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Il Cavaliere che sconfisse il drago (di Teodoro De Giorgio).

Madonna in trono col Bambino, Arcangeli e Santi Teodoro e Giorgio, icona, sec. VI, Monte Sinai, monostero di Santa Caterina.

 

Affresco di San Giorgio e San Teodoro che uccidono il drago (c11th-c13th), Ylanli Kilise, Goreme, Cappadocia, Turchia.

 

Preambolo della Redazione di Regina Equitum.

L’esigenza di soffermarci sull’origine dell’iconografia del Cavaliere sauroctonos (Uccisore del drago) – ed in particolare sulle figure dei Santi Cavalieri Teodoro di Amasea e Giorgio di Lydda, i quali, perlomeno in ambito cristiano, ne rappresentano il prototipo – nasce qui per diversi motivi.

Intanto ciò vuole suggerire e giustificare il perché l’icona dei due suddetti Santi sia stata prescelta per comparire quale immagine della pagina iniziale del presente sito Regina Equitum.

Inoltre, bisogna osservare che l’iconografia del ‘Cavaliere che uccide il drago’ costituisce simbolicamente il sunto di quella lotta che il Cavaliere cristiano è in effetti chiamato tradizionalmente ad ingaggiare. Anzi, essa è in verità una duplice battaglia, in quanto rivolta da una parte contro il nemico esterno, presente nel mondo, dall’altra contro il nemico interno, presente nella propria anima.

A conferma di ciò, il Prof. Teodoro De Giorgio, eminente studioso del tema (e risulta per noi significativo il suo nomen omen, che vede alludere proprio ad entrambi i Santi), ben sottolinea come in una variante delle più antiche e tradizionali immagini orientali raffiguranti il Cavaliere sauroctonos, non solo S. Teodoro e S. Giorgio compaiano insieme, appunto a cavallo nonché ‘affrontati’, ma vengano oltretutto colti nel momento in cui uno trafigge un serpente-drago (simbolo del demonio tentatore che si annida nell’essere umano), mentre l’altro trafigge una figura umana (simbolo del pagano persecutore, dell’eretico, del nemico della fede).

Proprio perché il presente tema iconografico, nel suo cammino spazio-temporale dall’oriente verso l’Europa medievale, ha per così dire dimenticato S. Teodoro lasciando solo a S. Giorgio l’onore e l’onere di rappresentare il Cavaliere sauroctonos, rimane dunque di fondamentale importanza ed interesse per noi ricordare quelle che furono le sue effettive origini tradizionali. Non fosse altro che per ribadirne la maggior completezza di significati.

Desideriamo esprimere al Prof. De Giorgio tutta la nostra più viva e sincera gratitudine per averci cortesemente concesso di presentare qui alcuni stralci del suo saggio-studio.

 

 

 

TEODORO DE GIORGIO, Il Cavaliere che sconfisse il drago. Teodoro d’Amasea e l’origine dell’iconografia del santo Cavaliere sauroctonos, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia, serie 5 2015, 7/1, Edizioni della Normale, Pisa 2016, p. 103 sgg.

Nell’immaginario collettivo, e nella storiografia artistica, si è inclini ad associare la figura del santo Cavaliere cristiano che uccide un grosso serpente o un drago, in maniera pressoché esclusiva, al martire Giorgio di Lydda. Il drago, in realtà, inizia a essere associato stabilmente a san Giorgio relativamente tardi, a partire dall’XI secolo nella leggenda e dapprima nelle rappresentazioni figurative. Un altro illustre rappresentante della santità militare – che Anna Comnena (1083-1153) definì “il più grande tra i martiri”[1] – la cui esistenza è storicamente attestata da Gregorio di Nissa, ebbe fama di aver ucciso, almeno quattro secoli prima di Giorgio, un enorme e terribile drago: il martire Teodoro d’Amasea.

Nella prima metà del VII secolo, alla consueta rappresentazione di Teodoro in costume da alto dignitario di corte, e più raramente da guerriero, si aggiunge quella da Cavaliere sauroctonos, intento a trafiggere con la lancia un grosso serpente o un drago posto sotto gli zoccoli del cavallo.

Teodoro è ritratto in compagnia di Giorgio, secondo uno schema compositivo che non ha precedenti nell’arte cristiana e in quella dell’antichità greca e romana[2]: i due santi sono raffigurati come cavalieri affrontati, il primo nell’atto di trafiggere il serpente, simbolo del diavolo e per estensione del male, e il secondo nell’atto di trafiggere una figura umana, il persecutore pagano[3]. Questa iconografia fece la sua prima apparizione in Georgia, paese di antica fondazione all’incrocio delle principali vie di comunicazione fra Europa e Asia e confinante con gli Imperi di Persia e Bisanzio[4]. La formulazione di un simile tipo iconografico si colloca nell’ambito delle vicende storiche che a partire dal IV secolo interessarono il paese[…].

Il timore di un’ulteriore disfatta dei Romani (dopo quella del 260, inflitta all’Imperatore romano Valeriano dal re sasanide Shapur I, N.d.c.), che avrebbe ratificato l’egemonia della Persia sulla Georgia, indusse le maestranze georgiane a rappresentare sulle pareti esterne degli edifici religiosi e sulle stele i due principali santi protettori del paese e dello stesso esercito bizantino, Teodoro e Giorgio, secondo uno schema persiano reinterpretato semanticamente in chiave devozionale-apotropaica.

Lo schema dei cavalieri ‘affrontati’ (di cui uno è il dio, mentre l’altro è il re che da quello viene investito, N.d.c.), con la presenza dei nemici sconfitti che giacciono sotto le zampe delle cavalcature, era comparso per la prima volta nell’arte achemenide del IV-III secolo a.C. e venne prescelto per la rappresentazione ufficiale del potere politico e militare dei Persiani […].

(Come dicevamo), il dio e il re sono entrambi a cavallo e in posizione affrontata, (mentre) i destrieri incurvano la testa e hanno la zampa anteriore alzata, che poggia, in segno di vittoria, sulla nuca dei nemici vinti stesi al suolo. (Tali due nemici raffigurano rispettivamente uno ‘lo spirito del male’, mentre l’altro ‘un re che sta a rappresentare tutti gli avversari sconfitti’, N.d.c.) […].

La rappresentazione di Teodoro e Giorgio come santi cavalieri affrontati rispondeva alla necessità di schierare i due ‘invincibili’ soldati di Cristo a difesa dell’impero bizantino e della Georgia: come i Persiani, per le loro rappresentazioni ufficiali, avevano adottato lo schema dei cavalieri affrontati, cosi i Georgiani, per avere la speranza di trionfare su un nemico tanto temibile, non potevano che rappresentare allo stesso modo i loro santi patroni. Il combattimento tra Bizantini e Persiani si configurava innanzitutto come un combattimento tra immagini, che preludeva a quello sul campo di battaglia. Le immagini persiane e georgiane combattevano ad armi pari, anzi Teodoro e Giorgio, in virtù della loro comprovata santità, erano gli unici soldati in grado di arrestare la travolgente avanzata dei Sasanidi[5]. Nell’esercito georgiano la cavalleria si distingueva proprio per il suo valore e la sua forza, pertanto la scelta di una tale composizione aveva valenza simbolica e allo stesso tempo trionfale. I due santi militari, che non a caso sono effigiati come Imperatori trionfanti sui nemici, se per un verso ripropongono lo schema compositivo elaborato nella Persia achemenide e sasanide, dall’altro si riallacciano alla tradizione salomonica.

Salomone ha fornito l’archetipo iconografico originario da cui e derivata la rappresentazione del santo guerriero a cavallo che con la lancia uccide il nemico, incarnazione del demonio. Il cosiddetto Testamento di Salomone, redatto non oltre il III secolo, narra che l’arcangelo Michele donò al re davidico un anello con sigillo in grado di soggiogare i demoni. Il potere di Salomone di trionfare sui demoni è stato largamente riconosciuto dalle religioni popolari giudaico-cristiane e ha determinato la nascita di un modello iconografico spesso riprodotto sugli amuleti […].

La fiducia riposta nei due santi guerrieri, a giudicare dall’esito della campagna militare bizantina, fu ampiamente ripagata. Nel 624 l’esercito bizantino, guidato dall’imperatore Eraclio, riuscì finalmente a respingere i Persiani dalla Georgia orientale e nel 627 a riportare contro di essi una memorabile vittoria, che i cronisti del tempo reputarono miracolosa.

La più antica rappresentazione superstite dei santi Teodoro e Giorgio, come cavalieri affrontati, compare in un frammento […] riferibile alla prima metà del VII secolo […].

I due guerrieri sono in procinto di trafiggere con le lance i nemici vinti, stesi al suolo tra le zampe dei cavalli: Teodoro, visibile nella sua interezza, un grosso serpente attorcigliato; Giorgio, di cui si intravedono le mani e la parte anteriore del destriero, una figura umana. I cavalli, secondo lo schema persiano, incurvano la testa e hanno la zampa anteriore alzata. I santi, sulla base di una consuetudine georgiana, non sono identificati da iscrizioni, ma le loro fisionomie, i loro atteggiamenti e soprattutto il caratteristico schema iconografico permettono di riconoscerli […].

Il motivo dei santi cavalieri affrontati ebbe grande fortuna in Georgia, come dimostrano i tanti rilievi e i numerosi affreschi sparsi per il paese […].

Dall’XI secolo il soggetto si diffuse in tutto l’Oriente cristiano e i due sacri personaggi iniziarono a essere rappresentati su oggetti artistici di uso liturgico, come le icone portatili e le croci processionali […].

La prima fonte letteraria che menziona espressamente l’uccisione del drago da parte di Teodoro è un manoscritto del IX secolo, la cosiddetta Passio Prima[6], risalente però a un’epoca molto più antica. In questa versione si narra che Teodoro, dopo essersi fatto il segno della croce, affrontò coraggiosamente, colpì al capo e vinse il gigantesco drago che bloccava la strada di accesso a Euchaita, la città in cui sorgeva il santuario del martire. Il testo sottolinea la potenza liberatrice del signum crucis, uno dei più diffusi topoi costantiniani che tanto seguito ebbe nel Medioevo […].

Il prodigio dell’uccisione del drago, che vitae e passiones narrano con dovizia di particolari sin dal IX secolo, è il più importante miracolo, seppure leggendario e simbolico, ascritto a Teodoro. Il drago divenne molto precocemente il più caratteristico attributo iconografico del santo. La presenza, nelle prime rappresentazioni visive (ben più antiche delle leggende), di un grosso serpente in funzione del drago non deve condurre ad affrettate interpretazioni iconografiche: nell’Alto Medioevo l’omologia tra il drago e il serpente era ordinaria e pacifica e trovava fondamento nelle visioni apocalittiche giovannee, in cui l’arcangelo Michele combatte contro “il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (Ap 12, 9)[7].

L’identificazione con Satana avviene di norma quando il drago è citato al singolare, quando invece la Bibbia parla genericamente di draghi allora si preferisce interpretarli come simbolo dei demoni e degli spiriti maligni.

Nel simbolismo cristiano, dunque, serpente e drago non sono altro che sinonimi che identificano l’antico tentatore della Genesi, il diavolo, che, come sostiene Girolamo, “fu scacciato dal paradiso, che ingannò Eva, che fu consegnato in questo mondo”. L’assoluta equivalenza lessicale dei termini greci δράκων (drago) e ὄφις (serpente), poi, permetteva di attribuire al drago quelle che tradizionalmente erano le prerogative del serpente, sia sul piano zoologico, l’essere provvisto di veleno, che su quello esegetico, il riferimento all’episodio della tentazione. Il drago, insieme al serpente, detiene il primato della creatura più cattiva di tutto il bestiario cristiano e trova la propria giustificazione nel patrimonio della Sacra Scrittura.

Nella tradizione veterotestamentaria, il termine δράκων e utilizzato dai LXX per identificare il Leviathan, che secondo Girolamo sarebbe il nome proprio del drago. Il Leviathan, che nella mitologia fenicia era il mostro del caos primordiale, è descritto dal profeta Isaia come un “serpente

Guizzante” e un “serpente tortuoso” (27,1). Il testo di Isaia è stato chiaramente influenzato da un poema del XIV secolo a.C. di Ras-Shamra, che chiama il Leviathan “serpente fuggiasco […] serpente tortuoso, il potente dalle sette teste”. E’ quantomeno singolare che il terribile drago dell’Apocalisse, che incarna la resistenza della potenza del male a Dio, abbia in comune con questo serpente del caos la caratteristica delle sette teste (12, 3). Nel Libro di Daniele è chiamato ‘drago’ un enorme serpente, divinizzato e adorato dai babilonesi, che il profeta uccide “senza spada e senza bastone” (14, 25) facendogli ingoiare una micidiale focaccia di pece, grasso e peli cotti (14, 23-27).

Nel Nuovo Testamento l’arcangelo Michele assume il titolo di debellatore ufficiale del drago, del serpente antico della tradizione apocalittica.

Nel quarto decennio del IV secolo, prima che il culto micaelico influenzi l’iconografia dei santi cavalieri sauroctoni, Eusebio di Cesarea narra nella sua celebre Vita Costantini che l’Imperatore volle farsi rappresentare col capo sormontato dal Chrismon mentre, insieme con i figli, schiacciava il drago:

«[Costantino] Fece dipingere l’emblema salvifico sormontante il suo capo; mentre fece rendere la belva nemica e ostile alla chiesa di Dio, che aveva assediato tramite la tirannide degli atei, nell’atto di strisciare dall’abisso in forma di drago. Drago e serpente tortuoso la Scrittura infatti, nei libri profetici, chiama quella bestia. L’Imperatore fece perciò mostrare agli occhi di tutti, per il tramite della pittura a encausto, il drago trafitto dal dardo da parte a parte del tronco, sotto i piedi suoi e dei suoi figli, nell’atto di sprofondare negli abissi del mare. In questo modo l’Imperatore alludeva al nemico occulto del genere umano, che per la potenza del trofeo salvifico posto sopra la sua testa egli mostrava nell’atto di ritirarsi negli abissi della perdizione. Tutto questo, invero, gli splendori dei colori evocavano attraverso l’immagine. Quanto a me, la meraviglia della grandezza della mente dell’Imperatore mi prese, poiché per divina ispirazione fece rappresentare quello che le voci dei profeti proprio così gridavano circa quella belva dicendo: ‘Dio leverà la spada grande e terribile contro il drago, il serpente tortuoso, contro il drago, il serpente fuggitivo, e ucciderà il drago che sta nel mare (Is 27,1)’. Immagini di questi fatti fece rappresentare l’Imperatore, facendo porre imitazioni della verità nella pittura»[8].

Qual era il messaggio che una simile immagine voleva veicolare e quali reazioni intendeva suscitare negli spettatori? L’effige costantiniana celebrava innanzitutto la solenne vittoria, in virtù del potere salvifico della croce di Cristo, del primo imperatore cristiano e della sua discendenza sul diavolo, che aveva ispirato ai predecessori di Costantino le brutali persecuzioni. L’Imperatore si autocelebrava come un novello san Michele, protettore dei suoi sudditi cristiani ed esecutore materiale delle promesse di Dio. Il popolo, di conseguenza, non poteva fare altro che riconoscere la predilezione accordata da Cristo a Costantino, grazie alla quale era stato esaltato nel suo ruolo di Imperatore prescelto direttamente da Dio.

Il successo di questa rappresentazione spinse i successori di Costantino a realizzare una serie di emissioni monetali auree che nobilitavano ulteriormente la sacra persona dell’Imperatore, elegantemente effigiata a cavallo in atto di calpestare il dragone.

Gli effetti di queste immagini dal forte potere iconico, specie di quella di Costantino, si riscontrano nelle più antiche leggende dei santi sauroctoni: il simbolo della croce, che nella tradizione costantiniana si accompagna al celebre motto “In hoc signo vinces”, assicura la vittoria sul drago anche a Teodoro, che – come narrato nella Passio Prima – si segna con la croce prima di iniziare il combattimento […].

Già nella seconda metà del IV secolo, Gregorio di Nissa, nel proemio dell’encomio in onore di Teodoro, aveva sostenuto che il santo, durante una prodigiosa apparizione post mortem, era riuscito a respingere l’incursione degli Sciti nel Ponto con la potenza della croce di Cristo. Gli Sciti, a cui la tradizione attribuiva ogni sorta di efferatezza e finanche l’accusa di eresia (nel simbolismo religioso del mondo antico serpenti e draghi identificano soprattutto gli eretici)[9], venivano percepiti come l’incarnazione del male, che solo la potenza della croce di Cristo poteva fermare.

L’immagine del Cavaliere che combatte contro un orribile mostro ha origini lontane. Nell’arte dell’Antichità le figure trionfali a cavallo che calpestavano o infilzavano il nemico sconfitto erano molte. Horus, la divinità egizia del cielo con la testa di falco, era sovente rappresentato – fino al III-IV secolo – a cavallo nell’atto di trafiggere un coccodrillo, simbolo di Seth, il dio del male. A questo proposito è interessante constatare come nella Bibbia dei LXX il termine greco δράκων designi, oltre al serpente, al drago e al Leviathan, anche il coccodrillo che dimora nei fiumi d’Egitto.

Nella mitologia greca si racconta che Perseo, in groppa al cavallo alato Pegaso, affrontò coraggiosamente il famelico mostro marino che stava per divorare la giovane principessa Andromeda, incatenata a una roccia. Il valoroso Cavaliere, innamoratosi della fanciulla, sconfisse il mostro e gli tranciò la testa. Gli autori delle vite medievali di Teodoro presero certamente spunto da questo mito, poiché riproposero i particolari del taglio della testa del mostro e del salvataggio della fanciulla prigioniera[10].

Dal nome dell’eroe mitologico sarebbe derivato, secondo lo storico greco Erodoto, quello di uno dei più potenti e temibili imperi della storia: la Persia. In piena invasione persiana della Georgia, la scelta di raffigurare Teodoro in atto di trafiggere un grosso serpente non è improbabile che fosse dovuta anche alla volontà di convertire a simbolo cristiano il mito di Perseo. La potenza salvifica di Cristo avrebbe permesso al martire di trionfare, a iniziare dalle immagini, sul pagano Perseo, progenitore degli invasori persiani. Nelle più antiche rappresentazioni georgiane di Teodoro sauroctonos il serpente identifica proprio l’invasore persiano ed è strettamente connesso al culto micaelico: nella prima testimonianza scritturistica su Michele, il Libro del profeta Daniele (10, 13), si legge che l’arcangelo, capo supremo dell’esercito celeste, combatte contro il “principe del regno di Persia”, che appare come uno degli angeli protettori delle nazioni nemiche di Israele. La Persia, in questo conflitto angelico, non poteva che assumere agli occhi dei georgiani – per estensione simbolica – i connotati del principale avversario di Michele, il drago, descritto con dovizia di particolari nell’Apocalisse. I Persiani, per la loro irrefrenabile brama di conquista, finirono così per essere accomunati al diavolo, che per la sua superbia[11] aveva voluto farsi uguale a Dio ed era stato scacciato dal cielo da Michele, il cui nome significa proprio ‘Chi [è] come Dio?’. Il serpente, oltre a essere l’incarnazione del male strisciante e del demonio (che, secondo la consuetudine del tempo, risiedeva nei templi pagani), identificava anche l’anticristo, “il capo dei reprobi”, pronto a colpire mortalmente chi desiderasse percorrere la via della verità: nel VI secolo i Persiani che occupavano la Georgia orientale punivano regolarmente con la morte coloro che si convertivano al cristianesimo […].

Nonostante l’esistenza di immagini, limitatamente alla Georgia (fine del VII secolo) e alla Cappadocia (IX e XI secolo), in cui i due santi lottano insieme contro lo stesso serpente/drago o contro due serpenti avvinghiati fra loro, bisognerà attendere l’XI secolo perche Giorgio possa essere raffigurato, come Teodoro, mentre combatte, da solo e senza la cooperazione di ulteriori figure, contro un singolo mostro […]. A partire proprio dall’XI secolo, il prodigio, per riflesso della storica associazione dei due santi militari, venne progressivamente assorbito da Giorgio e divenne il suo principale attributo iconografico […].

Teodoro non ha (tuttavia) perso del tutto il suo originario attributo e ha continuato a essere raffigurato, seppure in sporadici ma significativi casi, nell’atto di uccidere il drago. In Italia si conservano alcuni degli esempi più eloquenti: il santo è ritratto come Cavaliere sauroctonos sulle lastre argentee che rivestono l’arca realizzata per accogliere le sue spoglie quando, nel XIII secolo (molto probabilmente nel 1225, in occasione delle nozze di Federico II di Svevia con Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme, celebrate nella cattedrale brindisina nel giorno della memoria liturgica del martire, vale a dire il 9 novembre), da Euchaita approdarono a Brindisi[…].

In conclusione, il motivo del Cavaliere sauroctonos, per il suo notevole fascino, da pagano è diventato prima giudaico, come si desume dalle rappresentazioni di Salomone sugli amuleti tardo-antichi della Siria bizantina e della Palestina, e poi cristiano, grazie all’inevitabile assimilazione da parte delle leggende popolari, inizialmente orali, sui santi militari.

 

 

 

[1] ANNA COMNENA, Alexiad libri XV, CSHB, hrsg. von L. Schopen, 2 Bde., Bonn 1839, II, pp. 392-3.

[2] T. VELMANS, A. ALPAGO NOVELLO, L’arte della Georgia. Affreschi e architetture, Milano 1996, p. 114.

[3] La figura umana prostrata, sulla base delle più accreditate interpretazioni, identificherebbe o Diocleziano, imperatore dei romani, o Daciano, re dei Persiani. Il martirio di Giorgio si consumo, secondo alcune leggende, sotto la dominazione di Diocleziano e secondo altre sotto quella di Daciano, entrambi accaniti persecutori dei cristiani.

[4] T. VELMANS, A. ALPAGO NOVELLO, L’arte della Georgia, cit., p. 4.

[5] Ulteriore elemento da tenere in considerazione è che Teodoro nel 297 potrebbe aver partecipato alla campagna militare romana contro i Persiani, che vide la strepitosa vittoria del Cesare Galerio Massimiano sul sovrano sasanide Narsete (293-302), figlio di Shapur I. Quello storico trionfo segnò la massima espansione dell’Impero romano verso est, con l’acquisizione della Mesopotamia occidentale, il protettorato sull’Armenia e il controllo di ben cinque province situate sulla sponda destra dell’alto corso del fiume Tigri. Riflessi della battaglia contro i Persiani si riscontrano nella Vita di Teodoro l’Orientale.

[6] F. HALKIN, Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles 1957, n. 1761. Il documento è pubblicato nella versione greca e latina in H. DELEHAYE, P. PEETERS, Acta Sanctorum, IV, Bruxelles 1925, pp. 29-39.

[7] Cfr. Ap 12, 1 e sgg. e 20, 2. A questo proposito è interessante leggere le descrizioni che Cassiodoro e Isidoro di Siviglia forniscono del presunto aspetto fisico del drago: «Il drago ha un corpo assai grande, allungato come un serpente, solcato da squame; infiammato da calore naturale, come rimedio alla sua temperatura abita dentro caverne nell’acqua. Non striscia per terra, ma quando vuole muoversi si dice che voli» (CASSIOD., Expos. in Ps., CCSL, 98, 1958, p. 1318); «Il drago è il più grande di tutti i serpenti e di tutti gli animali della terra […] spesso, uscito fuori dalle caverne, si libra nell’aria e l’aria si agita per colpa sua. Ha la cresta, bocca piccola e gola stretta, attraverso cui esala il respiro e tira fuori la lingua. La sua forza non sta nei denti, ma nella coda, e nuoce più con i colpi che con le fauci» (ISID., Etym., ed. a cura di G. Gasparotto, Verona 1986, pp. 135-137). Cfr. M.P. CICCARESE, Animali simbolici, Bologna 2002, pp. 380, 388 e sgg.

[8] EUSEB., Vit. Const., GCS, 7.1, 1975, pp. 81 sgg. Il passo, nella sua traduzione, è ripreso da A.M. ORSELLI, Santità militare e culto dei santi militari nell’impero dei Romani (secoli VI-X), Bologna 1993, pp. 11-2.

[9] Gli eretici, secondo Cassiodoro, «giustamente sono uguagliati ai serpenti, perché vomitano veleno con i loro discorsi» (CASSIOD., Expos. in Ps., p. 1256); anche il drago, per Agostino, identifica gli eretici, che perseguitano con perfidia e falsità: «Draco quomodo insidiatur? Per haereticos» (AUGUST., Enarr. in Ps., CCSL 39, 1956, p. 720); lo Pseudo Crisostomo sostiene che «sono serpenti anche tutti gli eretici, prudenti nel male e stolti nel bene. E come i serpenti sono variegati nel corpo, cosi gli eretici sono vari nei loro errori e complessi nella malvagità; hanno deposto l’immagine di Dio, che consiste nella giustizia e nella santità della verità, e assunta l’immagine del serpente, che consiste nella malvagità e nell’apparenza della verità, sono diventati serpenti» (PSEUDO CRISOSTOMO, Opus imperfectum in Matthaeum, PG, LVI, coll. 889-90).

[10] Anche nella Vita di san Giorgio, redatta nell’XI secolo, l’episodio della liberazione della principessa dalle grinfie del drago sembra essere tratto dal mito di Perseo.

[11] Il drago, secondo un’antica tradizione, si chiamerebbe così per il fatto di essersi ribellato a Dio e di aver disertato (διά τό αποδεδρακέναι). Cfr. THEOPH., Ad Autol., SC, 20, 1948, p. 168.