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La Pax Friderici (articoli di Franco Cardini e di Marina Montesano)

Federico II: Testa di gesso (Museo Provinciale, Capua) e Spada (Kunsthistorisches Museum, Kaiserliche Schatzkammer, Vienna)

 

Preambolo della Redazione

Riproponiamo due articoli apparsi sul quotidiano Avvenire (il primo del prof. Franco Cardini e pubblicato nel febbraio del 2006, il secondo della prof.ssa Marina Montesano e pubblicato nell’aprile del 2024) con il chiaro intento di ribadire quanto l’esempio dell’Imperatore Federico II Hohenstaufen mantenga numerose prospettive, alla luce delle quali poter essere sempre considerato di perenne attualità.

Il filo conduttore dei due interventi, nonostante la distanza temporale che li separa, presentano una analogia e continuità di giudizi che colgono e pienamente confermano il valore in certo qual modo “universale” della figura dell’Imperatore svevo.

Più di chiunque altro sovrano, Federico II incarna la figura di colui che, proprio alla luce della sua perfetta “identità tradizionale” ontologicamente intesa, ha mantenuto un comportamento così aderente ai principi metapolitici e metastorici che non si può prescindere dal suo esempio allorché si intenda affrontare le sfide geopolitiche offerte, anche e soprattutto, dal presente contesto storico.

Al di là della sua già pur notevole visione “multipolare” che tanto oggigiorno gioverebbe riadottare, al fine dell’instaurazione di una più pacifica ed arricchente convivenza tra le differenti civiltà e tradizioni del mondo, ciò che maggiormente ci preme sottolineare concerne la sua piena consapevolezza della “sacralità”  della propria funzione imperiale.

Tale coscienza è stata spesso riduttivamente giudicata come una forma di indebita esaltazione finalizzata a prevaricare le funzioni del Papato. Niente di più falso ed illativo, come conferma la sua coerente e mai negata rispettosità nei confronti dell’Autorità Sacerdorale; ed infatti, pur sempre ribadendo con fermezza l’autonomia della propria funzione Regale rispetto a quella, tuttavia mai egli ne affermò l’indipendenza.

Del resto, è quanto dimostra pure la sua ferma determinazione ad ottenere la pace con l’Islam, in vista del recupero della Santa Città di Gerusalemme e dei sacri luoghi legati alla vita del Cristo. Con la propria nomina a Re di Gerusalemme si chiudeva insomma un cerchio, all’interno del quale egli oramai siglava e ribadiva, con suprema pienezza, quella che doveva essere la sua funzione di Vicario di Christus Rex, accanto a quella del Papa in quanto Vicario di Christus Sacerdos. 

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  1) Ci vorrebbe un altro Federico II – di Franco Cardini

(Estese il suo impero dal Nord Europa al Mediterraneo e seppe regnare rispettando le altre culture. Un modello ancora attuale. Fu «feudale» in Germania e «pluralista» in Italia. Le sue regole sono alla base ancora della realtà federale tedesca. Nonostante la crociata non alimentò lo scontro di civiltà e fece di Gerusalemme una «città aperta»).

Ha senso in un tempo come il nostro, caratterizzato da tanto brutali e inaudite novità, cercar ancora ispirazione indagando i modelli storici? O è una pia illusione pedante? Una sterile esercitazione retorica? I paragoni zoppicano sempre; la storia può presentar spesso situazioni che hanno fra loro somiglianze e analogie, ma senza dubbio non torna mai identica a sé stessa, non si ripete mai. Eppure, a volte il passato sembra riproporsi con spietata evidenza. O è un’illusione ottica?

Nel suo ultimo libro, ch’è in realtà un’antologia di scritti usciti negli ultimi cinque anni, A passo di gambero, Umberto Eco si è divertito a cogliere i segni “regressivi” e “involutivi” della nostra epoca, chiedendosi il perché di questi molti ritorni al passato, dalle guerre calde sino al riaffacciarsi dell’ottocentesco Great Game nell’Asia centrale, magari con gli americani al posto degli inglesi, i russi sempre là e l’incognita cinese in più.

In una prospettiva del genere, che personalmente mi guardo bene dal condividere, ha senso anche indagare sulla “modernità” e magari “attualità” di certi modelli storici. Federico II di Svevia ad esempio, con la flessibilità istituzionale e la capacità di adattarsi a molteplici forme istituzionali del suo grande impero, appare oggi molto più “moderno” e “attuale” che non Clemenceau o Churchill. Non a caso, gli Stati nazionali sembrano oggi ormai definitivamente superati e si vanno profilando nuovi “imperi”.

Sembra in effetti che la sua pratica di governo possa fornirci utili indicazioni. Imperatore romano-germanico, re di Germania, re d’Italia, re di Sicilia, sovrano formale del regno di Borgogna, erede e reggente per alcuni anni del regno di Gerusalemme, sovrano eminente di quello di Cipro, egli si presentava come titolare di una quantità di diritti e di prerogative istituzionali tra loro diverse per origine e caratteri: e non si sognò mai di tentare processi uniformatori e generalizzatori che ne avrebbero snaturato il potere.

Si ama definirlo “moderno”. Ma la sua “modernità” è affidata, principalmente, alla memoria del suo Liber augustalis, le leggi promulgate a Melfi dopo il ritorno dalla crociata d’Oltremare e la natura delle quali è accentratrice, antifeudale, insomma tale da sembrar precorrere per più versi lo Stato moderno.

“Moderno” e accentratore in Sicilia, l’imperatore fu “medievale” e “feudale” in Germania e “pluralista” in Italia: la sua azione di governo e le sue deleghe di poteri stanno alla base della realtà federale della stessa Germania moderna, che ne ha gelosamente conservato il modello fino ai giorni nostri (con la sola parentesi, e non totale, del periodo nazionalsocialista); mentre il Risorgimento italiano, concludendosi nel centralismo sabaudo e mazziniano-garibaldino, ha abbandonato la tradizione regionalistica e pluricentrica che gli era propria. Flessibilità e sperimentazione furono i caratteri costanti della sua azione politica: in ciò, più che moderno, egli sembra piuttosto postmoderno.

Anche i suoi rapporti con il mondo musulmano sembrano genialmente spregiudicati se visti con gli occhi del XXI secolo: ma a ben guardare è piuttosto quest’ultimo a gestirli in modo maldestro. Federico non fu né filomusulmano, né antislamico: era un sovrano cristiano-latino del XIII secolo, traeva da fondamenta sacrali e sacramentali la sua legittimità di potere e riteneva la guida della crociata per la riconquista dei Luoghi Santi un suo dovere e una sua prerogativa. Ebbe ottimi rapporti con il sultano ayyubide del Cairo al-Malik al-Kamil e sostanzialmente buoni con i vari emirati dell’Africa settentrionale, ma in Sicilia represse e perseguitò duramente i residui insediamenti arabi spingendosi fino alla deportazione di essi in Puglia: solo a partire da allora si avviò il suo idillio con i saraceni di Lucera, ch’erano appunto dei deportati ch’egli usava quali mercenari.

Si cita spesso, come modello di moderazione e di saggezza, il modo con il quale egli concluse nel 1229 la sua crociata, accordandosi diplomaticamente con il suo amico il sultano d’Egitto in modo che Gerusalemme divenisse “città aperta”, nella quale le comunità cristiane e musulmane detenessero ciascuna i suoi Luoghi Santi e si potesse convivere pacificamente.

Oggi, la proposta d’internazionalizzazione del piccolo perimetro della cosiddetta “città vecchia” di Gerusalemme, caldeggiata dalla Santa Sede consentirebbe forse la soluzione di uno dei nodi del problema israeliano-palestinese, che è anche un problema ebraico-cristiano-musulmano. In questo senso, ispiratore più che paradigmatico, Federico II di Svevia resta ancor “attuale”.

Si fa spesso, oggi, come si diceva, il nome di Federico II come di un modello di tolleranza, di convivenza, di apertura mediterranea, di equilibrio internazionale, il riferirsi al quale potrebbe contribuire a risolvere alcuni problemi di oggi. Con tutti i suoi errori e anche i suoi misfatti, Federico II resta un eroe per il nostro tempo: ch’è nuovamente, come nel XIII secolo, un tempo d’incontri e di confronti tra civiltà; un tempo nel quale, non diversamente di allora, culture diverse possono rendersi conto di possedere elementi comuni, di non essere totalmente “altre” fra loro.

Il modello federiciano c’invita pertanto a superare l’astratta e banale dicotomia Oriente-Occidente, nata dal riduttivismo eurocentrico della nostra cultura sette-novecentesca ma riletta alla luce d’un tempo – il nostro – che sembra aver perduto le capacità di analisi e di esegesi socioantropologica della quale invece tale cultura disponeva. Questo è forse il grande compito che attende le nostre generazioni, cui spetta il dovere d’una nuova sintesi che vada al di là del prospettato melting pot multiculturale senza per questo cader nelle secche mortali del «conflitto di civiltà».

Franco Cardini (Avvenire, 24.02.2006)

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2) Così Federico II e Al-Malik governavano il mondo costruendo la pace – di Marina Montesano

(Dalle due sponde del Mediterraneo il sovrano ayyubide e lo “Stupor Mundi” avevano molto in comune: arti, scienze e diplomazia. E infatti la Sesta crociata si concluse in modo incruento)

Nel 1229, Al-Malik al-Kamil governava come sultano un vasto territorio che andava dall’Egitto alla Siria, e includeva dunque la Terra Santa. La sua dinastia, detta ayyubide, aveva conosciuto una straordinaria ascesa grazie a suo zio, Salah ad-Din Yusuf ibn Ayyub, per gli occidentali Saladino, generale curdo al servizio dei governanti zengidi di Mosul. Egli aveva creato il sultanato ayyubide nel 1171 grazie alla conquista dell’Egitto, riportato all’islam sunnita dopo la lunga parentesi del califfato fatimide sciita.

Fu un buon governo, quello degli ayyubidi, che mantennero una forte infrastruttura militare e politica, in grado di resistere alle minacce esterne, tra cui le invasioni crociate e le incursioni mongole. Stabilirono relazioni diplomatiche con gli Stati vicini e si impegnarono in alleanze e trattati per salvaguardare i loro territori. Allo stesso tempo, il periodo fu testimone di significativi progressi culturali e intellettuali. Al-Kamil sponsorizzò numerosi studiosi, poeti e artisti, contribuendo alla fioritura delle attività intellettuali e artistiche durante il suo regno. Egli attirava presso la sua corte del Cairo studiosi provenienti da varie parti del mondo islamico. Fornì loro risorse, tra cui biblioteche e stipendi, per condurre ricerche e studi. Questi studiosi contribuirono al progresso in campi come la teologia, la legge, la filosofia, la medicina e l’astronomia. Inoltre, egli sosteneva iniziative di traduzione, in particolare dal greco e da altre lingue, all’arabo. Uno sforzo atto a facilitare la trasmissione del sapere dalle antiche civiltà al mondo islamico, favorendone la crescita intellettuale e l’innovazione. Sotto di lui, il Cairo divenne un centro di attività letteraria e poetica, oltre a sponsorizzare la costruzione di moschee, madrase, palazzi e altri progetti architettonici. La corte di Al-Kamil era nota per il suo carattere cosmopolita e accoglieva studiosi e artisti provenienti da contesti culturali diversi. Questa atmosfera di scambio culturale favoriva la tolleranza e la comprensione tra le diverse comunità religiose ed etniche del suo regno.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, in Italia meridionale, contemporaneamente al sultanato di Al-Kamil, regnava Federico II, re di Sicilia a soli quattro anni, nel 1198, e dal 1220 incoronato imperatore. Il lettore avrà riconosciuto, nello specchio del sultanato ayyubbide, molti dei caratteri di fondo del regno di Federico. La sua corte era un centro d’irradiazione di novità e di sperimentazioni culturali. La scuola poetica siciliana era sì debitrice della tradizione provenzale dei trovatori, ma a quell’influenza aveva unito i caratteri della tradizione lirica araba, sviluppata nell’isola dalla dominazione islamica e poi anche in epoca normanna. Lo stesso Federico II e i suoi figli Enzo e Manfredi poetarono, insieme a figure di spicco quali Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Cielo d’Alcamo, Jacopo da Bologna.

Presso la curia federiciana convennero studiosi tra i più notevoli del tempo, come il filosofo e astrologo Michele Scoto, che tradusse alcune opere di Aristotele; l’arabo cristiano Teodoro; l’enciclopedista ebreo Juda ben Salomon Cohen. Il sovrano ordinò la fondazione dello Studium napoletano di diritto e curò la scuola medica salernitana. Continuò la tradizione normanna di edificare castelli, spesso aggiungendo nuove strutture alle precedenti, ma edificò dal nulla il capolavoro di Castel del Monte. Come tutti gli aristocratici del suo tempo era amante della caccia, ma Federico stesso fu autore di un celebre trattato di falconeria, il De arte venandi cum avibus, nel quale immise il frutto della sua straordinaria capacità di osservazione.

Insomma, Al Kamil e Federico II avevano molto in comune fra loro, ed è per questo che il loro incontro durante quella che siamo soliti chiamare “sesta crociata” diede vita a qualcosa di nuovo: invece di combattere, i due sovrani si accordarono per negoziare lo status di Gerusalemme senza spargimento di sangue. Federico II andò all’incontro in una posizione particolare; poiché non si decideva a partire per la spedizione, Gregorio IX l’aveva scomunicato, e i suoi nemici in Italia avevano invaso il regno di Sicilia. Anche la pace con il sultano non piacque: si sarebbe preferita la guerra, invece del Trattato di Giaffa che nel 1229 poneva fine alle ostilità e permetteva ai cristiani di riprendere il controllo di Gerusalemme, acquisito dai crociati con una strage nel 1099 e perso per opera del Saladino nel 1187. Il trattato garantiva ai cristiani l’accesso ai luoghi santi di Gerusalemme, compresa la chiesa del Santo Sepolcro, il rilascio dei prigionieri e un passaggio sicuro ai pellegrini. In cambio Federico non proseguiva nella guerra. Sia chiaro: nessuno dei due era un idealista; entrambi avevano dimostrato di saper tenere saldamente il potere, anche con il pugno di ferro. Nel 1225, Federico aveva contrattato un’alleanza matrimoniale con Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme: ne avrebbe sposato la figlia ed erede Isabella II. Dopo aver negoziato il trattato di Giaffa con il sultano, Federico si recò a Gerusalemme per affermare la sua pretesa al trono. Il suo matrimonio con Isabella II e il suo status di consorte fornirono la base legale e politica per la sua incoronazione come re di Gerusalemme. Dunque, l’interesse politico entrò certamente nel patto fra i due, che non vanno scambiati per “pacifisti”, termine che all’epoca non avrebbe avuto senso; entrambi, però, considerarono che l’assenza di guerra, per una questione che si poteva risolvere altrimenti, fosse una buona mossa. In fondo, trattative e paci non si stipulano forse fra nemici?

Marina Montesano (Avvenire, 11.04.24)