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Guerra opportuna e guerre opportuniste (a cura della Redazione)

Le Erinni, divinità greche della vendetta, tormentano Oreste.

Vaso di terracotta, Lucania, Sud Italia, 380 a.C. (Napoli, Museo archeologico Nazionale)

 

Preambolo

La vicenda del greco Oreste, eroe mitologico, è a nostro modo di vedere emblematica, perchè aiuta ad inquadrare meglio i contenuti dell’articolo che proponiamo di seguito. La riassumiamo molto brevemente.

Figlio di Agamennone, Oreste era ancora fanciullo quando suo padre fu ucciso da Egisto, amante della propria madre Clitennestra. Per evitare la medesima sorte violenta, fuggì e visse diversi anni nella latitanza. Divenuto ormai adulto, Oreste visitò l’oracolo di Delfi per sapere se doveva riservare una punizione agli assassini di suo padre. Il responso emesso da Apollo, autorizzato da Zeus, diede consenso annunciando che se non avesse onorato la memoria di Agamennone vendicandone la morte sarebbe stato relegato ai margini dalla società. Oreste decise allora di tornare in patria, per assolvere il compito affidatogli dall’oracolo. Giunto ad Argo, vendicò la morte del padre, uccidendo sia Egisto che sua madre. Reso pazzo dal matricidio, Oreste cominciò ad essere perseguitato dalle Erinni. Dopo un lungo peregrinare egli giunse finalmente ad Atene. Qui subì un processo innanzi al severo tribunale dell’Areopago, da cui venne assolto grazie all’intervento di Atena e di Apollo. Quest’ultimo lo sostenne con appassionata arringa, asserendo che il padre era più importante della madre.

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Due guerre parallele

Chi abbia occhi per vedere e orecchie per intendere (il che, in termini evangelici, sta ad indicare il possesso della trasparenza di mente e di cuore) avrà ben colto il sottile parallelismo che lega i due recenti avvenimenti bellici che stanno coinvolgendo da una parte la Russia e da un’altra parte la Palestina, nonostante l’apparente alterità determinata dai rispettivi contesti.

In effetti, tanto l’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina, quanto l’attacco operato dal movimento militante palestinese Hamas contro gli insediamenti dei coloni israeliani, si presentano palesemente – pur sempre e solo ai suddetti ‘puri’ di mente e cuore – come conseguenze di una medesima e remota causa scatenante: la ‘provoc-azione’. E se nel primo caso si riconoscono quali artefici di essa la Nato e le due anglo-potenze, sulla scorta dei pregressi tentativi di insidiare i confini della Federazione Russa, nel secondo caso, invece, tale causa scatenante rimane addebitabile al sionismo israelitico stesso, a motivo delle sue ultradecennali attività di invasione dei territori palestinesi.

Questo incontrovertibile dato, proprio in quanto rileva la vera origine dei conflitti in questione e ne mostra la ragione, rimane altresì di fondamentale e decisiva importanza per comprendere se e a quale degli schieramenti in campo debba essere riconosciuta una qualche ‘giustificazione’ della propria azione bellica. E ciò, soprattutto alla luce delle varie affermazioni avanzate proprio dagli attori della ‘provoc-azione’; i quali, non paghi di venire ipocritamente a negarne la fattualità, evocano per sé stessi persino il diritto di essere riconosciuti quali alfieri della ‘guerra giusta’.

‘Provoc-azione, azione e re-azione’ (ovvero: Egisto-Clitennestra, Oreste, Erinni)

Ci sembra innanzitutto necessario far presente che i termini ‘provoc-azione, azione e re-azione’, i quali verranno qui estesamente posti al centro delle nostre riflessioni, non vanno accolti e interpretati secondo il loro significato immediatamente colloquiale, quanto piuttosto secondo il loro rimando ontologico e metafisico. Se essi afferiscono tutti ad una ‘azione’ (come abbiamo inteso evidenziare tramite il particolare posizionamento del trattino nel corpo dei termini), tuttavia ciò avviene sulla scorta di un loro differente valore ontologico, che proveremo di seguito ad illustrare.

Precisato ciò, sembra superfluo osservare che, per addivenire ad una visione totale e oggettiva degli eventi in questione, non è possibile circoscrivere il discorso entro i termini di una semplice ‘re-azione’ (ucraina e israeliana) succedutasi ad una ‘azione’ (russa e palestinese), senza porre altresì nel dovuto rilievo il fatto che quest’ultima, da parte sua, sia venuta a scaturire proprio da una ‘provoc-azione’ degli stessi attori che, in seguito ad essa, sono andati poi a rispondere. Il non mantenere una visione globale di questo tipo, insomma, non può che per converso esprimere l’applicazione di una visione parziale, ossia, letteralmente: non imparziale, di parte e, perciò, ‘opportunista’.

Tuttavia, anche tale presa in considerazione necessita di essere inquadrata in una maniera corretta, per evitare di ritenere come omologabili le dinamiche in gioco entro i tre momenti di ‘provoc-azione, azione e re-azione’, quasi essi possano obbedire solo ‘linearmente’ ad una sorta di relazione del tipo ‘a : b = b : c’.

In verità, tutto questo approccio alle questioni, di cui a breve testimonieremo l’invalidità, è esattamente quello che viene tacitamente applicato dagli attori ‘provocatori’ allorché ritengono del tutto lecito sorvolare sulle giuste responsabilità a cui è riconducibile la loro ‘provoc-azione’, per esprimere invece un giudizio di merito positivo sulla propria ‘re-azione’ solamente a partire dall’‘azione’ da essi subita.

In altre parole, non solo essi ritengono del tutto gratuitamente ‘giustificabile’ prescindere da quello che è il vero inizio del processo, astraendo da esso quasi possa essere considerato separabile dal contesto, ma così facendo vengono comunque a porsi indirettamente secondo un’equivalenza (ossia, quel suddetto ‘a : b = b : c’) che, come dicevamo, non risulta nemmeno del tutto corretta allorché formulata ‘linearmente’: in quanto in tal caso soddisfarebbe solo ‘quantitativamente’ la valutazione degli elementi coinvolti nella relazione.

E precisiamo che, ispirandoci al pensiero aristotelico-tomistico, per ‘quantitativo’ usiamo intendere tutto ciò che è ‘accidentale’, mentre con ‘qualitativo’ tutto ciò che è ‘essenziale’.

Provoc-azione e responsabilità

Con l’astrarre dal contesto generale la valutazione della propria ‘provoc-azione’, coloro che ‘reagiscono all’azione’ non fanno altro che ritenere ogni atto come chiuso e fine a sé stesso nella propria estensione ‘quantitativa ovvero accidentale’. In tal modo, non è da meravigliarsi che, quand’anche essi non neghino che l’‘azione’ rientri nel medesimo contesto bellico di quella che è stata la propria ‘provoc-azione’ (seppur da essi non ammessa come tale), non concedono tuttavia a quest’ultima il possesso di una particolare valenza ‘qualitativa ovvero essenziale’, mancando la quale essi vengono pertanto a considerarla del tutto ontologicamente non relazionabile con le conseguenze da essa scatenate. Il che non è accettabile.

Per spiegarsi meglio, possiamo dire che il segno ‘uguale’ (=), posto tra le relazioni ‘a : b’ da una parte e ‘b: c’ dall’altra, non rappresenta un’equivalenza ‘orizzontale, paritaria e transitiva’ tra di esse, quanto piuttosto una corrispondenza ‘verticale, gerarchica e distributiva’: che sancisce, cioè, una preminenza ed un subordine di responsabilità.

Etimologicamente, l’atto del ‘pro-vocare’ (lat. pro-voco) significa ‘chiamar fuori, fare uscire’.

Tale verbo trova sinonimia nei significati di ‘stimolare, incitare, indurre’, i quali ineriscono tutti all’azione operata da un’agente, che con la sua ‘chiamata’ trae fuori dall’inerzia, e quindi dall’‘inesistenza’, un soggetto da esso distinto: lo fa passare, insomma, dalla potenza all’atto. Tuttavia, la ‘provoc-azione’ riveste un particolare caso di ‘azione’, in quanto con essa si delinea un atto che si presenta con un atteggiamento ‘ostile e di sfida’.

Volendo pertanto inquadrare la ‘provoc-azione’ alla luce dell’‘etica’ – che è l’ontologico principio regolatore del libero arbitrio dell’essere umano – la ‘chiamata di sfida’ che essa attua la pone in una particolare posizione: che sia cioè essa stessa a dover ‘dare risposta’ al proprio atto’[1]. Da qui il dovere che è proprio della ‘responsabilità’ (lat. responsus) di ogni atto umano: e cioè, che la ‘responsabilità’ della propria ‘chiamata di sfida’ implica il ‘rispondere’ delle conseguenze in quanto ‘provoc-azione’.

A questo punto, è facile comprendere che laddove si segua una interpretazione ‘orizzontale’ della successione delle relazioni che si pongono tra i tre momenti, come fossero ognuno ‘finito in sé stesso’, si giunge all’assurdo che dopo esser stati stimolati ad uscire dall’inerzia dalla ‘provocazione-chiamata’ di qualcuno, coloro che ad essa rispondono si assumerebbero paradossalmente la responsabilità di venire a porre in atto un’ulteriore ‘provoc-azione’: ovvero quella che verrebbe poi raccolta dalla ‘re-azione’ come se quest’ultima fosse, invero, solamente una pura e semplice ‘azione’ indotta e di riflesso.

Si può ben intuire che è proprio questo ciò che innesca le ben note ‘spirali’ cui non si giunge mai a porre termine; dacché si instaura un perverso circolo vizioso costituito da una ‘re-azione’ che pretende ogni volta di riciclarsi, come se essa fosse un’‘azione’ che semplicemente risponde ad una ‘provoc-azione’.

Diversamente, affinché si mantenga la corretta dialettica dei tre momenti, è d’uopo ritenere, in maniera ‘verticale’, che tanto la chiamata quanto la risposta sono qualitativamente coincidenti e contestuali nell’atto di chi inizialmente ‘provoca’. Colui che compie la ‘provoc-azione’, ovvero colui che con atto di sfida ‘chiama’ e sollecita un’‘azione’, è insomma, ‘giustamente’, colui che rimane unico responsabile del processo innescato e deve ‘rispondere’ di tutto quanto ne derivi.

Opportuno e opportunistico

Tutto questo ci porta allora a distinguere ciò che è da considerarsi un atto ‘opportuno’ ed uno invece che è ‘opportunistico’.

Se per ‘opportunistico’ bisogna intendere quel comportamento per cui si agisce senza tener conto di ‘principi o ideali’, ma si tragga utili e vantaggi dalle condizioni e dalle opportunità ‘del momento’, comprendiamo come a questa definizione appartengono gli atti che abbiamo definiti ‘orizzontali’, ovvero ‘chiusi in sé stessi’; tutti quelli cioè che, privi della ‘visione d’assieme’, hanno la propria ragion d’essere nell’auto-giustificazione.

Viceversa, ricadono nella categoria dell’‘opportuno’ tutti quegli altri atti che risultano inseriti in una dinamica sì di ‘adattamento’ alle necessità del momento, ma alla luce di uno stimolo proveniente dal di fuori e di cui essi non sono affatto originariamente responsabili.

L’aggettivo ‘opportuno’ (lat. ob-portus) non a caso detiene il senso etimologico di ‘ciò che spinge verso il porto’: significando in tal modo il ‘vento’, il quale appunto agisce ‘dal di fuori’ sulle vele di una nave.

Dunque, per ritornare ai tre termini in questione (‘provoc-azione, azione e re-azione’) l’unico di essi che risulta veramente ‘opportuno’ è quello centrale (azione). Rispetto al primo (provoc-azione), perché è da esso che riceve l’impulso ad agire e non lo esercita per averlo elaborato in sé stesso. Rispetto al terzo (re-azione), invece, perché quest’ultimo è solo apparentemente spinto a reagire per un incitamento esterno. In verità, non tenendo conto dei principi ideali che solo una visione d’assieme rendono palesi, ma limitandosi all’esclusiva valutazione del momento dopo averlo astratto dal contesto generale, esso cerca appunto ‘opportunisticamente’ di trarre utili e vantaggi, prescindendo dalle iniziali responsabilità propriamente insite in quella che è stata la sua stessa ‘provoc-azione’.

Come oltretutto si può evincere dalla etimologia del termine ‘re-azione’, questo significa ‘agire al contrario, di ritorno, ripetere al contrario’; il che equivale, insomma, ad un innaturale pretendere di ‘navigare contro vento’, tramite un adattamento ‘rovesciato’ rispetto all’ordine ontologico delle cose.

Guerra giusta e guerre illegittime

È a questo punto consequenziale che, per essere ‘giusta’ e legittima, una guerra deve essere ‘opportuna’. Viceversa, una guerra ‘opportunistica’ non potrà che ricadere nella categoria dell’‘ingiustizia’ e dell’illegittimità.

Come già accennato, sin dall’inizio dei due eventi bellici a cui stiamo facendo riferimento in queste riflessioni, le prese di posizione politiche, giornalistiche ed intellettuali di coloro che si sono schierati dalla parte delle forze che hanno ‘provocato’ quegli eventi, hanno teso sempre più non solo a negare indebitamente le responsabilità iniziali di queste, ma addirittura a tentare di ‘giustificare’ la loro ‘re-azione’ e quindi a vederle come ‘giuste’. Ciò in nome di una necessità morale; la quale avrebbe ‘reagito’ contro quelle ‘azioni’, dopo averle riduttivamente screditate inquadrandole entro le categorie delle ‘aggressioni’ e degli ‘atti terroristici’.

A tal proposito, ci sembra necessario stigmatizzare il caso particolare di un quotidiano italiano, peraltro tra i più ideologicamente schierati in senso laicistico, il quale ha curiosamente cercato appigli per le proprie tesi andando a scomodare persino il pensiero di S. Agostino, teorizzatore della ‘guerra giusta’. Con lo scopo di riconoscere nelle forze ‘provocatrici’ gli alfieri di tale ‘guerra giusta’, è stata pertanto forzata la dottrina agostiniana entro alcune conclusioni ad usum Delphini, le quali ne hanno in verità snaturato il senso, oltre che mistificato i legittimi intenti.

L’autore dell’editoriale, nonché direttore del quotidiano, si è appellato alla rilettura della Epistola 189 del Vescovo di Ippona per rispondere alle eccezioni ‘pacifiste’ sollevate dal Vaticano in merito all’inesistenza di una ‘guerra giusta’[2]. In effetti, l’Autorità sacerdotale cattolica aveva inteso esprimersi in tal modo per assumere una posizione di equilibrata equidistanza tra le forze belliche contendenti e propugnare così la pace, a fronte di quella che sarebbe invece l’illegittimità morale di qualsivoglia guerra.

Suona intanto alquanto preconcetto e tendenzioso il rimprovero elevato dall’editoriale all’indirizzo del Vaticano, per non essersi schierato con esclusiva predilezione dalla parte delle forze belliche che hanno ‘reagito’, né aver tantomeno espresso un loro pieno riconoscimento quali forze ‘del bene’.

C’è da dire tuttavia che, come sempre accade quando si confonde l’etica con la morale – la prima pertiene ai principi, mentre la seconda alle applicazioni – entrambe le suddette posizioni, pur nella loro contrarietà, ci risultano in pari modo fuorvianti e demagogiche, in quanto ristrette ad un ambito circoscritto, quantitativo e orizzontale. L’ambito morale, infatti, quando privato del collegamento verticale, qualitativo e aperto con i principi metafisici – il che è invece nella peculiare natura dell’etica – finisce col decadere in un moralismo strumentale, ipocrita e fine a sé stesso.

Al ‘pacifismo’ moralista e svirilito, oggi tanto di moda tra i cattolici modernisti posti attualmente ai vertici della Chiesa cattolica, possiamo allora semplicemente rispondere con le forti parole, ontologicamente evocatrici, di don Divo Barsotti (1914-2006): monaco, presbitero, predicatore e scrittore, nonché fondatore della Comunità dei figli di Dio:

«In fondo la guerra è la condizione normale dell’uomo dopo il peccato. Dobbiamo renderci conto che la pace non si può mai predicare alle nazioni, perché quando si parla di pace alle nazioni il nostro linguaggio è sempre demagogico, è come se noi non riconoscessimo più che c’è il peccato nel mondo e che come conseguenza necessaria del peccato c’è tensione. Non ci sarà la guerra guerreggiata con le armi, ma ci sarà una guerra economica; non ci sarà una guerra economica e ci sarà una guerra culturale; non ci sarà una guerra culturale e ci sarà una guerra religiosa; non ci sarà una guerra religiosa e ci sarà una guerra razziale. Non se ne può fare a meno; c’è da farci poco!

È terribile! A me sembra non soltanto che il linguaggio sia demagogico, ma che sia anche pericoloso, perché quando si parla di cose che non possiamo promettere, di cose che non possiamo donare, il nostro linguaggio è sempre più o meno strumentalizzato dagli altri. E allora si diviene non “i legati di Dio”, ma i legati di una potenza: o della cultura occidentale contro le altre culture, o degli Stati Uniti contro la Russia. Legati di Dio siamo soltanto nella misura che portiamo la grazia e la grazia non si dà mai a tutta una nazione. Quando confessiamo, confessiamo sempre una persona per volta!

Ci sono ancora i peccati in questo mondo? E se ci sono i peccati, c’è la guerra. Per forza! È inutile illudere gli uomini e portarli per il naso col parlare loro di pace. La pace non esiste; la pace è possibile possederla soltanto personalmente, nella misura che i singoli si convertono a Dio»[3].

D’altro canto, non è possibile nemmeno concedere una qualunque legittimità alla posizione assunta dal giornalista, i cui parametri risultano altrettanto improntati ad un ideologico e demagogico ‘moralismo’. Ciò proprio alla luce della sua errata e del tutto interessata evocazione della ‘guerra giusta’; evocazione che è colpevole di omettere alcuni necessari e determinanti presupposti altresì presenti nella dottrina agostiniana.

Per la precisione, soffermandosi su un breve frammento della suddetta Epistola, egli estrapola dal testo questo particolare passaggio: «La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace. Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi»[4].

Alla luce di questa benevola concessione di S. Agostino in merito alla necessità di alcune guerre (ossia quelle finalizzate all’ottenimento della pace), sempre l’autore dell’editoriale chiosa sentenziando che esiste dunque veramente una ‘guerra giusta’, che è “[…] quella che include una giusta causa, un intento corretto, un uso delle armi come ultima risorsa, una ragionevole speranza di successo nell’attacco e una proporzionalità nell’attacco[5].

Ovviamente, tutto ciò andrebbe ascritto alle forze belliche che si sono poste dalla parte della ‘re-azione’.

Sin qui nulla di particolare, se non il prevedibile tentativo da parte del giornalista di ‘portare acqua al proprio mulino’. Sennonché, il passo estrapolato dal testo dell’Epistola di S. Agostino risulterebbe in realtà incastonato all’interno di altre due riflessioni: «Quando perciò indossi le armi per combattere, pensa anzitutto che la tua stessa vigoria fisica è un dono di Dio; così facendo non ti passerà neppure per la mente di abusare d’un dono di Dio contro di lui. La parola data, infatti, si deve mantenere anche verso il nemico contro il quale si fa guerra; quanto più dev’essere mantenuta verso l’amico per il quale si combatte! […] Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigioniero, soprattutto se non c’è da temere, nei suoi riguardi, che turbi la pace»[6].

Come appare chiaro, S. Agostino evoca dunque anche il ‘rispetto della parola data’ e la ‘misericordia’ tra i tratti di coloro che si vogliano riconoscere quali attori di una ‘guerra giusta’. Ma una svolta decisiva, per l’individuazione dei caratteri che a tale guerra appartengono, viene finalmente offerta dal Dottore della Chiesa nel contesto di un’altra sua opera.

Nel Libro VI delle sue Quaestiones in Heptateuchum è infatti scritto: «Ma le guerre giuste sono generalmente definite come quelle che vendicano le offese, se una nazione o uno stato, che deve essere citato in giudizio dalla guerra, o non riesce a vendicare ciò che è stato fatto ingiustamente dal suo stesso popolo, o a ripagare ciò che è stato tolto dalle offese. Ma anche questo tipo di guerra è senza dubbio giusta, come comanda Dio, presso il quale non c’è iniquità e sa cosa si deve fare a ciascuno. Nella quale guerra deve essere giudicato il capo dell’esercito o il popolo stesso, non tanto l’autore della guerra quanto il ministro»[7].

In questa occasione S. Agostino afferma insomma che la ‘guerra giusta’ si ha non solo nell’immediata ricerca di una pace, ma anche in riparazione di un torto; e ciò allorché una comunità non punisce un’ingiustizia commessa da alcuni suoi membri verso un’altra comunità o non restituisce ciò che quella ha sottratto ingiustamente a questa. In questo caso, il torto non è da addebitare a chi muova guerra, quanto a chi l’abbia ‘provocata’.

A noi sembra che la posizione del direttore del quotidiano in questione non corrisponda a quella serena obiettività che lui pretenderebbe fosse osservata dagli altri. Infatti, intanto egli sorvola sul mancato rispetto dell’uso di ‘misericordia e parola data’ verso i propri nemici, come del resto dimostrato dalle forze belliche con cui simpatizza per affettato moralismo. Oltretutto, e solo per fare qualche esempio, egli nemmeno tiene in alcun conto la mancata osservanza, da parte del governo israeliano, del dovere sia di punire gli atti di sopruso perpetrati dai suoi coloni, sia di restituire i territori da questi indebitamente occupati e tolti ai palestinesi con la prevaricazione e la minaccia. Così come pure egli pare dimenticarsi che i territori contesi dalla Russia all’Ucraina erano storicamente già appartenenti alla prima.

Ma sulle già ben note contingenze di tutti questi fatti preferiamo non dilungarci oltre.

Conclusioni e dubbio finale

Nonostante un serio discorso attorno alla dottrina della ‘guerra giusta’ sia tutto da approfondire, anche solo per non lasciarlo soggiacere alle superficiali ed interessate citazioni giornalistiche[8], qui ci basta perlomeno ricordare che S. Agostino elabora tale concezione con l’obiettivo non di legittimare la guerra, né tantomeno di convincere sulla praticabilità di una ‘pace umana’ in grado di poter prescindere dalla ‘pax Dei’. E questo, lo diciamo, con buona ‘pace’ sia del giornalista citato che del Vaticano!

Il Santo Dottore ha semmai cercato di porre dei limiti alla possibilità di dichiarare guerra (jus ad bellum), fissando tre condizioni: la giusta causa, la retta intenzione, la legittima autorità. La Scolastica, poi, e in particolare S. Tommaso d’Aquino, ne riprenderanno le posizioni aggiungendo altri due criteri: la ultima ratio (la guerra solo dopo aver esperito tutti i tentativi di trovare soluzioni per via diplomatica) e il debitus modus, che riguarda lo jus in bello (uso dei mezzi legittimi e protezione dei civili).

Non ci sembra affatto che le forze responsabili delle iniziative di ‘provoc-azione’, le stesse che si autoproclamano alfieri della ‘guerra giusta’, si siano distinte sino ad ora nell’osservare fino in fondo tutti i suddetti presupposti.

Non sono dunque loro che possono pretendere il riconoscimento ed il plauso dell’opinione pubblica, né tantomeno l’approvazione di Dio, a riguardo di un inesistente merito etico-morale soggiacente ai loro atti di ‘re-azione’.

E qui ci insorge un dubbio, nemmeno tanto ‘amletico’.

Al termine di tutti i nostri percorsi argomentativi ci pare di aver esposto sin qui delle riflessioni che, nonostante abbiano scomodato la metafisica, l’etica e le dottrine tradizionali, sembrano pervenire a delle conclusioni che in fin dei conti rimarrebbero alquanto ovvie e scontate.

È mai possibile che i responsabili politico-militari autori della ‘provoc-azione’ siano persone così poco attente alla logica delle cose?

E se ci stessimo noi sbagliando sul loro conto? Se non fosse come da noi sin qui rilevato e la loro non sia una ‘miopia intellettuale’ o una semplice negazione ‘di comodo’ che impedisca di riconoscere quel legame qualitativo tra ‘provoc-azione, azione e re-azione’ che noi andiamo affermando? E se, diversamente da quanto ci è sembrato di scorgere, non sia affatto vero che essi non mantengano nel debito conto la relazione sussistente tra ‘re-azione’ e ‘provoc-azione’, così come invece noi sosteniamo?

Vogliamo dire: e se fossimo noi così ingenui da non aver capito che la loro ‘pro-vocazione’ sia stata attuata col ben preciso, mirato e consapevole intento (occulto quanto quello del ‘cavallo di Troia’) di prima provocare l’‘azione’ per poi così ‘legittimare’ la propria ‘re-azione’, come se essa fosse cosa ‘giusta e opportuna’?

 

NOTE

[1] È ciò che Heidegger intende quando parla della risposta alla ‘chiamata dell’Esserci’: una ‘voce della coscienza’ dalla connotazione però non morale-religiosa, ma in quanto percezione della propria esistenza. Una risposta a tale chiamata sancisce l’apertura dell’Esserci alla ‘vita autentica’. Tra le varie cose, nel rapporto con gli Altri, se l’‘autenticità’ implica un rapporto a partire dall’Altro stesso, l’‘inautenticità’ si esprime invece con una volontà di dominio sull’Altro.

[2] C. CERASA, Caro Papa, la guerra giusta esiste, Il Foglio, editoriale del 29 dicembre 2023.

[3] D. DIVO BARSOTTI, Questo è il mio testamento, 1974.

[4] S. AGOSTINO, Epist. 189,6.

[5] C. CERASA, cit.

[6] S. AGOSTINO, cit.

[7] S. AGOSTINO, Quaestiones in Heptateuchum VI: PL 34,781.

[8] Per una sufficientemente esplicativa disamina dell’argomento cfr. http://www.reginaequitum.it/2022/03/19/la-questione-ucraina-di-don-curzio-nitoglia/