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La Donna e l’Amore nella Via del Cavaliere. Appunti per una riflessione (di Mario Polia)

Un Cavaliere riceve la ricompensa d’Amore (una corona di fiori) dalla sua Dama

Miniatura di Ulrich von Singenberg (1175/85 – 1230/35), Codex Manesse (1320), Biblioteca Universitaria di Heidelberg

 

Perché e per chi questi appunti

Queste righe tentano di rispondere a una questione postaci da un gruppo di giovani donne impegnate in una militanza non politica ma culturale. La questione riguarda il ruolo della donna come compagna nella quotidiana battaglia in difesa dei valori fondanti della nostra civiltà. Ci è stato richiesto, a questo fine, d’illustrare come l’amore era vissuto nella Cavalleria del nostro Medioevo.

Ai nostri giorni, trattare di un tema come la Via della Cavalleria – salvo che lo si faccia in chiave letteraria o dalla prospettiva storicistica e, soprattutto, riduzionistica che va per la maggiore – può sembrare del tutto anacronistico. Da parte nostra, siamo invece certi che il tema offra utili spunti per una salutare riflessione sul ruolo della vita come milizia, sulle caratteristiche spirituali e sulla funzione della militanza. Allo stesso tempo, il tema affronta il ruolo dell’amore nella vita di chi – uomo o donna –  non è disposto ad accettare supinamente la condizione di generale decadenza dei valori, dello svilimento della persona umana e degli umani sentimenti che caratterizza quest’epoca della storia dell’Occidente. Trattare della Cavalleria, significa trattare di un’istituzione consacrata alla difesa della fede e della tradizione religiosa, alla protezione dei deboli, votata alla ricerca della verità. Una via in cui, oltre alla componente guerriera, la dimensione spirituale non solo non è esclusa, ma è la direzione verso la quale tende il cammino dal momento che il Cavaliere, come si esprime Bernardo di Chiaravalle, è impegnato in un duplice combattimento, contro i nemici esteriori e contro la carne e il sangue. Il Cavaliere – ed è tale solo chi è stato regolarmente creato dal rito d’investitura (che è un sacramentale costitutivo il quale produce nella persona un cambiamento ontologico) – è un consacrato nella cui natura è stato impresso uno speciale sigillo che lo autorizza a lottare come campione della fede e veicola su di lui le grazie necessarie a svolgere la funzione cui è stato chiamato.

A tutta prima, potrà sembrare inopportuno invitare qualcuno a concentrare l’attenzione su una via che non è la sua, tenendo in conto il fatto che si entra nella Cavalleria per vocazione. Questo dubbio può essere facilmente risolto pensando che possiamo meditare e trarre insegnamento dalle vite di santi monaci ed eremiti pur non essendo né eremiti né monaci e, ancor prima, non essendo santi; che possiamo utilmente riflettere sulla statura morale di eroi quali Ettore e Achille senza aver preso parte alla guerra di Troia. Allo stesso modo, pur non essendo cavalieri, si potrà trarre giovamento interiore dagli esempi dei grandi cavalieri, esempi che provengono dal passato ma che risultano validi in ogni tempo perché traggono vita dall’esperienza spirituale. Esempi che testimoniano storie di onore, gesta di fedeltà, espressioni di coraggio e d’incomparabile bellezza. E di queste virtù, oltre che della bellezza, i nostri tempi smarriti alla ricerca dell’effimero, hanno un disperato bisogno.

Dobbiamo avvertire che della tematica dell’Amore e della Donna, così come fu trattata dalle correnti sapienziale del Medioevo e cantata da poeti e trovatori, e dei significati allegorici impliciti nel nome di “Amore” e “Donna”, noi qui non ci occuperemo. La nostra scelta è motivata, da un lato, dalla complessità dell’argomento che presuppone un’adeguata impostazione storica e filosofica, oltre a un esauriente commento dei documenti letterari. Dal punto di vista storico, non può dimenticarsi il fatto che i cantori dell’Amor Cortese, i “Fedeli d’Amore” così come i Minnesänger germanici, appartengono a una scuola di pensiero, configurata in strutture iniziatiche, in cui gli apporti sotterranei del manicheismo veicolati dai movimenti catari e albigesi, oltre che l’eredità della gnosi alessandrina e del neo-platonismo, sono evidenti. Molto spesso, le idee di quelle scuole iniziatiche, protette dal segreto e difese da serrature di complesse e multiformi allegorie dispiegate nei canti, perseguivano scopi che la Chiesa reputava contrari alla retta dottrina. La filosofia massonica, fino ai nostri giorni, si nutre alle medesime fonti e non v’è chi possa sottovalutare il ruolo della massoneria nella formazione, nell’assetto e nel governo del mondo contemporaneo. Lo gnosticismo, dunque, ben lungi dall’essere stato estromesso dalla storia dell’Occidente, vi ha messo profonde radici e ha prodotto innumerevoli fioriture talché, dietro la possente facciata dell’edonismo di massa – essenziale all’incremento della produzione e al mercato globale – e oltre la proliferazione delle mode neo-spiritualiste che irretiscono frotte di sprovveduti, si sta configurando un pensiero unico il quale, con l’appoggio di potenti organizzazioni e gruppi di potere, si propone di sostituirsi alle chiese ufficiali (e non solo alla cattolica) e alle tradizioni religiose dei popoli. Questo fatto impone un adeguato commento che permetta al lettore di comprendere e giudicare il significato di quegli antichi testi letterari. Ci limitiamo, a rinviare a importanti opere quali, ad esempio, quelle del Valli (“Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore”); Ricolfi (“Studi sui Fedeli d’Amore”, 2 voll.); Rossetti (“Il mistero dell’Amor Platonico nel Medioevo”, 5 voll.).

Ciò che in questi appunti ci interessa trattare è il rapporto tra il Cavaliere e l’amore. Lo faremo badando a non scadere in facili retoriche, restando aderenti ai canoni dell’etica cavalleresca che impone, innanzitutto, fedeltà a Dio la cui benedizione ha consacrato il suo miles e la spada che questi cinge.

I due volti d’amore

Prima di passare a trattare dell’argomento, è bene inquadrare il tema da un punto di vista teorico: qual è l’atteggiamento richiesto al Cavaliere nei confronti dell’amore e della donna? In che modo amore è compatibile con la via della Cavalleria? Quali sono i pericoli insiti nell’innamoramento in grado di provocare lesioni al voto fondamentale del Cavaliere che impegna tutto il suo essere a combattere lealmente per la verità e la giustizia? È previsto un ruolo della donna nella via della Cavalleria?

Una volta chiariti questi punti sarà più agevole entrare nel tema specifico e intendere la figura della “dama”, la cui presenza non è istituzionale nella via della Cavalleria. Non tutti i cavalieri, infatti, ebbero una dama cui giurarono fedeltà. Si tratta di una scelta non scevra da pericoli, che dischiude grandi possibilità spirituali e apre orizzonti di fulgida gloria e indicibile bellezza, qualora chi affronta tale scelta abbia l’umiltà e il coraggio necessari a intendere che sta camminando sul filo di una spada posta come ponte sull’abisso. Ma la via del guerriero è sempre e comunque un esile ponte del quale il prevalere dell’orgoglio, assieme allo scadere della tensione spirituale nella ricerca di personali interessi può provocare la rottura. Tornano alla mente le coraggiose parole di un poeta-samurai dell’antico Giappone:

Sotto la spada levata diritta c’è l’inferno che ti fa tremare, ma vai avanti e troverai la terra della beatitudine”.

Per introdurre l’argomento, riportiamo un passo che si presta in modo ottimale a rispondere alle precedenti domande, tratto dagli scritti di un contemplativo: Niceta Stethatos.

«Quando le forze dell’anima non agiscono secondo la loro natura, insorgendo l’una contro l’altra, l’anima non vede più tutto come è in natura e perfino la bellezza della natura non innalza l’anima alla conoscenza del Creatore, ma la trascina nell’abisso della perdizione generando lo stato passionale» (Cent. 1,52).

Passiamo a commentare brevemente le varie proposizioni del testo.

Le forze dell’anima”: l’autore allude alle possibilità latenti nell’umana natura (e nella natura angelica) le quali, in virtù del libero arbitrio di cui uomini ed angeli sono stati dotati, possono essere dirette allo sviluppo della creatura realizzando le possibilità di cui l’ha fornita il Creatore. Oppure, impedendole di raggiungere il fine per cui è stata creata, la rendono schiava della propria ignoranza e dell’oscuro carcere che l’ignoranza ha costruito. L’autore premette: “quando”, a significare che la rivolta caotica delle potenze dell’anima non è un destino ineluttabile, ma conseguenza di una scelta, essendo l’altra possibilità l’armonico cooperare di tali potenze per il raggiungimento della piena realizzazione della creatura. Questa consiste – come sarà detto più avanti – nella “conoscenza del Creatore”, ossia nella conoscenza della verità che apre l’accesso alle possibilità che tale conoscenza dischiude: pienezza della vita ricongiunta alla sua Fonte; libertà dalle catene della morte e dell’ignoranza; gioia inesauribile e inalterabile che si manifesta come potenza trasformatrice della persona e del mondo.

Il mito classico espresse la duplice possibilità inerente all’anima umana ricorrendo all’allegoria dei due cavalli, uno bianco tendente verso il cielo, regione in cui gli dèi immortali risiedono, l’altro nero che trascina l’anima verso il suolo e, ancor più in basso, verso la buia regione dei morti. Per esprimere il concetto di “uomo”, la lingua latina usa due termini: homo quando intende riferirsi alla duplice possibilità insita nell’essere umano, una delle quali deve fare i conti con la humanitas, la componente terrestre inalienabile dalla natura umana; adopera uir quando intende evidenziare, in qualcuno, la presenza di quella qualità – identificata con una forza (uis) – che esprime nella sua completezza la natura umana distinguendola da quella degli altri esseri. L’uomo è homo se considerato nella sua immanenza, uir se considerato nella trascendenza. L’essere portatore di un potere positivo di trasformazione della propria persona e del mondo, pone l’uomo dinanzi a una scelta ineluttabile rendendolo partecipe di una grande responsabilità nei confronti di sé stesso e degli altri.

“… secondo la loro natura”: l’espressione, riferita alle forze dell’anima, si riferisce alla natura stessa di tali forze la quale reca in sé l’immagine del Creatore essendo stata conformata a sua somiglianza. Agire “secondo natura”, nel senso più pertinente, significa realizzare il piano di Dio, ossia il destino ultimo della creatura resa partecipe della sua divinità.

“… insorgendo l’una contro l’altra”: l’insorgenza delle forze contrastanti crea un profondo dissidio che produce, come conseguenza, l’offuscamento della retta conoscenza. All’offuscamento sussegue la rottura dell’armonia in cui tutte le potenze dell’anima coesistevano in pace e operavano in sinergia, realizzando ognuna la propria funzione secondo un criterio gerarchico. La rottura dell’armonia tra “cielo” e “terra” separa la creatura dal Creatore. Allo stesso tempo, separa l’uomo da sé stesso impedendogli di realizzare la sua vera natura. Tornando al concetto latino, riduce il vir ad homo.

Il “peccato originale” consiste in una colpa di smisurato orgoglio che, separando la natura umana dalla natura divina, preclude la via alla conoscenza generando morte, offuscamento e ignoranza: “L’origine del male non è altro che la privazione dell’essere” (Gregorio di Nissa, PG46, col 93b). Il ruolo del diavolo che induce a cadere nella tentazione e a commettere la colpa d’origine è quello del “separatore” (diabolos dal greco diaballo, “separo”). Nella figura di Eva, la prima a commettere il peccato, è da leggere il prevalere nella persona della “femmina” sul “maschio”, ossia della parte dell’umana natura legata alla terra e soggetta alle limitazioni che da tale soggezione derivano. Il serpente che seduce Eva è il senso corporeo che irretisce la ragione. Adamo che accetta il frutto proibito è immagine dell’intelletto offuscato dal prevalere dell’anima sensitiva. L’errore successivo, prodotto nella mente dall’ignoranza, consiste nel confondere la falsa conoscenza e la percezione distorta della realtà con la conoscenza integrale. A questo errore sussegue la condanna della vera conoscenza e il decreto che la considera falsa. Giunti a questo punto, ci si arroga il diritto a imporre questa visione, ingannevole in quanto riduttiva, come l’unica degna di rispetto. Ed è questo il punto cui, ormai, si avvia la cultura “laica e laicista”, cuore e programma di una autoproclamatasi “comunità internazionale” la quale ha coperto le spalle della più esiziale delle tirannidi con il logoro mantello della “democrazia”.

“… l’anima non vede più tutto come è in natura”: si riferisce alle conseguenze della rottura dell’ordinamento gerarchico da parte delle potenze dell’anima: la cecità che impedisce di comprendere quale è l’ordine in base al quale il cosmo è stato strutturato e il ruolo centrale che l’uomo occupa in tale ordinamento giacché la creatura umana, pur essendo parte del cosmo, lo racchiude e compendia per intero nella propria natura e poiché all’umana creatura è stato dato il potere di governare il mondo e scrivere la storia. In questa funzione, essa può cooperare col piano tracciato dal Creatore regnando sul creato con sapienza e giustizia. Oppure, può sconvolgere l’ordine naturale, con le conseguenze negative che derivano da questa scelta e che oggi si stanno facendo sempre più palesi. A proposito della natura “così com’è”, occorre ricordare che in essa non esiste male alcuno e nulla vi è, in natura, che si opponga al disegno divino. Il male esiste unicamente come scelta deviante operata dall’uomo o da potenze angeliche che, a conseguenza della loro scelta, si trasformano in diaboliche (Enciclica dei Patriarchi Orientali, c. 4).

Specialmente importante è l’espressione “non vede” usata da Niceta, il quale riprende e sviluppa un concetto comune a varie delle più antiche e autorevoli tradizioni religiose europee. I Veda e le Upanishad, ad esempio, traducono il concetto di “ignoranza” con “avidya”, termine composto da un prefisso (a-) che indica “assenza” e da vidya, derivante dalla radice vid– che esprime il senso di “vedere” e “conoscere” o, più esattamente, “vedere per esperienza diretta”.

Il pensiero greco, collega il nome della regione sotterranea dei morti, Ades, alla tenebra che in essa regna. Potrebbe ipotizzarsi la derivazione del nome dalla medesima radice vid– (preceduta dall’ –a privativo) cui la lingua sanscrita ricorre per esprimere il concetto di ignoranza intesa come offuscamento della mente. Omero, ad esempio interpreta l’Ade come “buio nebuloso” (Od. 11,155); Platone come “invisibile” (Gorg. 495B); Plutarco, come “invisibile non veduto” (Is. et Os. 79,382ss). Il pensiero degli antichi teologi cristiani, ad esempio Gregorio di Nissa, ripropone il senso degli autori classici: “Mi sembra che col nome di Ade – nel quale come affermano si trovano le anime – sia i pagani che la Sacra Scrittura non vogliano significare altro che la trasmigrazione nell’oscuro e nell’invisibile” (PG46, col. 68b). “Ade” esprime, dunque, una condizione simboleggiata da una mitica landa, desolata e buia, in cui risiedono le anime dei morti. Uno stato dell’essere in cui “non si vede”, ossia si è prigionieri delle tenebre dell’ignoranza. La vita, separata dalla Vita, s’impaluda inesorabilmente nello stagno della morte. La tenebra è la conseguenza del rifiuto della luce ed è per questo che l’Alighieri, in linea con le definizioni date dagli antichi, definisce l’inferno come regione del cosmo in cui languiscono “le genti dolorose / c’hanno perduto il ben dello intelletto” (Inf, 3,18). Da questa prospettiva, “Ade” e “inferno” non riguardano solo la condizione dell’anima nell’aldilà, ma in primo luogo la condizione cui sono costrette in vita le anime che hanno rinunciato alla luce, poiché “la passione non congiunta a ragione sopraffà il principio intelligente nell’uomo” (Platone, Fedro 238b-c).

“… perfino la bellezza della natura non innalza l’anima

alla conoscenza del Creatore”: quel “perfino”, che tradisce nell’autore un senso di profondo disappunto, riecheggia il concetto greco del “kalós kai agathós” che interpreta la bellezza come epifania del bene e mezzo per conoscere il bene. Niceta si stupisce che la bellezza possa non innalzare l’anima verso il Creatore ma sospingerla nell’abisso della perdizione trasponendo, in un contesto teologico cristiano, quanto già Platone aveva affermato: “Chi non ha fresche nella memoria le beate visioni di lassù, oppure le ha dimenticate del tutto, non attinge subito all’essenza della bellezza quando vede, quaggiù, l’immagine di essa. E per questo non la venera quando la vede” (Fedro 250e).

La tradizione classica riconobbe all’amore un duplice volto e, nel mito, lo simboleggiò con la figura di Eros celeste e di Eros terrestre cui ben si attaglia il nome romano di Cupido, che indica bramosia. Il mito narra che gli dèi, per celebrare la nascita di Afrodite, si riunirono a banchetto. Tra di essi vi era Poros, figlio di Metis, un tempo amata da Zeus. Durante il banchetto, offuscato dall’ebbrezza, Poros concepì un’insana passione nei confronti di una lacera mendicante, di nome Penìa, la quale stendeva la mano sulla soglia della sala e si congiunse con lei. Il frutto dell’unione fu Eros il quale partecipa sia della natura divina dal padre che di quella terrena della madre (Platone, Conv. 203b-c). Il significato dei nomi dei personaggi che intervengono nel mito aiuterà a intenderne il senso. Metis, il cui nome significa “misura”, “norma” (cfr. il latino mensura e metiri, “misurare”) è personificazione dell’ordine che regge l’universo e i cicli della manifestazione universale. Agli inizi dei tempi, Metis fu amata da Zeus. Poros si riferisce al “passaggio” dall’idea creatrice alla sostanza creata, dallo stato pre-formale del cosmo, esistente come progetto nella mente divina, alla manifestazione universale che realizza, in forme sensibili, l’idea creatrice e l’ordine che ad essa presiede. Il poros avviene ad ogni nuova nascita quando il principio spirituale (l’anima) si congiunge alla materia. Il nome Penìa esprime l’idea di “povertà” (cfr. penuria) e di bisogno, inscindibile dalla povertà. Plutarco interpreta il mito leggendo in Penìa l’allegoria della materia, limitata dalla sua incompletezza e dal bisogno, che viene colmata dal Bene. Congiungendosi ad esso, essa partecipa della sua natura e della Vita (Is. et Os. 56). Ancora una volta, l’allegoria è riferita alla struttura dell’umana natura che è allo stesso tempo, terrestre e celeste, finita e infinita, umana e divina. Come rivela la trama del mito, sebbene Eros nasca dall’unione di Poros e Penìa, in realtà è preesistente ad essa poiché agisce in Poros facendo sì che si unisca a Penìa e, ancor prima, agisce in Zeus (il potere creatore) il quale ama Metis (la norma insita nel potere creatore). Amore è il potere che manifesta il cosmo e lo sostiene e, quando il cosmo giunge alla fine, lo riassorbe in sé. Per questo, AMOR è stato interpretato come acrostico di Auctor Mundi Omnipotens Rex.

Non solo il cosmo, ma anche l’ambito giuridico, etico e religioso è posto sotto il dominio di Metis in quanto, in una società tradizionale, le norme del diritto e dell’etica non sono umane invenzioni ma aderiscono alle norme sui cui riposa l’ordine vigente nel cosmo.

Come accade per Eros celeste ed Eros terreno, così il mito contempla l’esistenza di una Afrodite Urania e di una Afrodite Pandemia in riferimento, ancora una volta, alla duplice natura dell’amore agente nell’umana natura. Se “Urania” contiene in sé l’idea del “cielo” (ouranos) e della trascendenza, “Pandemia” esprime l’idea che è questo secondo aspetto di Afrodite a prevalere nella maggior parte (pan) di quelli che, dal punto di vista spirituale, appartengono al volgo (demos). Il messaggio contenuto nel mito appare quanto mai attuale specialmente in quest’epoca in cui, nelle relazioni amorose, prevale il culto per l’esteriorità e l’effimero.

Nell’arte, la duplice natura di Venere-Afrodite è raffigurata dalla presenza o mancanza di abbigliamento: l’Urania è rappresentata vestita, la Pandemia nuda. Uno degli esempi più eloquenti e completi è il trittico marmoreo – conosciuto come “Trono Ludovisi” – conservato a Roma nei Musei Capitolini. In esso, su uno dei pannelli, la dea è rappresentata avvolta nel peplo, col capo velato, in una posa raccolta, nell’atto di versare incenso in un turibolo. In un altro pannello, Venere è completamente nuda, accosciata in una posa sgraziata, e sta sonando un flauto doppio, il barbiton: il medesimo che in certi affreschi etruschi, come a Tarquinia, accompagna la danza orgiastica della sikinnis. Nel pannello centrale, è raffigurata la nascita di Venere dal mare: l’Anadiomene sta emergendo dalle acque, lo sguardo rivolto verso l’alto; le belle forme del corpo s’intravvedono appena tra le pieghe di un velo che due premurose ierodule interpongono come schermo tra lo spettatore e la sacra nudità. È agevole leggere in questi bassorilievi il riferimento al duplice ruolo della donna. La Venere velata intenta al sacrificio ricorda l’abbigliamento delle Vestali e rimanda alla funzione sacerdotale della donna romana unica custode, nell’ordinamento statale, del sacro fuoco di Vesta e, nella familia, sacerdotessa del culto domestico.

Alla duplice natura di Venere rimanda anche l’etimo di Uenus e uenustas (“avvenenza”) derivanti entrambi dalla radice uen– da cui deriva anche uenenum: nell’ambito amoroso, il fascino delle forme che attossica e offusca la ragione di quelle che il sapiente Eraclito aveva definito “anime barbare”, “straniere” al senso della bellezza e incapaci di vedere quel che nella forma s’invela e dalla forma si svela.

Con questa eloquente assimilazione tra Venere (Pandemia) e veleno, i nostri antenati non vollero “demonizzare” la natura femminile ma piuttosto l’errato approccio nei confronti della donna e del sesso il quale può produrre conseguenze letali nell’ambito spirituale, oltre che nel sociale. Per usare un paragone, nessuna persona sensata si sognerebbe di definire “veleno” dell’ottimo vino: il poeta sa trasformarne la sua potenza in ispirazione poetica; al contrario, la soldataglia ebbra commette eccessi che è insensato addebitare al vino. Qualcosa di simile accade nella sfera amorosa. In questo caso, però, occorre tener presente il libero arbitrio da parte della donna la quale, a differenza del vino, ha il potere di scegliere a chi concedersi o di non concedersi affatto e, nel primo caso, di servire ai suoi fedeli vino spillato dalla botte urania, o dalla pandemia.

Di uno dei grandi asceti del deserto egiziano si racconta che, mentre i suoi discepoli distoglievano lo sguardo, sostasse a rimirare lungamente una prostituta che attraversava la piazza: quando gli fu richiesto il perché di un comportamento tanto scandaloso, il maestro rispose che s’era soffermato a lodare Dio per aver creata tanta bellezza. Allo stesso tempo elogiò i suoi monaci per aver prudentemente distolto lo sguardo. Non sappiamo se la Beatrice di Dante fosse o meno una bella ragazza, ma è probabile che, quando passeggiava per le vie di Firenze – sebbene il Poeta assicuri che “gli occhi non l’ardiscon di guardare” – qualcuno indugiasse con lo sguardo su parti del corpo forse meno nobili dell’angelico volto. Eppure, si tratta della medesima donna che permise al suo fedele di sortire indenne dall’inferno e di ascendere alle regioni dell’empireo. Della donna che di sé stessa disse: “Io son fatta da Dio, sua mercé, tale che la vostra miseria non mi tange né fiamma d’esto incendio non m’assale” (Inf. 2,91-93).

La differenza tra l’atteggiamento del Poeta e quello dei bellimbusti, evidentemente, è da ricercarsi nella diversità di natura e nelle differenti intenzioni di coloro che contemplavano la donna, o, nella donna, la beatrice, derivando da tale contemplazione beatitudini di tipo assai diverso.

Tornando al nostro tema, se si riporta il concetto di “aristocrazia” al suo significato originale – derivato da aretè “virtù”, “nobiltà interiore”, “eccellenza spirituale” – il Cavaliere è tenuto, per natura e vocazione, a compiere scelte aristocratiche e, dunque, a preferire l’Urania alla Pandemia. Si tratta di un preciso e inderogabile dovere derivante dall’appartenenza all’Ordine della Cavalleria, privilegio che fa del Cavaliere il più nobile fra tutti i combattenti. È dunque logico che, tra l’amore della Venere Celeste e quello della Venere Terrena, pur non rimanendo insensibile alle dense lusinghe di quest’ultima, il Cavaliere sia tenuto a preferire l’amore più alto, più puro e che è anche quello più difficile da seguire perché presuppone una coraggiosa scelta di vita e impone il dovere di fedeltà a tale scelta. La tendenza verso ciò che è più alto più difficile e bello, mettendo da parte esitazioni e timori, fa parte della natura del guerriero.

Il Cavaliere ha il dovere di mantenere la sua mente sgombra dagli offuscamenti delle passioni, altrimenti non potrebbe intraprendere senza macchiarsi l’opera di giustizia cui si è consacrato. Per quanto riguarda il suo corpo: semplicemente, non gli appartiene più di quanto un valido strumento di lavoro appartiene alle abili mani di chi lo adopera. Si narra che, nell’antica Roma, un console che passava in rassegna le turme di Cavalleria si soffermò dinanzi a un Cavaliere troppo pingue per risultare un efficace combattente e lo apostrofò in tal modo: “E tu, con quel corpo, come pensi di poter servire Roma?”. Lo stesso potrebbe dirsi del Cavaliere a proposito della tenuta spirituale: “E tu, con quella mente ingombra e intorpidita, come potrai servire l’Ordine di Cavalleria ubbidendo alle leggi del tuo Signore?”.

Il volto dell’Afrodite Urania rimane invisibile a chi soggiace al fascino ottenebrante della Venere Terrena, o Pandemia. Le nature nobili posseggono limpidezza di giudizio: sanno vedere nella bellezza il sigillo della Bellezza che le trascende e che nelle forme visibili si esprime, incontaminata dal loro evolvere e dal loro sfiorire. Quando, per lungo esercizio di fede alimentata dal sacrificio, si abbia imparato a non volere, non pensare, non parlare per sé ma a volere, pensare e parlare nella volontà e nel Verbo dell’Eterno che è in noi, solo allora saranno possibili il pensiero, la parola e l’azione creatrici di vita. Quando il cuore avrà ritrovato la luce e raggiunta la verità, la parola sarà rivelazione di luce e spada di verità. Solo allora l’idea e il volere, ricongiunti, convergeranno in armonia indissolubile e feconda e genereranno l’azione, che è Amore. Allora sarà la mano dell’Altissimo, del Dio che è Luce e Amore a operare il miracolo dell’uomo restituito alla sua originaria dignità, libertà e potenza.

Ch’altrui potenza non arìa tal forza dare allo spirto del suo albergo bando e farlo volar nudo senza scorza, né che facesse altrui arder tremando questo è colui che li mortali sforza e che disopra al ciel va trionfando” (attribuito a Ottaviano degli Ubaldini).

Quando diviene palese che ogni realtà, interiore ed esteriore, non è esistente di per sé stessa ma esiste solo in virtù della legge dell’Amore così come luce e calore sono inscindibili dal fuoco, allora si manifesta l’unità fondamentale di tutti gli esseri e di sé stesso col tutto e diviene impossibile recare offesa ad altri senza recarla a sé stesso. Solo a questo punto, il cammino si trasforma da orizzontale in verticale, la Cavalleria da terrena a celeste, come il sorgere di un astro fulgente che non si separa dalla terra se non per abbracciarla tutta nella gloria del suo cuore di fiamma. Se non per ricongiungerla a sé nella luce e per suscitare sulla terra e dalla terra la vita.

Donnoi: il servizio d’amore

Nella Cavalleria esiste una norma superiore di fedeltà e di dedizione designata dal nome provenzale di donnoi, o domnei. Essa sancisce la relazione di vassallaggio tra il Cavaliere e la dama-domina signora del suo amore.

Alla base di questo rapporto di sudditanza che vincola il Cavaliere al mistero spirituale della femminilità vi è, come saldo e irrinunciabile fondamento, il principio dell’azione disinteressata.  Questa consiste nell’agire impegnando tutte le potenze dell’anima, ogni risorsa della mente e del corpo senza però aspirare ai frutti dell’azione, anzi, rinunciando in anticipo a ognuno di essi. Il principio dell’azione disinteressata implica l’equanime accettazione della vittoria e della sconfitta; “Agire senza agire (wei wu-wei)” venne chiamato questo comportamento nelle tradizioni estremo-orientali; “azione non vincolata dai risultati”, nella tradizione indiana. Da questa prospettiva, il valore dell’azione compiuta supera la portata dell’azione stessa e trascende la persona che la compie in quanto coincide col retto compimento della propria vocazione. Inoltre, ha il potere di trasformare la più cocente delle sconfitte in immutabile vittoria: “Vincitore possiederai la terra, vinto possiederai il cielo”.

Portando alle ultime conseguenze il concetto di “domnoi”, il Cavaliere che ha accettato i doveri imposti dal servizio d’amore nei confronti della propria dama, rinunzia al diritto di chiedere ad essa alcunché, salvo la disponibilità ad accettare e benedire i frutti di ogni battaglia e ogni sacrificio compiuti in suo nome. Ancor più: essendo obbligato nei confronti della dama dal dovere di fedeltà, il Cavaliere non può esigere lo stesso dovere dalla propria dama, salvo che ella conceda “graziosamente” di essergli fedele.

Ovviamente, si tratta di una prova leale in cui entrambi, Cavaliere e dama, giocano il proprio onore. Ma se la dama decidesse di donare ad altri il proprio cuore – in una relazione amorosa dai contorni più terreni, o più “umani” come dir si voglia – il Cavaliere coerente con il proprio voto, accettando questa situazione come voluta da colei che ama, senza maledire né giudicare come impongono le leggi d’amore, trarrebbe dal proprio comprensibile dolore motivo di una grandezza eroica commensurabile all’intensità del dolore provato. Un dolore illuminato dalla gioia del dovere compiuto. Guillaume, sesto conte di Poitiers e nono duca di Aquitania, dichiara: “So che Amore concede facilmente grande gioia a chi osserva le sue leggi”.

Dante amò come sua Donna la fiorentina Beatrice Portinari, figlia di Folco, che nel secolo andò in sposa ad altri da cui ebbe figli, ma questi eventi non impedirono al suo fedele di essere condotto da lei attraverso le buie contrade infernali e attraverso le aspre plaghe del rimorso e della purificazione, fino all’incontro con la Celeste Dama, Maria e alla visione dell’Assoluto. La via del guerriero e quella del poeta, Cavalleria e Amor Cortese, s’intrecciano tracciando una delle pagine più belle e profonde della cultura europea. Una pagina che il potere che gestisce le sorti del continente e del mondo ha deriso e cercato di vanificare. L’amore fu detto “cortese” in quanto riservato a nature nobili: esso risiede unicamente nel “cor gentile” e non può compararsi con nessuna esperienza plebea che neppure ha il diritto al nome di amore.

Amore e ‘l cor gentile sono una cosa”. “Al cor gentil ripara sempre Amore”.

L’esperienza dell’Amor Cortese era riservata a una aristocrazia dello spirito che imperniava ogni sua azione sulla morale dell’onore e sul dovere di fedeltà:

fedeltà al proprio signore

fedeltà alla parola data

fedeltà alla propria dignità e nobiltà interiore.

Quest’ultima doveva essere il movente e il metro di giudizio di ogni azione. In nome dell’onore il Cavaliere si assoggettava alle prove che la dama gli richiedeva incurante delle loro difficoltà e s’impegnava a conquistare quanto richiestogli per trovare grazia presso di lei. La prova di fedeltà – che i celti chiamarono “geis” – consiste innanzitutto in una prova d’amore che sorpassa il facile calcolo dei pericoli e delle conseguenze. Il senso vero con cui la geis è vissuta è quello di una prova con sé stesso, di un mezzo atto a forgiare quel volere sereno e invincibile che è la spada interiore del Cavaliere e la sua arma più preziosa. Questo è il valore ultimo di ogni prova e di ogni impresa cavalleresca: enucleare la vera nobiltà d’animo e potenziarla fino a renderla norma costante di comportamento. Il “cor gentile” è requisito indispensabile ai fini che la Cavalleria si propone.

Le leggi d’Amore costituirono il codice cavalleresco e consistono nella pratica della misura, del servizio, della prodezza, della lunga attesa, della castità, del segreto e della pietà.

La misura è virtù nobile e cavalleresca per eccellenza, prodotto di un sereno equilibrio interiore scevro da esaltazioni e orgoglio. I greci la chiamarono Metis e la dissero amata da Zeus che, secondo alcune versioni del mito, da essa generò Atena. La castità del Cavaliere è in primo luogo misura: ogni moto d’orgoglio, ogni esaltazione passionale priva di controllo provocano lesioni nella purezza indispensabile al raggiungimento della Cavalleria celeste, la quale rappresenta il fine supremo della via del guerriero. Nel ciclo del Graal, come conseguenza dei suoi illeciti amori con Orgeluse – la “dama orgogliosa” – Anfortas viene ferito all’inguine: il cedimento all’orgoglio lo rende incapace di generare, ossia di passare a uno stato superiore dell’essere, passaggio che equivale a una nuova nascita spirituale. Chi combatte per orgoglio combatte per sé stesso. Lancelot tenta di seguire la via che porta alla Cavalleria celeste dando di sprone a cavallo e cingendo una corona, insegna del suo valore e dei suoi indubbi meriti guerreschi. D’un tratto, gli si para dinanzi un Cavaliere in bianche vesti che in punta di lancia lo investe, lo sbalza di sella e gli strappa la corona. L’eremita da cui l’eroe si reca per conoscere il significato dell’accaduto, gli spiega che nella celeste Cavalleria “Non si tratta più di ammazzare uomini e d’abbattere campioni con la forza delle armi: si tratta di cose spirituali. E tu hai scelto la corona dell’orgoglio: per questo il Cavaliere ti ha gettato di sella con tanta facilità”.

Il servizio è la funzione cavalleresca per eccellenza: il Cavaliere ha l’obbligo di servire Dio, il suo signore, il suo popolo e (quando abbia in sorte di poter contare con essa) di servire fedelmente la propria dama. Egli appartiene a Dio e, in nome di Dio e come servizio a Dio, al suo signore, al suo popolo e alla sua dama. Quest’ultima, nei confronti della persona del Cavaliere ha i medesimi obblighi che questi ha nei riguardi di sé stesso, dunque non può usare di lui se non come proprio campione vincolato dal dovere di fedeltà, senza fini personali. Un poeta fiorito sotto gli Svevi, l’Inghilfredi, trasponendo il linguaggio dei campi di battaglia in un sonetto d’amore, rivela con immediata freschezza la sintesi dello spirito cavalleresco: “La mia fede è più casta e più diritta ch’asta”.

La dama, nel suo Cavaliere, ama la prodezza e il coraggio: è un privilegio della dama e un suo dovere alimentare nel proprio fedele queste virtù le quali fanno di lui un uomo degno di essere amato: “Io sono stirpe di cavalieri – dichiara Wolfram von Eschenbach – e se a me venissero meno forza e coraggio e qualcuna mi amasse solo per il mio canto, io la riterrei una dissennata” (Parzival 2,115).

Parole, queste, che invitano a una riflessione profonda e salutare, specie in tempi in cui nell’esperienza amorosa prevale l’attrazione per l’esteriorità e l’effimero. Oggi, ma il paragone è fin troppo impietoso avendo come termine di comparazione le parole di Wolfram, folle di donnicciole dissennate e osannanti sarebbero disposte a giacere col divo di turno “solo per il suo canto”. Ma ogni tempo ha gli eroi che si merita.

A differenza delle anime vili, il cuore nobile sa vivere nella sua pienezza i nobili sentimenti e sa custodire la fiamma che ne scaturisce pura da ogni contaminazione che rischierebbe di farne scadere la tensione ideale. “Il Cavaliere è tale per combattere i vizi con la nobiltà del cuore. Non ha cuore di Cavaliere chi non possiede fortezza, né ha le armi necessarie ai combattimenti spirituali” (Lullo, Libro dell’Ordine della Cavalleria 6,11).

Ed eccoci giunti a trattare del tema della purezza, condizione indispensabile per il compimento della retta azione. La castità – intesa non solo come astensione dal sesso – è il metodo di una scienza sperimentale: essa, infatti, si accompagna a un progressivo decondizionarsi della mente dalle sensazioni comuni e volgari. E, mentre la mente s’illumina, il cuore cessa di aderire agli oggetti dei sensi con la semplice spontaneità con cui, al ridestarsi di un sogno, gli occhi del dormiente si schiudono nella luce del sole. Così la coscienza si apre, in modo del tutto naturale, su orizzonti più vasti. Quando l’urgenza dell’istinto è stata domata, il volere diviene capace di imporsi a ogni cedimento verso il basso. Solo allora, l’amore diviene capace di trasformare il suo fedele al disopra dell’alito del volgo. Il Cavaliere è uomo a cavallo: un uomo capace di dominare e dirigere verso la battaglia e la vittoria la potenza del bruto di cui impugna saldamente le redini. Più la potenza è grande, più il controllo da esercitare su di essa è impegnativo ma, opportunamente padroneggiata e diretta, più essa diviene utile al combattimento. Come avviene per un generoso destriero che abbia imparato a ubbidire.

Castità non è l’imperativo di una legge morale accettata ma non compresa: è la naturale disposizione del “cor gentile”. È sperimentare col proprio essere e nel proprio essere una gioia più grande, più stabile e intera che i poeti dell’Amor Cortese chiamarono “joy d’amour” contrapponendola alla “joie vilaine” dei sensi. Essa non riguarda solo il sesso, ma l’astensione cosciente da ogni sentimento, affetto, attaccamento, abitudine capaci di corrompere la mente e il cuore. Il trovatore Guilhelm Montanhagol canta “d’amour mou castitaz, d’amore vien castità”: è il vero amore a rendere puri e far accettare la purezza come virtù inseparabile dall’amore.

L’amore vuole essere libero, non vincolato da alcuna affezione mondana, perché l’occhio suo interiore non abbia impedimenti, né gli agi temporali lo avviluppino, o soccomba per via dei disagi. Nulla vi è più dolce dell’amore. Nulla di più forte. Nulla di più sublime. Nulla di più vasto. Nulla di più giocondo. Nulla di più pieno. Nulla di più buono in cielo e in terra: perché l’amore è nato da Dio e non può trovar pace nelle cose create, ma solo in Dio” (Tommaso da Kempis, Imit. 3,3).

Castità è astensione dai diletti volgari, dal pensiero volgare, dal parlare e dagli atteggiamenti volgari. Ma, soprattutto, è cosciente astensione dall’accettare passivamente sensazioni e impressioni volgari. Se quello che entra dalla bocca può avvelenare il corpo, ciò che entra dagli occhi e dagli orecchi può avvelenare la mente e il cuore e la custodia della mente è un dovere primario per chiunque e a qualunque titolo segua una via dello spirito. Non si tratta di rifiutarsi di vedere, si tratta piuttosto di non soffermare l’attenzione su ciò che è impuro e volgare in modo che la mente, e dunque il cuore, non vi aderiscano. Si tratta di contrapporre allo stimolo proveniente dall’esterno una reazione critica che ne blocca gli effetti negativi impedendogli di penetrare nella mente. La greve e caotica massa di stimoli palesi e occulti generata dai media, dalla pubblicità (non si dimentichi la pubblicità subliminale: da questa prospettiva, una sana “castità televisiva” sarebbe altamente consigliabile), dalle mode che determinano in larga parte il comportamento del volgo, qualora non incontri nella persona un’adeguata resistenza psichica, s’insinua in essa producendo un’intossicazione graduale. Come risultato, si finisce per accogliere come normale ciò che normale non è e che un giudizio non offuscato giudicherebbe deviante.

Chi ha deciso di vivere nel mondo per lottarvi, non può permettersi di chiudere occhi ed orecchi: deve agire come chi è costretto a lavorare in un ambiente contaminato e a rischio di tossicità, cosciente che la situazione impone protezioni adeguate. Si tratta non di fuggire – del resto la fuga non fa parte dello stile del Cavaliere ma è norma dei vigliacchi – si tratta di accogliere attacchi e provocazioni in punta di lancia, con una reazione limpida e immediata. Con lo stesso aristocratico sorriso che aleggia sul volto di Apollo in certe antiche sculture. Allo stesso tempo, occorre rimanere aperti ad accogliere la bellezza che si svela oltre le brutture che ci circondano e che non può essere contaminata dalle esalazioni delle paludi: la gioia del buon combattimento e del dovere compiuto; la bellezza di un vero amore e di una vera amicizia; il calore degli affetti famigliari; la bellezza purificatrice provocata dalla contemplazione della natura; l’esistenza dei santi e degli eroi che hanno vinto le tenebre; il profondo conforto derivante dal sapere che nulla, neppure il disordine più estremo, può contrastare o sfuggire al piano di Dio che dal caos sa suscitare un nuovo mondo. Poco prima di entrare in battaglia, un poeta-guerriero del Giappone ebbe il tempo di slacciarsi l’elmo per sentire per l’ultima volta il canto dell’uguisu: “Il forte guerriero vestito di ferro sosta per ascoltare il canto dell’usignolo: dolce gorgheggio che trilla fra i rami”.

Dopo un lungo allenamento, quando si è acquisita la sufficiente forza interiore, accadrà ciò che accade alla luce del sole che suscita dalla terra la vita e, quando piove sui letamai, brucia e purifica, o suscita putrefazioni feconde. Si deve imparare a camminare a piedi nudi sulle serpi più letali, a calpestare leoni e draghi restando illesi: “Super aspidem et basiliscum ambulabis / et conculcabis leonem et draconem”. Ma può acquisire questa virtù solo chi conta sull’aiuto di Dio e sulla sua protezione (“qui habitat in adiutorio Altissimi / in protectione Dei cœli commorabitur”). Solo costui, infatti, potrà dire: “Tu sei la mia difesa e il mio baluardo (susceptor meus es tu et refugium meum) (Ps 90 [91]).

Castità non è l’abbandono dell’anima lacerata dalle disillusioni che fugge gli inganni del mondo chiudendosi ad essi: significa accettare la sfida di un cambiamento positivo affrontando virilmente la propria umanità densa di passioni, costretta nei propri limiti. Consiste in un’analisi fredda e cosciente delle proprie incapacità e dei propri difetti cui fa seguito una prova coraggiosa, una geis con sé stessi. È l’azione redentrice di un volere solare che fa irrompere la luce negli inferi inesplorati della coscienza e mette in fuga i dèmoni che s’annidano nelle tenebre.

Castità è riunificazione di tutte le facoltà dell’anima: gli innumerevoli torrenti attraverso i quali la potenza dell’essere si disperdeva e dissipava, rifluiti verso la fonte, tornano nel lago purissimo e quieto della mente, prossimo a riflettere il sorgere della Stella del Mattino. Castità è distruzione dell’offuscamento del cuore ed è desiderio di ciò che è lontano e supremo. Il mistero centrale della Via della Cavalleria è l’esperienza dell’Amore che nel suo fuoco brucia ogni limitazione terrena.

Ma tu, foco d’Amor, lume del Cielo, questa virtù, che nuda e fredda giace, levala sù, vestita del tuo velo, ché senza lei non è qui in terra pace” (Dante Alighieri: sonetto Se vedi gli occhi miei di pianger vaghi).

L’amore cavalleresco si distingue dall’amore del mistico per la sua particolare fisionomia: mentre il mistico abbandona il mondo per rifugiarsi in Dio, il Cavaliere fa del mondo il proprio campo di battaglia per giungere a Dio. Nei confronti della donna, custode del suo cuore, il credo d’amore cui egli ha giurato fedeltà insegna che “la donna è venuta dal cielo, è cosa di cielo e deve condurre al cielo”. Dinanzi alla Donna-Stella d’inginocchiano cavalieri e poeti ed essi spesso sospirano “d’amare in luogo troppo elevato”. A spazzare il campo dall’idea di amori resi impossibili dalle invalicabili differenze sociali che ai tempi separavano il Cavaliere da dame altolocate, vi è l’affermazione del re Alfonso di Aragona il quale confessa umilmente che la sua dama occupa un luogo troppo elevato. Un luogo addirittura più alto del trono di un re: particolare che suggerisce di identificare tale “luogo” e la “dama” al di fuori dagli orizzonti terrestri, nel dominio dello spirito, là dove la via del Cavaliere trova compimento e donde trae la sua suprema ragione d’esistere.

Il fine ultimo del donnoi è espresso da queste parole: “Bella di dura pietà, concedete che per voi io tenda al cielo”. “Ogni giorno mi perfeziono e purifico perché io servo la più gentile dama del mondo” (Arnaut Daniel).

Oggi si può stupire della durezza di certi precetti come, appunto, quello che nella relazione amorosa impone castità al Cavaliere e alla dama. Tale stato, tuttavia, appare del tutto normale se lo si considera dalla prospettiva della morale tradizionale cristiana: non dimentichiamo, infatti, che qui stiamo trattando di Cavalleria cristiana e del Miles Christi. Da questa prospettiva, l’astensione dal sesso al difuori del matrimonio non era un’eccezione limitata agli eroi, ma la regola comune e condivisa. Nel caso del Cavaliere, inoltre, siamo in presenza di una persona consacrata al combattimento in difesa della legge di Dio e dei diritti del popolo cristiano. Una persona cui, in primo luogo, è fatto obbligo di rispettare le regole. È pur vero che al Cavaliere non era impedito sposarsi e accedere alle gioie del matrimonio, questo caso però non riguarda chi avesse giurato fedeltà alla propria dama: il rapporto con essa, infatti, non poteva essere vincolato dal matrimonio e per ciò stesso imponeva la castità come condizione. In più, nel caso del rapporto con la dama, oltre ai fattori etici e religiosi entravano in gioco fattori che diremmo “tecnici” in senso operativo: una normale relazione amorosa avrebbe spostato la tensione dall’ambito spirituale a quello materiale distogliendo il Cavaliere dal compimento della propria missione. L’interesse personale volto ad assicurarsi i favori della donna amata, avrebbe contribuito a far decadere l’azione cavalleresca finalizzandola al conseguimento di un bene immediato e, con ciò, essa avrebbe perduto la sua qualità più preziosa: la libera spontaneità, la gratuità liberatrice. A proposito della purezza è stato detto che “non sa un bel nulla di donnoi colui che desidera l’intero possesso della propria dama. Cessa di essere amore ciò che si converte in realtà”.

Il donnoi, pur proponendosi obiettivi del tutto diversi dal semplice soddisfacimento dei sensi, si differenzia parimenti dall’istituzione matrimoniale. Addirittura, il matrimonio era giudicato contrario al donnoi perché costrittivo nei confronti dei “diritti d’amore”: l’amore, afferma la Contessa Maria di Champagne (1174), deve scaturire “senza alcuna obbligazione di necessità”.

La dama è altro dalla mater: il modello ideale della dama, nella mitologia classica, è Artemide e Atena, nella Cavalleria cristiana è Maria cui il Cavaliere si rivolge come “Celeste Dama”. Per divenire tramite di rinascita spirituale l’amore deve essere previamente liberato da ogni condizionamento e da ogni traccia di egoismo; il rapporto con la persona amata deve essere vissuto non come fine, ma come mezzo per giungere all’esperienza d’Amore che, nel suo fuoco, brucia ogni limitazione terrena. Quando tale esperienza ha luogo, la donna e l’uomo perdono completamente i loro contorni terreni. L’amore ritrova Amore. Il Guinizelli, contemplando la dama, ascende alla visione della Celeste Dama e, nel suo rapimento, vede l’intero universo retrocedere alla fonte primigenia, al grembo verginale dell’eterna Madre (Canzone Madonna, il fino amore). E Guido Cavalcanti canta: “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core e destaste la mente che dormìa”.

Parzival ravvisa il rossore soffuso sulle gote della dama in tre gocce di sangue di un’anatra ferita cadute sulla neve intatta. Assorto nella sua visione, in groppa al cavallo, non s’avvede dei nemici che all’improvviso l’attorniano e l’assaltano. Quando torna in sé, vede riversi attorno a lui i corpi dei guerrieri che aveva abbattuto senza neppure accorgersi di aver messo mano alla lancia. Parzival aveva raggiunto quella che, nelle arti marziali del Giappone è considerata la condizione ottimale del guerriero: lo stato di mu-ga mu-nen: non-io non-mente.

La donna di Guido Cavalcanti è chiamata Primavera, nome che Dante interpreta nel senso di “prima verrà”, prima cioè di mostrarsi come potenza beatrice “alla immaginazione del suo fedele” (Vita Nova, 24). E, dal Cavalcanti, è anche chiamata Giovanna, nome equivalente a Primavera perché precede l’apparire della vera luce come Giovanni precedette il Cristo. Come la primizia primaverile precede il fulgore dell’estate che matura i frutti e la culminazione solstiziale che annienta le ombre. Ma Giovanni è anche il ritiro nel deserto, la solitudine feconda di luce, la purificazione austera che prepara la via del Signore. “Madonna Giovanna” è allegoria della mente ritiratasi nel deserto dei sensi, raccolta in sè stessa come gemma irrorata da linfa recondita, pronta a prorompere nel miracolo della fioritura. E come la gemma si nutre di acqua e di sole, così la mente si alimenta delle potenze raccolte dell’anima e s’illumina del sole della verità. S Agostino vede in Giovanni l’anima intellettuale incapace di dar luce a sé stessa ma splendente per la luce d’altro vero lume (Civ. D. 10,2; Contra Acad. 1,3,17; Conf. 7,9) e afferma che la sapienza è data solo dalla partecipazione alla sapienza divina (Cons. Ev. 1,23,35). “Madonna Giovanna” è allegoria della retta azione, Beatrice è la retta intelligenza che fa sì che l’anima si erga oltre ogni limite terrestre. È lei la “donna di virtú” (Inf. 2,76), la mente fecondata dalla luce divina che riluce nell’oscurità del cammino incerto ai dubbiosi e li guida, oltre le incertezze e gli ostacoli, verso la visione del sole che non tramonta. Beatrice è colei che soccorre il Poeta sperduto nella selva oscura, selva che è hylé, materia corporale e coacervo istintuale attraverso cui la retta ragione guida colui che dovrà penetrare e conoscere la componente terrestre dell’umana natura. Scampato alla selva oscura e alle fiere che vi si annidano, il Poeta si accinge a penetrare negli inferi assistito dalla luce della donna- beatrice, ancora invisibile eppure presente nel suo amore che non abbandona chi la cerca e la ama. Nell’oscuro mondo delle forze germinali, una corrente impalpabile d’amore sospinge la creatura, di giro in giro, verso il mistero dell’origine e del compimento. Lo sguardo della dama invisibilmente lo accompagna e lo guida, lo protegge, disserra i suggelli di impenetrabili porte con la potenza d’amore: “Io son Beatrice che ti faccio andare”.

La funzione della dama realizza nella donna, in ambito spirituale, l’ideale di maternità. Intatta sacerdotessa, la dama continua a custodire il sacro fuoco di Vesta alimentato dal sacrificio. Quel fuoco, acceso dalla mistica unione del Cielo con la Terra, là dove la direzione del kardo orientato verso la stella del nord, interseca la dimensione terrestre del decumanus lungo la quale aurore e tramonti si susseguono. Nel punto in cui i due assi cosmici si uniscono, sorgeva la regia, l’angusto sacrario in cui il rex officiava riti riservati ai re. Accanto alla regia venne edificato il tempio di Vesta a esprimere il significato ultimo del mistero che in esso si celebrava. Nel punto in cui arde il fuoco sacro, l’eterno incontra la storia di Roma e verso quel punto convergono le direzioni del tempo: il passato che, incontrandosi col presente, getta il seme del futuro. Per questo, il tempio di Vesta era detto Lararium Populi Romani, perché dedicato ai Progenitori. La sacra fiamma del fuoco imperituro sanciva nel trascorrere dei secoli la continuità della loro uirtus e dei loro insegnamenti i quali costituivano il cuore della storia romana. Negli occulti penetrali il cui accesso era interdetto al sesso maschile, l’aedes Uestae custodiva gli oggetti fatali pegni della aeternitas di Roma. La custodia della fiamma perenne era affidata esclusivamente alla donna ad esprimere la sua funzione di custode della tradizione e di educatrice della prole destinata a calcare le vie percorse dai padri. Una funzione essenzialmente sacerdotale nei riguardi della quale Cicerone si esprime affermando che, qualora la fiamma di Vesta si fosse spenta, deserti i riti delle Vestali, Roma avrebbe cessato di esistere.

La medesima funzione di custode dei valori più sacri della stirpe è svolta dalla dama: il Cavaliere votato al giusto combattimento, infatti, ha consacrato il suo cuore e il braccio, alla difesa della tradizione dei padri e al diritto del popolo a seguire le vie della tradizione. La dama, che sprona il proprio Cavaliere e lo assiste nelle sue imprese, svolge un ruolo materno molto simile a quello delle madri e spose lacedemoni le quali, quando i figli e gli uomini partivano per la battaglia, consegnavano loro lo scudo esortandoli a riportarlo indietro assieme alla vittoria. Oppure trasportati su di esso come cadaveri. Alternativa che, in definitiva, coincide in ogni caso nel segno della vittoria. Nelle tradizioni cavalleresche medievali, sovente la dama consegnava al proprio campione un fazzoletto ricamato con le proprie mani, o una camicia che il Cavaliere annodava alla lancia, o legava sull’armatura. Alla fine della tenzone, riconsegnava tagliato dai fendenti e macchiato di sangue il pegno ricevuto. O la dama lo slacciava dal corpo del caduto per conservarlo come preziosa reliquia, pegno di un amore fedele fino alla morte. Testimonianza del dovere compiuto.

La Celeste Dama

La devozione dei cavalieri verso la Vergine, venerata con l’appellativo di “Celeste Dama”, fu una prerogativa del loro sentimento religioso. Maria quintessenzia in modo supremo la funzione della dama cui il Cavaliere consacra il braccio e il cuore in una promessa di fede che solo la morte può sciogliere.

Una delle figurazioni allegoriche della sapienza, e di Maria, è la rosa che sboccia tra le spine, difficile da raggiungere perché per poter avvicinarsi ad essa e sentirne il profumo è indispensabile accettare il sacrificio. E la rosa, oltre alla spada, fu il simbolo della Cavalleria. Non la pomposa rosa dei giardini, ma l’umile rosa che rallegra il bosco in maggio, mese dedicato a Maria. La disposizione dei cinque petali attorno all’aureo centro, assume un valore simbolico riferito ai sensi ordinati attorno al cuore, nelle cui profondità dove la natura umana e la natura divina s’incontrano, quando il soffio dello Spirito feconda la terra, sboccia la Rosa Mistica. Ma come la rosa potrebbe sbocciare se Maria non distende il suo manto sul cuore che si prepara ad aprirsi alla luce?

Lei fu concepita pura di macchia e mentre l’umana ragione s’intossicava col veleno del serpente terrestre, mentre dimenticava la gloria di cui era stata fatta partecipe e partoriva all’uomo il dolore, Maria, dall’eternità sedente ai piedi del trono di Dio, invocava la venuta dell’Amore e si preparava all’avvento del Figlio che lo incarnasse. Che rendesse di nuovo manifesto l’Amore onnipresente divenuto, ormai, invisibile alla poca vista dell’uomo e svelasse, egli Re dei re, la via che fa dell’uomo il re di tutte le creature e il vincitore della morte. Maria si erge calpestando sotto i piedi il serpente e la falce di luna dai corni rivolti verso il basso, illuminata da bagliori infernali. La Vergine si eleva come il sorgere dell’astro notturno del grembo oscuro della terra nella culminazione del suo chiaro splendore. Avvolta nell’azzurro manto del cielo trapunto d’astri, in un nimbo fulgente di stelle, la Stella Maris illumina chi cammina nella notte.

Nel lavacro purissimo della pioggia di grazie che la Celeste Dama sparge su chi le è fedele, il cuore torna a splendere nell’intatta luce del primo mattino del mondo e nello stupore dell’avvenuta rinascita. Gli occhi si schiudono a contemplare il volto della Vergine al centro dell’universo, circondato dalla radianza delle dodici costellazioni. A contemplare il suo sorriso nel chiaro specchio dell’anima e nella pace della mente.

Nell’uomo, “Maria” è l’anima libera dai ceppi della materia, ma non separata da essa bensì ad essa unita da un rapporto tra domina e ancilla. È dalla materia che la Vergine, nel suo grembo purissimo fecondato dalla potenza dell’Amore, elabora il nutrimento per il Figlio. Sulla terra, in un utero verginale, avviene l’incarnazione del Figlio. E in un sepolcro vergine scavato nella pietra il Figlio verrà sepolto per risorgere al terzo giorno. Utero, grotta natale, sepolcro che, trasponendo nella creatura la vicenda cristica, costituiscono altrettante allegorie riferite al cuore: il luogo in cui Cristo deve incarnarsi, in cui deve morire mescolando il suo sangue alla polvere dell’umana natura, e dal quale deve risorgere trascinando nella gloria immortale la creatura redenta.

Maria, Virgo Potens, possiede il potere che porta ad essere ciò che il volere puro e il pensiero nella sua più sublime espressione concepisce, L’esalazione impura della terra non la raggiunge e nulla può sperare da lei. Senza il suo potere che lo rende innocuo, il serpente terrestre ingoia i frutti non ancora maturi per sbocciare nei cieli. Turris eburnea la chiamarono i padri. Marte in armi, finché il rosso mantello non si sia tramutato in bianca veste, non è ammesso a scalare la torre e a contemplare il suo volto. Finché la spada non sia diventata folgore che sboccia dai recessi del cuore a trapassare le tenebre e ferire i cieli, affinché lo Spirito creatore discenda ad operare nuovamente, nel cuore divenuto mistica grotta, il miracolo dell’incarnazione di Cristo Re. Eva, una donna, dette all’uomo la morte; un’altra donna, Maria, dona la sapienza e la vita.

Oggi, ora, è giunto il momento in cui la donna, ridotta a strumento dalla società dei consumi, svilita a oggetto di piacere dal generale edonismo che intossica le masse, prenda coscienza del mostruoso inganno ordito ai suoi danni: con nuovi frutti, infatti, il serpente continua a tentarla perché a sua volta divenga strumento di tentazione e di perdizione. Occorre che la donna acquisisca il coraggio di spezzare i lacci e di alzarsi dalla prostrazione, di recuperare la propria dignità riappropriandosi del ruolo che per diritto divino le compete: essere madre non solo di vita, ma madre di vita spirituale e di civiltà; autrice e ispiratrice di armonia, di bellezza e di verità; coraggiosa custode del progetto di un mondo più giusto, più degno e più bello. Un progetto che è nella mente di Dio la cui realizzazione, senza l’apporto della donna e senza la forza del suo amore non potrebbe neppure essere tentata.

MARIO POLIA