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Settecentenario della morte di Dante Alighieri

Ritratto di Dante (a destra, in primo piano, vestito di rosso) attribuito a Giotto. Museo del Bargello, Cappella della Maddalena, Firenze.

 

Il prossimo settembre 2021 ricorre il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. Ne vogliamo onorare la memoria proponendo un’intervista a Marcello Veneziani, apparsa sul quotidiano Il Giornale il 5 dicembre 2020, a cura di Alessandro Sansone.

Marcello Veneziani, celebrerai i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri con un libro intitolato “Dante nostro padre” (Ed. Vallecchi). È davvero lui il “padre nobile”, il “fondatore” d’Italia? E perché?

A mio parere non sono Garibaldi, Cavour o i Savoia ad aver fondato l’Italia ma Dante. Perché la nostra è nazione culturale prima che politica; l’Italia nasce dall’arte e dalla lingua, dalla letteratura e dalla geografia poetica prima che da guerre, regni, costituzioni. Perciò ho parlato di “identità italiana”. Dante ha concepito l’Italia come unità culturale e linguistica, civiltà prima che nazione, e nazione prima che stato, figlia della cristianità e della romanità.

Nel tuo saggio introduttivo definisci Dante “pensatore celeste”: cosa significa questa formula? Oltre ad essere un poeta Dante era anche un filosofo e un teologo?

Dante non fu solo poeta ma profeta, e non fu solo uomo di lettere ma pensatore e visionario. Tutta la sua opera, non solo la Divina Commedia, è frutto di una visione metafisica, spirituale e riflette non poche questioni teologiche. La definizione di pensatore celeste deriva da Marsilio Ficino, il neoplatonico che tradusse nell’italiano rinascimentale l’opera dantesca dedicata alla Monarchia (lo chiamò “volgarizzamento”) e definì Dante “per patria celeste, di stirpe angelico, filosopho poeticho”. Non si comprende Dante fuori dal suo orizzonte religioso ed esoterico, tutto il suo cammino non si spiega solo alla luce della letteratura ma della sapienza e della filosofia.

Quali erano i riferimenti culturali di Dante?

I classici della romanità, innanzitutto, da Cicerone a Severino Boezio; poi i filosofi da Platone ad Aristotele, seppure mediato dai “commentatori” arabi come Averroé e riletti tramite sant’Agostino e San Tommaso. E poi, naturalmente, c’è il milieu della sua epoca. Un ruolo speciale è assegnato a Bernardo di Chiaravalle che conduce Dante all’apice del suo viaggio in Paradiso: dopo Beatrice è lui, il santo e mistico che scrisse in lode dei cavalieri Templari, a condurlo negli ultimi tre canti del Paradiso.

Nell’antologia di brani danteschi da te raccolti una sezione particolarmente importante è rappresentata dal concetto dell’Amore. Cosa intendeva l’Alighieri con questo termine? Chi è davvero Beatrice? Dante, come sostiene qualcuno, era un “Fedele d’Amore”?

Per secoli ha dominato una visione romantica di Dante che ha esaltato il suo amore per Beatrice. In queste pagine invece riprendo la lettura che ne hanno dato Dante Gabriel Rossetti e Pascoli, e poi Valli e Guénon e de Rougemont, che dubitarono della realtà storica di Beatrice e colsero il significato platonico e metaforico dell’Amore come cammino e ascesa. Sullo sfondo è il suo legame con Fedeli d’Amore e la sua concezione dell’amore come sapienza, iniziazione ai misteri e visione del divino.

Secondo te chi è il vero capostipite della lingua e la letteratura italiana? Brunetto Latini, i poeti siciliani o proprio Dante Alighieri?

Sì, potremmo citare Dino Compagni e Guido Guinizelli, la scuola siciliana, Cavalcanti. Ma Dante dà alla lingua e alla letteratura italiana quella matura consapevolezza di sé e la collega a un disegno politico e culturale che non era presente nei suoi precursori. Perciò davvero Dante è il nostro padre. Col paradosso che Dante non ha avuto poi eredi, ma è rimasto nella sua gloriosa solitudine di precursore e iniziatore (o continuatore) di tradizione.

Nel tuo saggio analizzi anche la sua visione politica. È corretta definire Dante “ghibellin fuggiasco”?

È una semplificazione scolastica che prende spunto dalla definizione foscoliana. In realtà Dante fu un guelfo bianco sui generis ma ritenne che l’Impero, il Sacro romano impero, derivasse direttamente da Dio e non fosse il riflesso del potere papale. Dante precorre in chiave metafisica, l’autonomia della politica che poi avrà la chiave di Machiavelli, che si occupò della “fisica” del potere, pur ponendo attenzione agli Arcana Imperii. La sua è una teologia politica, o se vogliamo una “teologia civile ragionata”, per dirla con Vico. Ma c’è tutto il suo temperamento passionale, politico, la sua fierezza.