremo operare insomma una ‘sintesi’ che, proprio in quanto tale, porrà in risalto il ‘filo rosso’ posto alla base di qualunque ‘agire’ di essa cultura.

Premesso ciò, va precisato che mentre la ‘memoria’ è semplicemente il ricordo di un fatto passato – come appunto lo sono, per gli Ebrei, l’Olocausto o il biblico Esodo dall’Egitto – il ‘memoriale cristiano’ invece è qualcosa di più.

Se in senso stretto esso coincide con la celebrazione Eucaristica, in senso lato esso esprime invece l’interezza stessa del salvifico sacrificio patito dal Cristo Logos sulla Croce. Tuttavia, a differenza della semplice ‘memoria’, il ‘memoriale’ non è solo il ricordo del fatto storico già avvenuto, ma è anche la sua ‘ripresentazione’, la sua ‘ri-attualizzazione’ ontologica. È proprio tale suo rinnovato e rinnovante ‘porsi in atto’ ciò che permette al cristiano di ogni epoca di parteciparvi sempre direttamente, presentemente e concretamente. E questo diviene possibile dal momento che il sacrificio di Cristo è stato offerto una volta per tutte sulla Croce e rimane sempre ‘attuale’: ossia ‘in atto’[2].

Non da ultimo, un aspetto importante e significativo del ‘memoriale’ risiede nel fatto che il ‘vero’ cristiano, contestualmente alla propria partecipazione e coerentemente con la propria attestazione di fede, deve aver cura di disporsi secondo una totale ‘con-formazione’ ontologica con esso. Solo in tal modo, infatti, egli potrà realmente ‘partecipare’ della grazia salvifica promanante dal sacrificio del Cristo Logos; la quale è sì ‘gratuitamente’ a lui elargita da Dio, ma a cui egli deve rispondere, per poterne beneficiare, con una immediata manifestazione di apertura e disponibilità ontologica alla ‘ricezione’.

Logos divino e logos umano

La ‘con-formazione’ più completa e propria che l’uomo possa attuare col Cristo, in quanto Logos, è appunto quella che egli deve adottare a livello del suo stesso logos: intendendo con questo termine non tanto la ‘ragione’ razionalmente intesa, quanto la diade ‘pensiero-parola’ che pone la totalità della ‘persona umana’ (spirito, anima e corpo) in analogia di ‘immagine e somiglianza’ con ‘Dio Creatore’: Colui che, attraverso la Sua Parola, è causa e origine dell’‘Ordine logico’ del mondo (κοσμος).

Ciò che rende l’uomo simile a Dio è la propria libertà di arbitrio e di potere, la propria dignità di ‘persona’ in quanto dotata dell’iniziativa e della padronanza dei propri atti; in una parola: in quanto ‘ragionevole’[3].

Va di conseguenza anche ribadito che l’adesione di ‘con-formità’ tra logos umano e Logos divino non può avvenire sul piano del puro e semplice sentimentalismo o dell’emotività soggettiva (fede devozionistica). Riprendendo la terminologia adoperata da S. Paolo, il più vero e totalizzante atto di fede si manifesta non tanto con la semplice ‘fiducia’ (πιστις), quanto con l’omo-loghìa; parola la quale, usualmente tradotta con ‘confessione e testimonianza di fede’, indica nell’accezione più propria, appunto, la ‘conformità’ con il Logos (omos + logos).

Logos metafisico e logos naturale: un rapporto di analogia e comunione

Se la presenza nell’essere umano della ‘ragione’ intimamente correlata alla sua capacità anche di ‘parola’, ne fa un unicum fra le creature, ciò acquisisce una ancor più significativa valenza alla luce di quella che è la natura della ‘Rivelazione cristiana’.

Il tutto si può spiegare partendo dall’assunto del Prologo del Vangelo di Giovanni, secondo cui Cristo Gesù è il Logos (Gv 1,1-14)! Tale complesso termine, che riveste un ruolo chiave nell’ambito della Rivelazione, innanzitutto mutua dal contesto filosofico-culturale greco, da cui direttamente deriva, il duplice significato appunto di ‘pensiero e parola’. «Logos [] è uno di quei termini che da soli potrebbero riassumere sinteticamente l’esperienza culturale degli antichi Greci. Logos significa parola, pensiero, razionalità, capacità dell’essere umano di connettere e sviluppare i propri pensieri: è ciò che caratterizza l’uomo rispetto agli animali, detti appunto àloga, irrazionali»[4].

Seppure le due facoltà umane di ‘pensiero e parola’ vadano sempre intese nella loro identicità e coincidenza ontologica, ovvero nella loro corrispondenza e correlazione operativa, in maniera tale che nessuna di esse possa ritenersi prescindibile dall’altra, tuttavia delle due si presenta ‘centrale’ la seconda, dato il carattere per l’appunto ‘rivelativo’ della teologia vetero e neotestamentaria; nonché, più in generale, data la funzione mediatrice svolta da essa parola, al fine di esprimere e comunicare il pensiero.

Tale contingenza viene del resto confermata dal precipuo, prevalente permanere di tale accezione nella più generica traduzione che del termine greco Logos viene effettuata dal latino Verbum.

In effetti, «il nucleo centrale di logos si situa nell’ambito del ‘dire’: qualsiasi vocabolario ci indica come primo ed essenziale valore di logos la comunicazione verbale, l’attività del parlare, il discorrere. E poiché il comunicare coi nostri simili implica la facoltà di intessere discorsi dotati di senso, logos assume altri valori correlati con la razionalità umana, e viene a significare ‘criterio’ e ‘ragione’. In quanto parola e pensiero, logos si contrappone a ergon: la semplice affermazione rispetto alla realtà, la riflessione rispetto all’azione»[5].

Ma la ricchezza di implicazioni legate al termine logos non si esaurisce qui. Vanno difatti pure valutate quelle derivanti relativamente all’uso che se ne è fatto in seno al greco biblico, o più precisamente veterotestamentario.

«L’incontro con la cultura semitica fa assumere a logos nuovi significati. Nella versione dei Settanta il termine semitico sottostante è in genere dabar, che a sua volta viene reso ora con logos ora con rhema: la scelta dipende dal gusto dei traduttori, varia a seconda dei libri e non comporta sostanziali differenze semantiche. Diversamente da quanto abbiamo visto in greco, la parola ebraica ha un aspetto dinamico: alla parola concreta (dâbâr) si contrappone lo spirito (ruah) e dabar vale ‘parola’ e ‘fatto’: è la parola che si realizza e diviene realtà. La parola per eccellenza è quella di Dio, parola creatrice, parola di promessa, parola di Rivelazione, parola che diviene atto nel momento stesso in cui è proferita. Ma dabar contiene anche un aspetto noetico: la parola come tramite tra l’uomo e la realtà, come segno che rimanda oltre la parola stessa»[6].

Dunque, analogamente al greco logos, anche il termine ebraico dabar risulta esser legato principalmente al ‘dire’, costruito come esso è sulla radice *dbr-, il cui verbo significa appunto ‘parlare’. Tuttavia, in senso veterotestamentario il “dicere Dei est facere[7]; ovvero, inversamente, il “facere Dei est dicere”. Il dabar ebraico non è quindi un logos nell’usuale senso classico-filosofico della lingua greca, cioè una parola pensata, ma è un ‘evento’.

In Isaia si legge: «la parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11). Donde appare che la biblica ‘dabar-parola’ non è solo ‘parola’, ma anche e soprattutto ‘atto e realizzazione’.

Va però specificato che l’esperienza ebraica del linguaggio non assegna propriamente alla lingua uno statuto di strumento; pertanto tale evento realizzante di cui il dabar è artefice, in realtà è molto di più di un semplice ‘denominare’ ovvero di un qualunque generico ‘fare’.

In sintesi: l‘essenza del ‘fatto’ non va disgiunta dall’essenza del ‘detto’! Ciò significa che in pratica la lingua ebraica non ritiene esserci dicotomia tra linguaggio e reale; pertanto, il dabar indica che «[] l’esistenza delle cose e degli esseri – così come i loro modi di essere, la loro storia, ecc. – è depositata in potenza nelle parole: parole che non servono affatto a designarli, ma che ingiungono loro di essere. In altri termini, se l’universo del linguaggio contiene già in germe, in modo non dispiegato, tutto l’universo dell’ente, il primo non appartiene al secondo: ne è la condizione di apparizione»[8].

Infine, nel Nuovo Testamento, che può considerarsi il luogo ove il pensiero greco ed il messaggio biblico attuano il loro incontro ‘provvidenziale’ – e perciò non casuale – il significato di logos giunge a definitiva caratterizzazione. Logos diviene cioè «[] la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il Logos, e il Logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una ‘condensazione’ della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco»[9].

Il carattere associativo del dabar, che aveva rappresentato il ponte unificante tra l’universo del linguaggio e quello dell’ente, riconfluendo per via provvidenziale nel greco logos, trova il proprio estremo compimento giungendo a sancire l’incontro tra Creatore e creatura, Dio e uomo, nell’‘Uomo-Dio’!

A differenza del dabar, da cui perviene e che comunque oltrepassa, il Logos cristiano non solo è la condizione di apparizione degli esseri, ma si rende ontologicamente anche da essi ‘partecipabile’. E vedremo tra breve in quale maniera tutto ciò avvenga attraverso il proprio ‘depositarsi’ nella lingua greca; la quale, in tal caso, va a sostituirsi alla lingua ebraica come ‘lingua della rivelazione e dell’Alleanza’, per affermarsi così quale lingua ‘sacralizzata’ dalla e nella ‘Nuova Alleanza’ cristiana!

Da concetto astratto ed invisibile il Logos-Creatore diviene reale e visibile, personificandosi ed incarnandosi nell’uomo. Ciò costituisce un ‘avvenimento’ del tutto particolare, in quanto non soltanto ciò che è intrinseco si estrinseca, l’implicito si esplicita, il nascosto si manifesta, il velato si rivela; ma più precisamente possiamo dire che: ciò che estrinseca, estrinsecando si estrinseca; ciò che esplicita, esplicitando si esplicita; ciò che manifesta, manifestando si manifesta; ciò che rivela, rivelando si rivela.

Siamo insomma al cospetto non di un semplice ‘atto’, di una semplice ‘realizzazione’, quanto piuttosto dell’’atto realizzatore in sé’: l’Atto che si attua, l’Essere che è! Per dirla con l’ontologia tomista: siamo al cospetto non di un ente la cui essenza semplicemente ‘partecipa’ dell’essere, ma di un Ente la cui Essenza ‘coincide’ con l’Essere! La qual cosa ci rimanda pure direttamente alla metafisica di Es 3,14 allorché Dio si rivela a Mosè nel proprio Nome: “Io sono Colui che sono”.

La compiuta ‘realizzazione’ consiste appunto nel fatto che il metastorico ed eterno ‘Essere che è’, proprio del Logos, viene a ‘fissarsi’ nella storia autolimitandosi in una ‘forma’ spazio-temporale, la quale (non a caso secondo il duplice senso del termine) a sua volta permette di farsi ‘fissare’ dall’occhio umano; e tale ‘forma’ è poi quella propria dell’uomo stesso: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in noi (εν ημιν)» (Gv 1,14).

Grazie a ciò, il Dio-Parola diviene per l’uomo da ascoltabile anche visibile, in Cristo Gesù: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18); d’altronde lo stesso Cristo Gesù dice di sé: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Ed è proprio allora che il pensare greco, che aveva fatto del ‘vedere’ la propria struttura portante, provvidenzialmente incontra la fede veterotestamentaria, a sua volta strutturata sull’‘ascoltare’!

Carattere ‘col-legante’ del Logos

Giungiamo così al punto chiave! Pur mantenendo il logos i medesimi connotati che gli avevano riconosciuto sia il pensiero greco filosofico che la fede veterotestamentaria, adesso non è più solo questione di una ‘parola-ragione’ prettamente umana, né solo di un ‘evento (dal lat. ex-venio, ossia ‘ciò che viene da/ viene da Dio’) di cui l’uomo viene, semplicemente, ‘in-formato’.

Alla ‘parola-ragione’ umana è ora dato modo di potersi anche, e addirittura, ‘con-formare’ con quell’‘avvenimento (dal lat. ad-venio, ossia ‘ciò che viene a/ viene a noi’), costituito appunto dal ‘venire ad abitare in…noi’ della divina ‘Parola-Ragione che forma e crea’.

L’uomo può ‘fissare’ Dio perché il Logos si è fatto carne, cioè si è a sua volta ‘fissato’ nella ‘forma’ umana. Ovverossia, il logos umano può d’ora in poi analogicamente ‘con-formarsi’ proprio con il Logos: con Colui che è all’origine dell’essere, della vita, della ‘forma’ di ogni creatura[10].

La valenza ‘comunicativa’ della Parola divina non si limita più al senso di un semplice ‘trasmettere’ o di un ‘realizzare’, ma aggiunge altresì quello del ‘rendere comune’: ossia del ‘con-dividere’. La ‘parola-ragione’ umana è invitata cioè a partecipare ad Esso Logos, a dia-logare e con-formarsi con Lui, dopo averLo ‘con-templato’.

Ecco perché per poter ‘dia-logare’ con il Logos, al logos dell’uomo è risultato essenziale che gli fosse innanzitutto concesso di poter ‘vedere’ incarnato l’oggetto della Rivelazione: «[] e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14).

D’altro canto, è indicativo che questo carattere, per così dire ‘col-legante’, sia già implicito proprio nella derivazione etimologica che il sostantivo logos presenta dal verbo greco λεγω. Quest’ultimo infatti, oltre al significato del ‘dire, raccontare’ mantiene pure ulteriori e più originari sensi (non da un punto di vista temporale, bensì in quanto più prossimi al fondamento del senso stesso): ossia, quelli del ‘cogliere, raccogliere, riunire, radunare, custodire, mettere in serbo’ (dalla radice *leg-)[11].

Proprio in relazione a ciò, il pensatore M. Heidegger perviene ad individuare nel logos non solo la designazione dell’atto del ‘raccogliere e del riunire per custodire’, ma anche quello dell’insieme ‘raccolto’. Tramite una riflessione ontologica sul Frammento 50 di Eraclito[12], egli riconosce nel Logos (con la lettera maiuscola, in quanto è per lui ormai quello veramente ‘originario’) ciò che ‘mantiene l’ente nella propria presenza, l’essere dell’ente’: l’‘Uno che riunisce il Tutto’[13]!

Tale carattere di assolutezza ontologica è esattamente quanto possiamo desumere dalla da noi già indicata rivelazione del Nome di Dio a Mosè. L’“Io sono Colui che sono”, così come affermato in Es 3,14, non costituisce insomma una tautologia, un’autoreferenzialità, in quanto non trattasi di un pensiero-parola (logos) che ‘pensa-parla di sé’ (ovvero, si auto-denomina), ma di un Pensiero-Parola (Logos) che ‘è Sé’ (ovvero, si mostra)!

Se il primo ‘descrive’ un’essenza che rimane altra da sé, il secondo invece ‘manifesta’ Sé nella propria essenza: “è” la propria essenza, intendendo con questo termine “l’atto positivo stesso per cui l’Essere è”[14].

Vogliamo sottolineare il fatto che tutto ciò, proprio in quanto ‘credibile’ – nel senso vero e proprio di un Logos divino che si mostri al logos umano religiosamente ‘degno di fede’ – può ritrovare riscontro in quella divina ‘circolarità’ che, così come affermato, stiamo assumendo debba sussistere tra ‘Essere, Essenza ed Ente’.

Trattandosi qui del ‘Santo Nome di Dio’, e in particolare del Dio fatto uomo, ci si deve insomma aspettare che il Nome di Gesù, il Logos per antonomasia, possegga la suscettibilità di esprimere la propria natura sacrale in maniera spontanea ed immediata, manifestando cioè una ontologica coincidenza tra ‘ciò che dice’ e ‘ciò che è’.

Se questo risultasse vero e verificabile, potremmo pertanto affermare, con ragione, che il logos cristiano possiede realmente quella possibilità di completa ‘con-formazione’ con il Logos divino e quindi con Dio; fattore che invece al logos ebraico rimane precluso, non avendo quest’ultimo accettato di ‘col-legarsi’ con Lui, mediante la propria disponibilità ed apertura a ‘riceverlo’.

Così è infatti scritto: «Venne a casa sua e i suoi non Lo ricevettero» (Gv 1,11)[15].

Carattere ‘computante’ del Logos ed ermeneutica gematrica

Per giungere alle verifiche che ci stiamo proponendo di determinare, è tuttavia necessario introdurre preventivamente alcuni ulteriori presupposti, atti a stabilire gli strumenti ermeneutici che siano i più appropriati allo scopo.

In maniera ancora una volta coerente con gli assunti, l’indicazione più giusta e pertinente non può che venirci suggerita se non dallo stesso sostantivo logos.

Si tratta di un’ulteriore sfumatura di significati etimologici che esso deriva dal verbo greco λεγω, i quali suggeriscono pertanto, con chiara evidenza, i percorsi da adottare in quanto già inerenti ad esso.  Tali significati sono: ‘contare, computare, enumerare’.

In pratica, risulta far parte dell’essenza del logos, in quanto ‘parola’, una stretta relazione con il ‘numero’. Come viene affermato dalla Sapienza stessa, nell’omonimo libro veterotestamentario, Essa “è artefice di tutte le cose” (Sap 7,21), “era presente quando (Tu Dio) creavi il mondo” (Sap 9,9) ed inoltre è ciò che ha “regolato ogni cosa in misura, numero e peso” (Sap 11,20).

Proprio sulla consapevolezza di questo diretto rapporto che sussiste tra la Creazione, operata dalla Sapienza del Logos, e un Ordine ‘numericamente’ espresso, nonché suscettibile di poter essere colto dal logos umano, si basa la tradizionale ‘scienza gematrica’.

La gematria, scienza sia speculativa che pratica, non è altro che la comprensione interpretativa dei significati anagogici presenti nelle Sacre Scritture della tradizione cristiana, realizzata sulla base della consapevolezza dottrinale di una ‘corrispondenza sussistente tra numeri e lettere alfabetiche della lingua che di tale tradizione religiosa è riconosciuta come sacra’.

Nel caso specifico del Cristianesimo, la lingua che riveste tale funzione ‘sacrale’, come già anticipato, è il greco antico (più precisamente nella sua forma dialettale ionica).

Innanzitutto va precisato che l’accezione di ‘lingua sacra’, nel caso del Cristianesimo, denota la capacità della lingua greca di contenere in maniera latente l’espressione del Mistero cristiano concernente i suoi fondamentali dogmi, nonché quei suoi aspetti teologici e metafisici che costituiscono le verità di Fede anche nel loro aspetto più profondo[16]. Non è del resto un caso che non solo tutto il Nuovo Testamento sia stato scritto proprio in ‘greco’, ma anche, ed in particolar modo, che specificatamente in tale lingua si sia ‘rivelata’ l’Apocalisse di Giovanni: l’unico libro profetico presente nel canone neotestamentario e l’unico del quale sia affermato esplicitamente di esser stato ‘inviato dall’Alto[17].

Nel concreto del suo utilizzo, la gematria considera ogni parola come fornita di un valore numerico totale, ottenuto in base alla somma dei valori numerici posseduti dalle sue singole lettere alfabetiche. Tale valore ‘rispecchia in sé una qualità piuttosto che una quantità’, la quale può essere colta sostanzialmente sia sulla base delle relazioni con cui tali valori numerici vengono a porsi nei rispetti di altri valori numerici ad essi rapportati, sia sulle relazioni che si stabiliscono all’interno di sé stessi nella successione con cui si presentano i numeri che li costituiscono, sia sul valore simbolico di ognuno di questi suoi singoli numeri, sia infine pure sul geroglifico della propria cifra. Inoltre, la gematria insegna che, a parità di valore numerico totale – evenienza alla quale viene dato il nome di isopsefia – due o più parole diverse si equivalgono anche nel proprio valore e senso qualitativo, simbolico e spirituale[18].

Questa sottile differenziazione tra dato ‘quantitativo’ e dato ‘qualitativo’ del numero, è stata ben colta da M. Heidegger nella distinzione che lui opera tra il ‘pensiero calcolante’ ed il ‘pensiero riflettente’; ove il primo risulta ordinato al fattibile, mentre il secondo opera una meditazione sul senso ‘ontologico’ delle cose. Il primo si esplica nella ‘considerazione dell’oggettività dell’ente in quanto presente’, il secondo nell’‘esperienza della verità dell’essere in quanto presenza’.

Il ‘calcolo’ è l’approccio di pensiero proprio dello scientismo, basato sull’episteme. Al ‘riflettere’ pertiene invece un approccio di ‘adesione’ del pensiero, alla luce, come sempre dice Heidegger, della sua ‘coappartenenza’ all’essere.

La particolare modalità di coappertenenza tra pensiero ed essere fa sì che quando diciamo: “il pensiero è, nella sua essenza, il pensiero dell’essere”, il genitivo con cui ci si esprime è da intendersi in senso sia soggettivo che oggettivo. Il “pensiero dell’essere” è insomma tanto un evento che appartiene all’essere, da esso proviene e in esso rimane conservato (gen. sogg.), quanto è ciò che ascolta l’essere, si dirige verso di esso e gli è assegnato (gen. ogg.).

Il valore del ‘pensiero riflettente’ è quindi ben apprezzabile grazie alla considerazione della duplice accezione offerta dal verbo ‘riflettere’, in quanto atto sia del ‘rivolgere la mente con attenzione’, sia del ‘rinviare all’origine di provenienza’. Peraltro, in maniera analoga, possiamo affermare che esso è il solo pensiero in grado veramente di ‘comprendere’ allorché valutiamo anche di quest’ultimo la propria duplice accezione: sia ‘capire, conoscere’ che ‘includere, abbracciare’.

Alla luce di tutto ciò, possiamo dire che il ‘pensiero riflettente’ può essere immediatamente accostabile all’atto del ‘computare’, il cui significato abbiamo già visto essere di pertinenza del logos. Tale carattere è in definitiva l’approccio ‘qualitativo’ al numero così come operato dall’ermeneutica gematrica, il quale risulta pertanto del tutto differente dall’approccio ‘quantitativo’ che è invece proprio del ‘calcolo’ matematico[19].

La gematria non è affatto un tardo e soggettivo criterio ermeneutico per l’interpretazione dei testi sacri; tant’è che proprio nel libro dell’Apocalisse compaiono allusioni esplicite che confortano la liceità dell’impiego di questo approccio ermeneutico. Tra questi riferimenti ricordiamo in particolare:

1) l’invito proprio a ‘computare’ gematricamente il numero del nome della bestia (Ap 13,18)[20];

2) la ripetuta auto rivelazione del Logos, che più volte si definisce essere l’‘Alpha e Omega’ (Ap 1,8. 21,6. 22,13).

Quest’ultima evenienza assume una valenza decisiva in quanto è possibile leggervi la chiara e diretta dichiarazione del Logos di essersi, in certo qual modo, spiritualmente ‘incarnato’ anche nell’alfabeto greco; e ciò proprio in virtù della Sua peculiare natura di Pensiero e Parola. Per aiutare il lettore a verificare le nostre successive osservazioni, riproponiamo innanzitutto lo schema dei rapporti alfabetico-numerici sussistenti per l’appunto in lingua greca. Ciò servirà come utile ausilio per verificare i computi gematrici che andremo ad effettuare:

α (alfa): 1 ι (iota): 10 ρ (rho): 100
β (beta): 2 κ (kappa): 20 σ (sigma): 200
γ (gamma): 3 λ (lambda): 30 τ (tau): 300
δ (delta): 4 μ (mi): 40 υ (ypsilon): 400
ε (epsilon): 5 ν (ni): 50 φ (phi): 500
ϛ (stigma): 6 ξ (xi): 60 χ (chi): 600
ζ (zeta): 7 ο (omicron): 70 ψ (psi): 700
η (eta): 8 π (pi): 80 ω (omega): 800
θ (theta): 9 ϟ (qoppa): 90 ϡ (sampi): 900

Il Nome di Gesù in quanto Icona Divina

Il fatto che il nome divino costituisca il segno, la qualità, l’essenza stessa della divinità a cui esso appartiene è una consapevolezza costante dell’antichità e di tutte le religioni: non vi è difatti una tradizione che di tale identificazione non ne abbia fatto menzione e riferimento esplicito. E se questa convinzione non poteva non esser condivisa anche dal Cristianesimo, tuttavia la circostanza per cui il Dio cristiano è un ‘Dio che si è incarnato’ – l’Unico tale – fa sì che il Nome di Gesù possegga delle peculiarità che lo rendono in rapporto ad ogni essere umano appunto un unicum.

E’ noto che l’origine divina e la Potenza salvifica di Gesù venga già testimoniata dal fatto che il Nome Yeshua, così come espresso in ebraico, significhi per l’appunto “il Signore salva”. Ma ciò non sembra soddisfare ancora pienamente la questione! In effetti possiamo affermare che il testo di Mt 1,21, in cui l’Angelo rivela a Giuseppe il nome da affidare al nascituro[21], non va inteso nel senso che il Divin Bambino si chiamerà Gesù perché salverà il suo popolo, ma piuttosto che salverà il suo popolo perché era proprio quello il suo Nome! Ovvero, il che è lo stesso, che tale Sua funzione fa parte integrante della Sua essenza.

La questione è dunque innanzitutto d’ordine ontologico, né poteva essere diversamente se, come peraltro già più volte sottolineato, consideriamo che già Dio Padre, rivelando a Mosè il proprio Nome disse: “Io sono Colui che sono[22]. E tanto è che lo stesso Gesù nei Vangeli chiama più volte sé stesso: “Io sono”.

Per riuscire a cogliere in tale sua pienezza ontologica l’effettiva Divinità e Potenza del Cristo Gesù, ricorreremo alle evenienze gematricamente evincibili dal considerare il Nome di Gesù non in base alla propria declinazione in ebraico, quanto in quella che ne è la dizione greca: Iesous (Ιησους).

La prima cosa da osservare è che, in quanto Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26), il Cristo Gesù, Logos incarnatosi, è il prototipo di ogni immagine umana. Egli è dunque per l’umanità l’icona più perfetta; e dato che icona significa appunto propriamente “immagine, archetipo, modello, somiglianza, similitudine”, nulla impedisce a questo termine di estendere il proprio pregnante significato inserendosi anche in contesti non prettamente figurativi.

Il Nome Divino Iesous è dunque Icona.

Tutto ciò è possibile perché Cristo Gesù è a sua volta “…vera immagine del Padre” (Col 1,15). La santità della Sua icona è insomma dovuta al fatto che Egli è ‘uomo ad immagine di Dio’ nonché ‘Dio ad immagine dell’uomo’.

Ebbene il Santo Nome di Gesù, in greco Iesous (Ιησους), possiede un valore gematrico pari ad 888[23], dal quale viene già esplicitata geroglificamente una certa propria qual perfezione numerica[24]. Ma premesso ciò, è interessante notare che a tale valore corrisponde per isopsefia anche a quello di g eikon (γ εικων)[25], che traduce ‘santa immagine’, ma anche ‘immagine trina’, visto che la lettera gamma (γ), oltre che abbreviazione di aghios, santo, è espressione del numero 3[26].

Il Nome di Gesù in quanto espressione della Sua divinità ontologica

Nel Vangelo di Matteo (Mt 1,23) veniamo a sapere che il Nome di Dio, Essere, si incarna anche con e nel nome di Emmanuele, che significa ‘Dio con noi’; cioè a dire: l’Essere è con noi. E poiché l’Emmanuele è Gesù, si pone come ‘Essere che redime l’ente’: cioè che giustifica (1 Cor 6,11), che salva (At 4,12; Rm 10,13), che dà la vita eterna (1 Gv 5,13).

Poiché il nome ‘Dio con noi, salva’ stabilisce in Cristo Gesù, che lo porta, tanto la Sua identità che la Sua missione, ebbene come in Es 3,14 Egli può allora veramente affermare di Sé stesso: “Io sono Colui che sono”! In altre parole la Sua identità personale (nel senso proprio della qualificazione che lo rende identificabile come essere persona) è altresì identità assoluta (nel senso di uguaglianza e identicità con tutto ciò che Egli è; ovvero, analogicamente, anche con tutto ciò che nel mondo è).

Questa verità viene confermata dal fatto che il Nome Iesous è anagrammabile in ousies (ουσιης), che traduce ‘essendo la sostanza’ (genitivo assoluto). Il coincidere del Nome di Gesù con la sostanza è duplicemente significativo. Innanzitutto perché ne afferma la piena divinità: «La Chiesa adopera il termine ‘sostanza’ (reso talvolta anche con ‘essenza’ o ‘natura’) per designare l’Essere divino nella sua unità»[27]: e ricordiamo pure che già Aristotele con l’ousie aveva inteso l’‘essere fondamentale’, ossia l’‘Essere in quanto Essere’. Inoltre, e sempre sulla scorta della metafisica aristotelica, essendo la ‘sostanza’ anche l’eidos, ossia la ‘forma’, essa è anche ‘atto’ ovvero ‘causa prima dell’essere’. Ed è questa prototipicità d’‘essenza’ ciò che fa di Gesù, nel Suo Nome, il ‘modello’, l’‘icona’ di ogni essere umano. Egli è tutta l’umanità e tutti gli uomini sono in Lui: “Voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

Anche tale prototipicità sostanziale risulta racchiusa nel Nome Iesous, dato che con un ulteriore anagramma da esso si ottiene es uios, che significa ‘che tu sia Figlio’. La locuzione es-uios ousies (entrambe parole anagramma di Iesous) sta quindi per ‘che Tu sia Figlio per sostanza’: dal ché si ribadisce la consustanzialità tra Padre e Figlio (contro ogni Arianesimo)!

A proposito della ‘sostanziale’ natura umano-divina di Gesù, che da molte eresie è stata posta in discussione (vd. ad es. docetismo e monofisismo), è emblematico osservare che il valore 888 di Iesous, allorché diviso esattamente nelle sue due metà (= 444 + 444) presenta la notevole evenienza di significare da una parte sarx kai aima (σαρξ και αιμα)[28] e dall’altra theo-pathos (θεο-παθος)[29]. Ebbene, tali locuzioni significano rispettivamente ‘carne e sangue’ e ‘passione di Dio’. In altre parole, è così evidenziato come Gesù sia proprio Colui che, pur essendo Dio, ha sofferto la Passione nella propria umanità fatta di carne e sangue[30]: Egli era tanto Uomo quanto Dio!

Sulla base del valore di prototipicità rispetto all’umanità, riconosciuta al Cristo Gesù, risulta infine emblematica un’ulteriore isopsefia del valore 888, proprio del Nome Iesous. Infatti a tale valore corrisponde pure ego eimi dia (εγω ειμι δια)[31], che traduce ‘Io sono in mezzo’ [32]. È proprio in questo che si denota il ‘potere efficace’ detenuto dal Nome del Signore: l’atto è Suo ‘essere’; e tale atto è ‘essere-per, essere-con, essere-tra’.

La correlazione, la corrispondenza, la conformità tra Uno e molteplice, che è quanto ne costituisce il rapporto secondo il modo dell’‘analogia’, si esplica nella maniera del dia-logos, ossia di una reciprocità basata non solo sul Logos ritenuto limitatamente ‘pensiero e senso’, ma altresì ‘parola e colloquio, dialogo’. Ecco ribadita peraltro la particolare connotazione che si è voluta assumere traducendo Logos, in latino, con Verbum!

Il Nome di Gesù e la S. Vergine Maria: il Logos incarnato e Sua Madre

L’interesse del Nome Iesous non si esaurisce solo con quanto si è sin qui proposto. Il mistero del Signore è così intimamente legato con quello di Sua Madre, Nostra Signora la S. Vergine Maria, che non si può immaginare non sussistere una qualche relazione dell’una con l’altro. Ed è del resto proprio tale relazione misterica che viene ad assolutizzare il nome di Gesù quale quello di Nostro Signore; ché altrimenti tutti i presenti discorsi potrebbero divenire applicabili a qualunque altro individuo genericamente chiamato con lo stesso nome.

Innanzitutto vogliamo però incaricarci di far notare una più interna lettura del Nome di Gesù.

Oltre alla sintomatica bellezza armonica e perfezione che si manifesta attraverso il suo valore gematrico 888 – il quale numero tanto allude con santa, triplice e trinitaria riaffermazione al numero designante l’evento della Risurrezione (ottavo giorno della Creazione), quanto esprime nel proprio geroglifico l’equilibrio cosmico -, ebbene Iesous si può considerare sintesi di ie-es-ous (ιη-εσ-ους), che traduce ‘voce, suono attraverso l’orecchio’[33]. Tale locuzione rimanda a quello che fu l’evento dell’Incarnazione di Gesù, nel momento in cui, durante l’Annunciazione, l’arcangelo Gabriele proferì il proprio saluto alla Vergine Maria.

E’ noto che la riflessione patristica antica ha affermato che il Logos, la Parola di Dio, conformemente alla propria natura vocale-orale sia penetrato in Maria per mezzo dell’angelo, fecondandola attraverso il proprio orecchio e mantenendo così intatta la sua verginità[34]. Viene così ad attuarsi la profezia di Isaia: «Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio» (Is 7,14).

Ora, in effetti 888 è anche il risultato ottenuto sommando i valori gematrici di parthenos (παρθενος), che traduce ‘vergine’ e che è pari a 515[35], più il valore di Logos (λογος), che è pari a 373[36].

Ossia, 888 = 515 + 373 equivale a: Gesù = vergine + Logos.

Ciò riafferma non solo che la profezia di Isaia si è realizzata, ma pure che Gesù è in effetti il Logos penetrato nella Vergine e da Ella partorito. La qual cosa viene ancor più ribadita dal fatto che 515 è per isopsefia anche il valore di esti (εστι)[37], che traduce ‘egli è’.

Ossia, 888 = 515 + 373 equivale a: Gesù = Egli è + Logos (contro ogni Nestorianesimo).

E infine, che Maria sia poi proprio quella Vergine, lo si evince dal fatto che sempre 888 è il risultato di g Maria parthenos (γ Μαρια παρθενος), che traduce ‘S. Maria Vergine’ e che è pari a 670[38], più il valore di pnoie (πνοιη), che traduce ‘soffio, alito, respiro’, che è pari a 218[39].

Ossia, 888 = 670 + 218 equivale a: Gesù = S. Maria Vergine + soffio. La qual cosa riafferma che Gesù si incarna come ‘soffio, alito, respiro’ dello Spirito Santo che penetra nella S. Vergine Maria e La feconda!

Ed ancora: che sia in questione proprio l’‘orecchio della S. Vergine Maria’, lo desumiamo dall’isopsefia sussistente tra i valori di g Maria parthenos (S. Maria Vergine), che dicevamo esser pari a 670, ed il valore di ous (ους), ‘orecchio’, anch’esso pari appunto a 670[40].

Conclusioni ontologiche

Giunti a questo punto, possiamo allora tornare alla questione sollevata inizialmente, ma con una più motivata prospettiva di riflessione.

Posto che attraverso l’ermeneutica gematrica ci è risultato possibile donare una sorta di ‘verifica’ ontologica non solo della divinità del Cristo (e della S. Vergine Maria)[41], ma anche della Sua coincidenza con il Logos, risultano chiare le conseguenze che vengono ad inquadrare quali siano i limiti ontologici di quanti abbiano abbracciato, per ‘durezza di cuore’, la strada del rifiuto del Suo ‘memoriale’.

La mancanza di ‘con-formazione’ con il Logos (che è anche sinonimo di ‘con-versione’) non può che comportare la ‘de-generazione’, nel senso letterale di ‘perdita delle qualità originarie’, a cui si è inevitabilmente sottoposta quella parte di logos giudaico che ancora oggi si rifiuta di riconoscere che il loro stesso Messia, di cui sono in attesa, sia già venuto; ed è venuto per ogni essere umano in quanto logos: cioè, senza che ciò implichi la priorità di alcun popolo, stirpe o razza.

Non ci sembra il caso di dilungarci sui dettagli di questa ‘perdita delle qualità originarie’, ma andrebbe perlomeno mantenuto nella dovuta considerazione il fatto che, purtroppo e nostro malgrado, risulta inevitabile l’impossibilità di allacciare alcun ‘dia-logo’ con chi rifiuta il Logos stesso: posto che il ‘dia-logo’ in questione non debba essere banalmente inteso soltanto quale ‘soggettivo scambio di opinioni’; bensì, in senso ‘ana-logico’, quale l’atto oggettivo della Verità che si colloca al centro (dia) di ogni pensiero-discorso umano.

Tale Verità, che sempre seguendo M. Heidegger consiste nella ‘svelatezza dell’Essere’ (a-lethé), è appunto il Logos medesimo (“Io sono la Via, la Verità e la Vita”, vd. Gv 14,6). Il rifiuto della Verità non può dunque che comportare, anche qui inevitabilmente e nostro malgrado, il precipitare umano nella ‘mendacità’ in quanto ‘nascondimento, occultamento dell’Essere’ (lethé): caduta ontologica di cui il logos ‘de-generato’ ritiene di non doverne render conto ad alcun Logos.

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Idee&Azione (27.01.24)

 

NOTE

[1] Oltretutto, detto incidentalmente, anche solo l’argomento relativo al cosiddetto ‘antisemitismo’ risulterebbe già viziato in partenza, alla luce del fatto che pure i Palestinesi sono un popolo di razza semita: anzi, addirittura a più titolo degli ebrei, viste le diversificate ascendenze a cui questi ultimi sono riconducibili a motivo della diaspora.

[2] Cfr. Eb 7,24-28.

[3] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1730, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999.

[4] Moreno Morani, La parola che mette d’accordo il messaggio e il pensiero, in l’Osservatore Romano (21/01/2010).

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. S. Tommaso, In 2 Cor 3,2,1.

[8] M. Zarader, Il debito impensato: Heidegger e l’eredità ebraica, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1995, p.55.

[9] Sua Santità Benedetto XVI, Discorso di Ratisbona (12/09/2006).

[10] Cfr. Gv 1,3: «[…] tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».

Cfr. pure Col 1,16-17: «per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui».

[11] È emblematico il permanere degli stessi significati anche nel latino lego: raccogliere, ascoltare, scegliere, nominare, leggere, ove con ‘leggere’ si configura l’azione di raccogliere le parole scritte.

[12]Ουκ εμου αλλα του λογου ακουσαντας ομολογειν (akousantos omologhein) σοφον εστιν εν παντα ειναι”, Eraclito (framm.50).

[13] Il fatto che nel frammento di Eraclito il termine logos risulti collegato con il verbo ‘udire’, ‘akouein’ (ακουειν) non va equivocato: il loro rapporto non si riduce a quello che, secondo il senso usuale del termine, lega il ‘discorso’ alla sua percezione! Propriamente qui l’‘ascolto’ non va inteso quale una ‘percezione sensibile delle orecchie’, ma piuttosto quale un ‘raccoglimento silenzioso prestante disponibilità ad un possibile ascolto, con atteggiamento di abbandono, appartenenza ed obbedienza’! Il senso è confermato anche dalla presenza dell’altro verbo, ‘omologhein’ (ομολογειν) – verbo che peraltro ci rimanda immediatamente all’omologhìa paolina – il quale letteralmente significa ‘dire la stessa cosa che dice un altro’; ma non nel senso di una banale ripetizione, bensì di un ‘essere d’accordo con il Logos’, in quanto si è già in sé ‘ordinati conformemente ad esso’. In altre parole: ‘raccogliersi per essere raccolti nel Logos che raccoglie’!

[14] Seguendo S.Agostino, si può dire che il nome di essentia appartiene in proprio solo a Dio, poiché tutto il resto rientra nella categoria delle substantiae. Cfr. De Trinitate, VII, 5, 10.

[15] Ciò dovrebbe peraltro offrire spunto di riflessione per tutti coloro che, senza operare i dovuti distinguo, meccanicamente usano ripetere che “Gesù era ebreo”!

[16] La ‘lingua sacra’ non sempre coincide con quella che è la ‘lingua liturgica’ di una data religione. Per il Cristianesimo, infatti, è il latino ad assolvere a quest’ultima funzione.

[17] A differenza dei Vangeli, considerati ‘ispirati’, la natura rivelata dell’Apocalisse è esplicitamente dichiarata dal Logos stesso nella conclusione del libro, ove si afferma il divieto assoluto di mutarne anche solo una parola: «A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro» (Ap 22,18-19).

[18] Tanto per fare qualche esempio: la parola pneuma, che significa ‘Spirito’, allorché scritta in greco possiede lo stesso valore gematrico di aetos, che significa ‘aquila’; e ben conosciamo l’equivalenza simbologica dei due termini. Oppure la parola greca yios, che significa ‘figlio’, ha il medesimo valore di zygos, che traduce ‘bilancia’; e qui si allude alla seconda persona della SS. Trinità nell’accezione de ‘il Giusto’! E così via!

[19] Peraltro, tale carattere precipuo della gematria è quanto la pone in assoluta alterità rispetto ad analoghe prassi riconducibili alla Cabala ebraica: pratica questa di carattere ‘esoteristico’ (che è altra cosa da ‘esoterico’) la quale assunse tale denominazione attorno al XII-XIII sec. Assoluta irriducibilità essa mantiene pure con la Cabala extra-giudaica, apparsa in Europa attorno al XV sec.

[20] «Hic sapientia est qui habet intellectum conputet numerum bestiae numerus enim hominis est et numerus eius est sescenti sexaginta sex».

[21] «Maria [] partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

[22]Es 3,14.

[23] 888 = 10+8+200+70+400+200.

[24] La più antica testimonianza dell’abbinamento del valore gematrico al Nome di Gesù (gr. (Ιησους) compare nel libro I degli Oracoli sibillini (testi apocrifi dell’Antico Testamento scritti in greco), ai versetti 326-330. Qui il Nome è sostituito, appunto, dal numero 888.

[25] 888 = 3+885.

[26] Si viene in tal modo a giustificare quella prassi iconografica antica che raffigurava la Trinità con tre Gesù.

[27]Catechismo della Chiesa Cattolica, 252, cit.

[28] 444 = (200+1+100+60) + (20+1+10) + (1+10+40+1) = (361) + (31) + (52).

[29] 444 = (9+5+70) + (80+1+9+70+200) = (84) + (360).

[30] Cfr. in tal senso Eb 2, 10-18.

[31] 888 = 808+65+15.

[32] Il riferimento della frase “Io sono in mezzo…” può valere per numerosi passi evangelici: Mt 18,20 e 28,20; Lc 17,21 e 22,27; Gv 1,14 e 1,26.

[33]Considerando ie quale voce del verbo eimi, la locuzione potrebbe anche tradursi che egli venga/penetri attraverso l’orecchio

[34]Della concezione attraverso l’orecchio, parlano per la prima volta nel IV secolo sia Atanasio d’Egitto: «Venite e vedete l’opera meravigliosa: la donna concepisce nell’udito dei suoi orecchi», che Efrem Siriaco: «La morte è entrata per l’orecchio di Eva, la vita è entrata per l’orecchio di Maria». E poi anche S. Agostino: «Gesù fu concepito attraverso l’orecchio della Vergine» (De Trinitate, IV, 5). Un detto conosciuto nel medioevo, attribuito sempre ad Agostino, diceva: «Dio parlò attraverso l’angelo, e la Vergine fu fecondata attraverso l’orecchio».

[35] 515 = 80+1+100+9+5+50+70+200.

[36] 373 = 30+70+3+70+200.

[37] 515 = 5+200+300+10.

[38] 670 = (3) + (40+1+100+10+1) + (80+1+100+9+5+50+70+200) = ( 3) + (152) + (515).

[39] 218 = 80+50+70+10+8.

[40] 670 = 70+400+200.

[41] Per ulteriori verifiche gematriche, relative alla figura della S. Vergine Maria, cfr. C. INTINI, S. Maria del Graal, fondamenti simbolico-sacrali di Castel del Monte, Ed. Il leone verde, Torino 2002.

Cfr. pure C. INTINI, Il S. Rosario: icona omologhica della S. Vergine Maria, pp. 41-61, in AA.VV. Misteri Mariani. Il S. Rosario Porta della Sapienza, a cura di SODALITIUM EQUITUM DEIPARAE MISERIS SUCCURRENTIS, Ed. Cantagalli, Siena 2022.