Re Artù (Arazzo dei Nove Prodi, 1385 ca.)
in Ottfried Neubecker, Wappenkunde, München, Orbis Verlag, 2002 [1998]
(Preambolo della Redazione)
Il seguente testo del Prof. Gianni Ferracuti (al quale vanno tutti i nostri ringraziamenti per averci concesso la possibilità della sua ripubblicazione) offre la possibilità di porre in sintetico ordine tutta l’evoluzione di quella complessa tradizione letterario-cavalleresca conosciuta sotto la denominazione di “Materia di Bretagna”.
La preziosità di tale lavoro risiede nell’opportunità che esso offre, a tutti coloro che intendono rispondere alla propria vocazione di Cavaliere, per assumere una miglior consapevolezza dei fondamenti e dei valori che di essa vocazione costituiscono i punti di partenza.
Pur nella grande quantità di dati che l’Autore mette a disposizione, qui non si tratta di raggiungere la mera acquisizione di un certo numero di nozioni, quanto di pervenire a quello che dovrebbe costituire l’aspetto più proprio della ‘conoscenza’: ossia, la coscienza consapevole della posizione ontologica con cui il Cavaliere si pone all’interno della Tradizione di cui egli si riconosce responsabilmente parte.
Per questo, e per tanto altro, vogliamo quindi mostrare al Prof. Ferracuti tutta la riconoscenza di Regina Equitum.
*****
Da “Excalibur“: Rivista trimestrale di storia delle religioni ed etnosocologia dell’Istituto Romano per la Ricerca Interdisciplinare ( Anno IV, n. 1-2, pp. 23-58, Gennaio-Giugno 1980)
Non a questo mondo e al suo costume io rivolgo il mio dire; le nostre vie troppo divergono. Un altro mondo intendo, che non nutre insieme, nel cuore, il dolce tormento, il dilettoso dolore, la gioia del cuore, la desiosa tristezza, la dolce vita, la triste morte, la dolce morte, la triste vita». (Goffredo di Strassburg)
INTRODUZIONE
- a) Principali orientamenti critici
Col nome di «Materia di Bretagna», nome che compare già nel Medioevo, s’intende una produzione letteraria vasta ed eterogenea che a partire dai primi decenni del XII sec. si diffonde rapidamente in tutta Europa. Tale letteratura, i cui protagonisti sono i notissimi cavalieri della Tavola Rotonda, la corte arturiana, gli eroi che partecipano alla ricerca del santo Graal o alla vicenda di Tristano e Isotta, è formata, nel suo insieme, da poemi, romanzi in prosa, ballate, componimenti epico-lirici (lais) di varia lunghezza, che mostrano una sostanziale unità tematica e caratteri perduranti, pur nelle ovvie differenze tra autore ed autore, e fra periodo e periodo. Determina il cosiddetto «ciclo bretone» proprio la presenza costante di certi temi, oltre ad alcuni elementi principali, come la concezione dell’amore, della cortesia, della avventura, della «ricerca» sovente inserita in un particolare atteggiamento dello spirito che viene fatto risalire al fantastico celtico.
Se numerose sono le fonti di questa epopea, smisurata è la letteratura critica cui esse hanno dato vita. Ciò è dovuto sia all’interesse per l’argomento, che esercita un indubbio fascino, sia alla problematica che esso ha suscitato. Sul terreno della materia bretone, esattamente come su quello del ciclo carolingio, si sono confrontate le principali scuole di filologia romanza, in una polemica vertente non solo sull’interpretazione della materia stessa, ma anche su problemi d’ordine metodologico e generale.
- All’origine delle moderne investigazioni sulla narrativa bretone si può porre l’illustre nome di Gaston Paris, col quale le teorie romantiche sull’origine delle letterature, e dell’epica in particolare, escono dalla nebulosità e dall’atmosfera di magia e mistero in cui erano state immerse dalle ricerche – più filosofiche che erudite – di Herder, Schlegel, i fratelli Grimm, e via dicendo. Infatti, Gaston Paris, pur essendo intimamente legato alle teorie romantiche, cerca di fondarle su un’erudizione talmente vasta da far considerare ancora attuali molte delle sue pagine scritte sul finire del secolo scorso.
Da un punto di vista generale, Gaston Paris non si discosta molto dalle teorie wolfiane sull’origine dell’epica, teorie elaborate nello studio dei poemi omerici, riprese, tra gli altri, anche da Vico, ed applicate da Paris alla chanson de geste del ciclo carolingio. Nella Histoire poéthique de Charlemagne[2], sostiene la teoria secondo la quale alla base del poema epico stanno delle cantilene di carattere popolare, tramandate oralmente e successivamente raccolte da un compilatore che le riunisce, le organizza, trasformandole in poema. Si tratta di una posizione teorica cui lo studioso dovrà rinunciare, anche se non mai totalmente, sotto l’incalzare della critica anti-romantica.
Per quel che riguarda in particolare la materia di Bretagna, fermo nel sostenere il ruolo della tradizione orale, egli ne affermò il carattere essenzialmente celtico:
«I romanzi bretoni sono il prodotto del contatto tra la società francese e i celti; questo contatto è avvenuto soprattutto, se non esclusivamente, in Inghilterra (…); esso risale alla conquista di Guglielmo, ma non ha avuto alcun effetto letterario prima del secondo terzo (approssimativamente) del XII secolo. In questo momento si producono contemporaneamente nel mondo clericale e in quello laico alcuni tentativi di far penetrare nella letteratura generale le tradizioni e le narrazioni proprie dei Bretoni (gallesi), rimaste fino ad allora sconosciute agli altri popoli»[3].
Gli scrittori francesi, dice il Paris, hanno dovuto lavorare su fonti orali, che hanno trasformato adattandole alla loro cultura. In sostanza, nella materia brettone troviamo due elementi, uno propriamente celtico, l’altro propriamente francese:
«Questi romans hanno tutti in comune un duplice motivo generale: l’avventura e la cortesia; il primo è un elemento di fondo e appartiene, almeno nei suoi dati primitivi, alle narrazioni gallesi; il secondo è di forma, e appartiene ai narratori francesi»[4].
Le tesi del Paris furono appoggiate anche dall’eminente celtista francese Ferdinand Lot, autore di importanti saggi relativi alla materia di Bretagna[5]. Anch’egli è mosso dal tentativo di dimostrare l’origine celtica dei temi bretoni, accettando la visione generale di Gaston Paris, ma estendendo il ruolo di tramite tra le fonti celtiche e gli scrittori francesi anche a fonti scritte[6]. In sostanza sulla scorta degli studi del Paris si forma una vera e propria corrente, che in tempi di recenti ha assunto nuovamente una grande importanza, ma che, in realtà, non si era mai estinta del tutto, neanche nei periodi di maggior voga delle tesi antiromantiche[7].
- Nel suo monumentale studio sull’origine dei poemi epici[8], il Bédier analizza e discute le teorie romantiche, sottoponendole ad una critica serrata. Egli nega il ruolo attribuito alla tradizione orale, riducendone l’importanza, e affermando invece l’intangibilità del valore dell’individuo come creatore dell’opera d’arte. La Chanson de Roland, per il Bédier, è stata quello che è stata, perché è esistito un uomo, un poeta, che l’ha creata. Nulla conta la tradizione di fronte alla genialità di questo individuo che ha trasformato dei racconti informi in un autentico capolavoro. Il poeta, dunque, spiega le genesi dell’opera letteraria: è nota la frase di Pauphilet che riassume questa concezione: «In principio era il poeta»[9].
Applicata alla materia di Bretagna, questa visione generale portò ad importanti conseguenze. Affermare la prevalenza assoluta dell’individuo, significa anche affermare la prevalenza assoluta della sua formazione culturale: non si può considerare importante il genio poetico di Chrétien de Troyes, la sua sensibilità, la sua cultura, e poi affermare che viene sottomesso ad una materia di origine celtica. La cultura di Chrétien, come degli altri scrittori del tempo, si fonda sulla tradizione latina medievale, nei cui confronti i temi celtici sono soltanto un esotismo. L’origine della materia di Bretagna va dunque cercata nella cultura latina classica.
Su questa direzione si muove Edmond Faral, autore di una delle ricerche più importanti svolte sulla letteratura del ciclo bretone[10]. Egli cerca, in sostanza, dei precedenti latini per i temi principali di carattere «celtico», nega valore probante alle testimonianze antiche ad essi non riconducibili, a volte, con intuizioni indiscutibili, ma altre volte con una certa sottigliezza che dà adito a qualche dubbio. Riguardo alla tradizione orale, il Faral studia in particolare quella giullaresca, sostenendo, come idea generale che la tradizione orale non sia creativa, ma semplicemente dovuta alla degenerazione della cultura classica[11]. Sulle orme del Faral si sono mossi molti seri studiosi di filologia romanza, soprattutto in Italia, dove le sue teorie si può dire che stiano tutt’ora dominando[12]. Non che venga negata, soprattutto negli studi più recenti, ogni componente celtica. Per il Viscardi è avvenuta una fusione tra lo spirito epico del Nord della Francia e la tradizione lirica del Sud: il primo è in un certo senso influenzato dai racconti celtici, ma questi sono assunti soprattutto come materiale esotico, fantastico, trasformato al punto di non essere più riconoscibile.
Relativamente al mito arturiano e al tema graalico, il centro in cui viene elaborata la leggenda è individuato nell’abbazia inglese di Glastonbury (tesi già sostenuta dalla prima scuola anti-romantica), che avrebbe rivendicato il suo carattere di centro della cristianità insulare identificandosi con la mitica isola di Avallon della mitologia celtica. All’azione dell’abbazia si sarebbero aggiunte leggende direttamente ispirate dalla lettura dei Vangeli Apocrifi, contenenti in particolare la storia di Giuseppe d’Arimatea[13].
- In tempi più recenti, le tesi del Bédier hanno subito una profonda revisione da parte della critica, soprattutto ad opera di Ramón Menéndez Pidal[14]. Parallelamente, anche in tema di materia di Bretagna si è verificata una rivalutazione del ruolo della tradizione orale, con il rifiorire di studi sulla natura celtica della materia. Si è detto che la concezione elaborata da Gaston Paris non era mai stata del tutto abbandonata, prova ne siano gli studi del Panvini e di Ezio Levi[15]. Però, non aggiungevano essi gran che riguardo agli studi specifici sul carattere celtico del mito bretone. Non così, invece, le opere di alcuni filologi che proprio questo carattere hanno approfondito. Si segnalano soprattutto i lavori di Jean Marx[16] e i monumentali lavori del Loomis[17]. La riabilitazione del ruolo dei celti sembra ormai essere indiscutibile, anche se occorre rilevare che, almeno al livello di questi grandi studiosi, non è mai stata dimenticata quella distinzione fondamentale, già presente nelle opere del Paris, tra il fondo dei poemi e la forma che essi assumono dopo essere stati praticamente ricreati dagli scrittori francesi.
- b) Il termine «Bretagna» e le fonti della letteratura celtica
Anticamente il termine «Bretagna» si riferiva esclusivamente all’Inghilterra, abitata da popolazioni celtiche del gruppo detto brittonico, etnicamente affini ai gallesi e ai belgi, oltre che, ovviamente, all’altra branca delle popolazioni celtiche, quella gaelica, dell’Irlanda.
Il contatto dei celti di Bretagna col mondo romano non ebbe ripercussioni profonde sulla loro civiltà, la quale era tutt’altro che barbarica. I romani non procedettero ad una profonda colonizzazione dell’isola, e l’abbandonarono ben presto, lasciando i bretoni a subire gli assalti di differenti popolazioni germaniche del continente, soprattutto degli angli e dei sassoni, contro i quali venne iniziata una resistenza plurisecolare, che lasciò tracce profonde nella cultura bretone[18].
Questi bretoni inglesi, come quelli irlandesi, passarono direttamente dalla civiltà «barbarica» a quella medievale, ad opera dei grandi predicatori che assimilarono le isole del Nord alla cristianità[19]. È questo un fatto di enorme importanza storica. La quasi totale mancanza di una civilizzazione influenzata dalla cultura romana fa sì che i popoli celti riversino nel cristianesimo, che d’altronde assumono da un punto di vista particolarissimo, pienamente rispondente alla loro sensibilità e cultura, tutto il loro patrimonio mitico, culturale, poetico e folclorico, le loro credenze, estremamente arcaiche, ma ancora, pienamente sentite in tutta la loro importanza[20].
Altri bretoni, invece, sono costretti dalle varie invasioni ad abbandonare la terra, rifugiandosi in Francia; nella Penisola Armoricana, in seguito alla loro presenza chiamata Piccola Bretagna o semplicemente Bretagna. Qui essi porteranno le tradizioni, la lingua e la cultura dei celti rimasti in patria, che si chiameranno cymry, compatrioti, e che si rifugeranno nelle zone occidentali dell’Inghilterra[21].
La cultura dei celti, come quella di ogni altro popolo etnologico e tradizionale, fu tramandata oralmente, nella mitologia, nell’epica, nel racconto, e solo a cristianizzazione avvenuta questo ricco patrimonio è stato trascritto. Ciò è accaduto relativamente tardi, intorno all’XI-XII secolo, la qual cosa toglie ai problemi di datazione di un manoscritto gran parte della loro importanza. Può accadere infatti che un manoscritto del XVI sec. riporti testi molto più antichi, anche se ovviamente in una forma rimaneggiata, e comunque non originale[22].
Tra le fonti medievali della cultura celtica, le più importanti sono:
– il Libro nero di Camarthen (Llyffyr Caerfyrddin), del XII sec.
– il Libro di Aneurin (Llyffyr Aneirin), del XIII sec.
– il Libro bianco di Rhydderch (Llyffyr gwynn Rhidderch), del XII e XIV sec.
– il Libro di Taliesin (Llyffyr Talyessin), della fine del XIII sec.
– il Libro rosso di Hergest (Llyffyr coch Hergest), del XIV sec.
Questi, testi hanno una grande importanza data la sostanziale unità linguistica e culturale delle varie popolazioni celtiche, e servono anche per integrare la quasi totale assenza di una letteratura bretone armoricana. Nella Penisola, il più recente tra i pochi testi è un poema arturiano di scarsa importanza, risalente al XVI sec., oltre ad un Mistero, pure cinquecentesco, di Saint Guennolé, dove per la prima volta è attestato tra i bretoni di Francia il mito celtico della città di Ys, evidentemente mantenuto vivo nella memoria popolare. Si tratta certamente di residui di una letteratura perduta[23], fatto spiegabile considerando che in Francia la lingua bretone non era lingua di prestigio come nel Galles, ma solo il dialetto di un gruppo di immigrati. Nei grossi centri della Penisola Armoricana non si è mai cessato di parlare il francese.
Qual era dunque il patrimonio culturale dei bretoni in Francia? Essi parlavano la stessa lingua dei loro compagni gallesi, e le loro tradizioni epiche avevano una comune origine. Non si può sostenere che alla lingua, ancora conservata pressoché intatta nel IX sec., non facesse riscontro una conservazione parimenti fedele delle tradizioni.
Ma un altro elemento d’importanza notevole viene a rischiarare il panorama delle tradizioni celtiche: la letteratura irlandese antica. Anche in Irlanda la trascrizione delle letterature orali avviene in epoca cristiana, però l’isolamento dell’isola, all’estremità occidentale dell’Europa, e il fatto che essa non è mai entrata in contatto col mondo romano, hanno permesso che fino al IX sec., cioè fino alle invasioni scandinave, essa conservasse la sua antica cultura. «E siccome, dice il Markale, tutte le grandi opere epiche erano già formate in questa epoca, è assolutamente certo che esse rappresentano una tradizione celtica autentica, che la letteratura gallese, per altro appassionante, non possedette mai in un simile grado di purezza»[24]. Malauguratamente la purezza spesso si accompagna al frammentarismo e ad un lavoro di comparazione reso difficoltoso dalla cristianizzazione, cosa che smorza un po’ gli entusiasmi del citato critico francese[25].
Di tutti questi elementi occorre tenere conto nello studio della materia di Bretagna. La questione che affronteremo per prima è quella delle origini, che verte attorno ad un’opera e ad una data chiave: l’anno 1135, in cui vede la luce la Historia regum Britanniae, di Goffredo di Monmouth. Alcuni hanno considerato questo scrittore come il creatore della materia, a cui tutti si sarebbero in seguito ispirati; altri lo hanno visto come un anello, forse il più importante, di una lunga tradizione che egli interpreta in maniera personale. In realtà, questo retore non ha inventato il personaggio di Artù, attestato da fonti precedenti l’anno 1135. Pertanto è nostro compito analizzare, prima le testimonianze precedenti, per affrontare poi la letteratura bretone successiva, separando per chiarezza il ciclo arturiano e graalico, dal ciclo di Tristano e Isotta.
CAPITOLO I
LA PROTOSTORIA DI ARTÙ
Le testimonianze arturiane in nostro possesso, precedenti l’anno 1135, sono le seguenti:
- Il capitolo XXV del De excidio et conquestu Britanniae, scritto nel VI sec. da Gildas, narra l’inizio della riscossa dei brettoni contro i sassoni che avevano invaso la Gran Bretagna[26]. La resistenza, secondo lo storico, sarebbe stata organizzata da un condottiero di nazionalità romana di nome Ambrosius Aurelianus, di cui si riportano numerose vittorie, tra cui quella, importantissima, conseguita in una località chiamata Monte Badon. Tale testimonianza, in apparenza estranea al nostro argomento, giacché Gildas non parla minimamente di Artù, appare emblematica al confronto con testimonianze posteriori.
- L’Historia Brittonum. Prendono questo nome sette opuscoli di vario argomento, il cui manoscritto più antico è quello di Chartres n. 98, scritto con una grafia risalente al IX-X sec. Tale testo appare già interpolato, ma il nucleo originale dell’opera, che risale all’800 circa, conteneva quasi sicuramente gli elementi arturiani pervenuti. I sette opuscoli, secondo la classica denominazione del Mommsen, hanno questo titolo:
– De sex aetatibus mundi
– Historia Brittonum
– Vita Patricii
– Arthuriana
– Regum genealogiae cum computo
– Civitates Britanniae
– De mirabilibus Britanniae (Mirabilia)
Nella sezione a lui dedicata, Artù appare come dux bellorum e condottiero in lotta contro i sassoni. È lui l’artefice della riscossa brettone e delle dodici vittorie che gli vengono attribuite. Tra queste, l’ottava è conseguita tenendo sulle spalle l’immagine della Madonna, e la dodicesima uccidendo da solo novecentosessanta nemici. Ciò avviene nella stessa località chiamato Monte Badon di cui aveva parlato Gildas.
Dunque, l’Arthuriana attribuisce ad Artù un fatto d’arme storicamente possibile e comunque acquisito come tale dalla cultura del tempo, che nel VI sec. era stato assegnato ad un Ambrosius di cui nessuno d’ora in avanti si ricorderà più. Nel giro di poco più di due secoli, attorno alla figura di Artù si sono coagulati elementi mitici e storici, secondo un processo di cui ignoriamo le fasi. Ciò che conta, non è sapere se qualche volta si sia veramente combattuto in un posto chiamato Monte Badon, ma il fatto che un’opera nota come quella di Gildas viene smentita proprio riguardo ad una notizia cui i bretoni, per la loro particolare condizione storica, dovevano dare una grande importanza. A questo Ambrosius, gli onori della storia sono stati sottratti da un passo dell’Historia Brittonum che non ammette possibilità di errori di lettura. Ciò può essere motivato col fatto che il prestigio di cui godeva Artù era notevole, cosa dimostrata anche dal fatto che gli viene dedicato uno spazio quasi uguale a quello assegnato a San Patrizio.
Un’altra considerazione da farsi riguarda il carattere delle imprese del nostro eroe. Non si tratta di narrazioni storiche e retoriche, ma viene delineata una figura già entrata nel mito, e in quanto tale protagonista di racconti più o meno inventati. Si è detto che l’eroe sconfigge i sassoni reggendo l’immagine della Madonna, cosa che avviene a Château Guinnion. Questo episodio trova un singolare riscontro nella Historia ecclesiastica gentis anglorum, che Beda scrisse nel 731. L’autore, che non parla di Artù, cita una sconfitta dei bretoni, inflitta loro dal condottiero Oswald, il quale vince grazie alla virtù di una croce che egli stesso pianta nel terreno (libro 11: 1,2). Ciò avviene a Nord-Est della città di Hexam, nei pressi di Newcastle, cioè nella stessa zona in cui si situa la vittoria di Artù con l’immagine della Madonna. Si tratta di una variante dello stesso tema, però narrata dalla parte avversaria. Una variante dello stesso episodio, più vicina all’impresa di Oswald, è narrata negli Annales Cambriae, dove Artù vince reggendo una croce. Il fatto è situato nell’anno 516.
- Gli Annales Cambriae sono stati aggregati all’Historia Brittonum nel X sec., e contengono la menzione di un altro importante episodio della storia di Artù, la battaglia di Camlan tra l’eroe e suo nipote Medraut (Mordred), che nel testo viene situata nel 537. Questa menzione appare d’importanza notevole, anche se il carattere del testo renderebbe possibili interpolazioni, la notizia è infatti data in forma estremamente laconica secondo lo stile dell’annalistica. La dipendenza della notizia da Goffredo di Monmouth é tutt’altro che dimostrata.
- Nel 1113, Ermanno di Tournai, nei suoi Miracula Sanctae Mariae Laudunensis, fornisce un’altra importante indicazione attestando la credenza che Artù non fosse morto. Dice infatti[27] che alcuni chierici, cercando fondi per la ricostruzione della Chiesa di Santa Maria distrutta nell’anno precedente, arrivarono nella provincia che «vocatur Donavexeria, ubi ostenderunt nobis cathedram et furnum illius famosi secundum fabulas britannorum regis Arthuri». E più avanti: «Dicens adhuc Arthurum vivere»[28]. Questo testo, il più importante forse tra quelli trattati, non può in ogni caso essere considerato privo di valore. La sola possibilità di confutarlo consiste nel considerarlo un’interpolazione procedente da Goffredo, ma contro questa ipotesi stanno le seguenti considerazioni: a) nel testo si parla di fabulas, termine che non può riferirsi all’opera di Goffredo. La fama di re Artù dipende strettamente da queste fabulas, e non da un testo scritto, per di più da un testo di storia; b) l’interpolazione non si giustifica, è una notizia, data parlando quasi incidentalmente, riferita come curiosità più che come notizia di fonte erudita; c) si inserisce perfettamente nel contesto delle testimonianze in nostro possesso. Si noti ancora che il termine fabulas si riferisce alle imprese di Artù, non alla sua permanenza in vita, di cui l’autore parla in seguito. Queste imprese, evidentemente, non erano state ancora consacrate dall’opera di un erudito che le trasferisse sul piano della storia: non va dimenticato che Goffredo scrive una Historia con tutti i crismi che nel medioevo tale genere letterario doveva possedere.
- Un poema gallese di data incerta, ma secondo molti commentatori risalente all’IX-X sec., il Kulhwch e Olwen[29], ci presenta Artù come sovrano universale, alla cui corte gravitano vari personaggi che torneranno nei poemi francesi. Alle incertezze sulla data fa riscontro l’unanimità con cui i critici hanno considerato il poema molto vicino alla materia celtica. Tra i nomi di cavalieri tramandati, compaiono Kai, Bedwir (franc. Béduier), Edern figlio di Nudd, e Llwch Llawwynnyawc, o Llenleawg. Questi ultimi nomi sono incarnazioni del dio celtico Lug (Llwch) e, secondo una traduzione, il primo significa «Lug dalla mano bianca», cioè portatore della lancia. Siccome Lug significa lago, il nome equivarrebbe a quello di Lancillotto del Lago[30]. Ugualmente incarnazione del dio Lug sarebbe il secondo personaggio, dal quale Ferdinand Lot fa derivare Lancillotto. Questo personaggio del romanzo è di origine gaelica, come il padre di Lancillotto nei testi francesi, della regione del Ganion o Garnen, corrispondente ai nomi Gaunes o Gamen della letteratura francese. Corrispondente è anche il nome del re Bohort, che regna su tale terra, padre di Ban, a sua volta padre di Lancillotto[31].
La trama mostra il carattere fondamentale dei racconti celtici: una spedizione nell’Altro Mondo alla ricerca della fanciulla Olwen, piena di episodi fantastici e meravigliosi, tra cui la caccia di Artù al mitico Cinghiale Troitus, descritta anche nell’Historia Brittonum.
- Un altro poema gallese, il Mabinogi di Annwn, del X sec., attribuito al bardo Taliesin, parla di Artù. L’autore racconta d’averlo accompagnato durante una spedizione contro una fortezza fatata, conclusasi con la conquista di un oggetto magico. Si tratta ancora di una spedizione nell’Altro Mondo, tema consueto della narrativa celtica. Contemporaneamente all’acquisizione di un ruolo di primissimo piano nella mitologia celtica, la figura di Artù sembra diventare importante anche nel campo del folclore. Nei Mirabilia si raccontano parecchi episodi, tra cui la caccia al cinghiale Troitus durante la quale il cane di Artù lascia le sue impronte sulla roccia. Si dice anche che le pietre, sulla cui sommità si trova la roccia con le impronte, portate lontano dal loro posto hanno la proprietà di ritornarvi. È un episodio stupefacente quanto quello del sepolcro di un figlio di Artù, che non misura mai le stesse dimensioni
- Un panorama diverso attestano invece alcune vite di santi conservate da un manoscritto risalente al 1120. Nella Vita sanctis Cadoci il re è citato due volte. Nel primo episodio, assiste al rapimento di una fanciulla di cui viene preso d’amore al punto che vorrebbe lui stesso rapirla ed è trattenuto dai compagni. Nel secondo, san Cadoc non vuole consegnarli un brettone che si è rifugiato presso di lui, e che è reo di omicidio. Si giunge ad un processo in cui il santo paga il risarcimento richiesto dal re operando un miracolo. Nella Vita sancti Paterni, il re vorrebbe impossessarsi di un abito talare che il santo ha portato da Gerusalemme, ragion per cui il santo lo riconduce alla ragione facendolo sprofondare nella terra fino al collo. Nella Vita sanctis Carantoci, Artù aiuta il santo solo dopo che questi si impegna a rintracciare un pericoloso drago che vive nella regione, cosa che il santo compie aggiungendo il miracolo di ammansire la bestia.
Queste testimonianze dell’agiografia sono singolari e sembrano presentare un tentativo da parte della Chiesa di sottomettere la figura di Artù. In ogni caso esse insistono sull’esistenza di un contrasto con la Chiesa, il che ci spinge a qualche considerazione. Questo carattere di ribellione alla Chiesa deve per forza appartenere ad un periodo precedente quello in cui Artù è, in un certo senso, favorito da Dio, cosa che avviene, ad esempio, quando ottiene la vittoria con l’aiuto della croce. Questo episodio, non si dimentichi, è una mistificazione che ricalca il testo di Beda, e che era impossibile solo se il «mistificatore» poteva contare su un carattere del personaggio Artù non in contrasto con la sua invenzione. Vale a dire un re che non fosse in rapporti troppo tesi con la Chiesa.
- Nel 1125 lo storico Guglielmo di Malmesbury, deve essersi accorto della discordanza tra Gildas, che parla di Ambrosius, e gli Annales Cambriae che parlano di Artù. Cercando di risolvere la questione, c’informa che la resistenza brettone era stata organizzata dall’unico romano sopravvissuto, Ambrosius, aiutato da un soldato di origine brettone, Artù. Ma la sua opera, Gesta regum anglorum, è importante perché, parlando del re, Guglielmo aggiunge: «Hic est Artur de que Brittonum nugae hodieque delirant» (I, 8). Egli attesta ancora l’esistenza di tradizioni relative a Galvano, parlando del ritrovamento della tomba del cavaliere, e aggiunge: «sed Arturius sepulchrum nusquam visitur, unde antiquitas naeniarum adhuc eum venturum fabulatur» (III, 287).
Questa attesa di Artù da parte dei bretoni era così radicata da diventare proverbiale. In una lettera scritta da Pierre de Blois, ma siamo ormai nel 1150, la si cita per parlare di un’attesa che non avrà mai fine: «sicut Arturum Britannia»[32]. Questa frase non si basa sull’opera di Goffredo, ma su una diffusa credenza popolare, trasferitasi nel linguaggio come luogo comune. Anche tralasciando di considerare il fatto che l’opera del retore è diretta ai dotti, e non al popolo (mentre le fonti parlano sempre di credenze popolari), è assolutamente impossibile pensare che essa sia stata sufficiente a ridestare a livello popolare la credenza nel ritorno di un re vissuto secoli prima. Che si tratti di un modo di dire è attestato anche da un’altra testimonianza, quando nel 1137 un trovatore, parlando della sparizione di un re in Bretagna, dice che egli è «scomparso come Artù»[33]. Ancora, nel 1141 o 1142 è attestata l’esistenza di una narrativa a livello popolare, quando il maestro di un’abbazia nello Yorkshire, Ailred, parla di un novizio che si rimproverava per la scarsa pietà che in lui suscitavano le pie scritture, nonostante fosse commosso ogni volta che ascoltava storie arturiane: «Fabulas quae vulgo de nescio quo finguntur arcturo»[34]. È interessante qui notare il fatto che maestro Ailred, che è un dotto, ignora chi sia Artù, o comunque ne trattava con disprezzo la sua figura.
Queste testimonianze, affermazioni incidentali e fonti storiche, sono sufficienti a mostrare che la figura di Artù ha certamente un’origine remota e perviene a Goffredo in forma popolare e attraverso la storiografia ufficiale.
CAPITOLO II
L’HISTORIA REGUM BRITANNIAE
La prima opera di Goffredo di Monmouth ha per argomento le Profezie di Merlino, porta appunto tale titolo, e in seguito viene incorporata alla Historia. Scrivendola su sollecitazione del vescovo di Lincoln, l’autore dichiara di fondarsi su un libro brettone di cui darebbe la traduzione, affermazione che ha lasciato scettici i critici, perché non trova riscontro nei testi in nostro possesso. Vero è che l’assenza di testimonianze non dimostra gran che, dal momento che non sono rari i casi di opere importanti scoperte senza che neppure se ne sospettasse l’esistenza (si pensi soltanto all’epica spagnola, di cui sono stati perduti centinaia di testi, e di cui si era negata l’esistenza).
Nelle Profezie, il nome completo del mago è Ambrosius Merlinus, il che richiama un altro Ambrosius dell’Historia Brittonum, in grado di spiegare i fenomeni più misteriosi ed interpretare i presagi dell’avvenire. Su tale personaggio è ricalcato il nostro incantatore, anche se misteriosa resta l’origine del suo nome.
Merlino è il protagonista di un’altra opera di Goffredo, la Vita Merlini, scritta in latino, ma fortemente influenzata dalla letteratura gallese. Pur se la filologia non può dire molto riguardo a questo testo, esso presenta ricordi di antiche tradizioni che affiorano nei particolari e nelle descrizioni. È stato segnalato, ad es., che l’esistenza di quattro eremiti descritta dall’autore ricalca fedelmente la vita condotta nei monasteri cristiani dei paesi celtici nell’epoca in cui il cristianesimo stava penetrando nelle isole britanniche[35].
L’opera più importante del nostro retore è comunque l’Historia regum Britanniae, del fatidico 1135. Qui, per la prima volta la vicenda arturiana è raccontata estesamente dall’inizio alla fine. Egli ne appare anzi il personaggio principale, quello su cui più ci si sofferma, in un’opera che narra anche le vicende di personaggi storici, proprio perché si trattava di un eroe «dont la tradition faisait le plus puissant des rois»[36]. Ciò non avviene perché su di lui esercita la fantasia (perché mai l’autore non doveva esercitarla anche su altri suoi personaggi?) ma perché sull’eroe si era accumulata una quantità enorme di materiale.
La vita di Artù è singolare, già dal suo concepimento. Re Uther, suo padre, è infatti innamorato di Ingern, moglie di un suo vassallo, al quale dichiara guerra per questioni di cuore. Egli riesce a possedere la donna con l’aiuto di una magia di Merlino, che lo trasforma nelle sembianze del legittimo marito di Ingern. La morte provvidenziale del vassallo permette di regolare la truffaldina relazione con un matrimonio che salva Artù dal destino di bastardo. Tutte le imprese di Artù, che succede al padre morto avvelenato, vengono narrate, compresa la vittoria ottenuta grazie all’immagine della Vergine. Questo episodio è rivelatore del carattere di Goffredo. Sappiamo che, secondo le testimonianze antiche, il re vince tenendo sulle spalle la statua della Madonna. Qui, invece, la Madonna è soltanto dipinta sullo scudo del re: l’evento miracoloso è ricondotto, in un certo senso, nei limiti della ragione, è spogliato dell’elemento mitico e magico; non si esclude l’intervento divino, ma lo si ammette come una possibilità. Fine dell’autore non è quello di lanciare Artù nel mondo del romanzo e della fantasia, ma di sottrarlo proprio a questa dimensione. Se mito deve essere presente, esso va ricercato nelle fonti classiche. Così ecco che, quando muore Uther, una cometa solca il cielo, similmente a ciò che avviene alla morte di Cesare: si crea un paragone, un raffronto tra due personaggi che, attraverso l’uso di formule classiche, fa risaltare l’importanza del brettone. Questi erano infatti i mezzi che Goffredo aveva a sua disposizione se voleva far comprendere ad un pubblico colto la grandezza della figura di Artù[37].
Dopo varie imprese, e una pace di dodici anni, Artù invade l’Europa dopo essere entrato in guerra con i romani, che vengono sconfitti. In particolare è da segnalare una battaglia risolta con un duello tra il re e il tribuno dell’imperatore romano Flollo, di cui si sottolinea l’imponente statura. È ancora un’evidente razionalizzazione di un tema mitico, quello del combattimento tra l’eroe e il gigante. Durante una seconda spedizione in Europa avviene il tradimento di Mordred che costringe Artù a tornare in patria e ad impegnarsi in una cruenta guerra civile. Alla fine, nella battaglia di Kamblan, il traditore muore, ma il re rimane gravemente ferito. La sua sola speranza di guarigione consiste nell’essere trasportato nell’isola di Avallon, cosa che avviene nello anno 542, quando tornano i giorni tristi per la Bretagna.
Il ruolo che l’isola di Avallon svolge nella vicenda arturiana, dato il suo contenuto mitico, è importantissimo. Nel cap. 177 Goffredo dice esplicitamente che Artù vi viene trasportato per guarire: «Inclytus rex Arturus letaliter vulneratus est, qui illinc ad sananda vulnera sua in insulam Avallonis evectus». Di questo luogo aveva già parlato in precedenza, affermando che ivi era stata costruita la spada Excalibur: «Accintus etiam Caliburno gladio optimo, et in insula Avallonis fabricato» (cap. 147). Secondo il Faral, l’isola, che appare qui nominata per la prima volta, è stata inventata da Goffredo, e il suo nome è da interpretare con il nome del suo proprietario, Avallach, Avalloc nella traduzione dei monaci dell’abbazia di Glastonbury.
Goffredo ne parla ancora nella Vita Merlini, del 1148: la descrive come isola meravigliosa, isola dei frutti o fortunata, senza però citarne esplicitamente il nome Avallon in questa occasione. Avverte però che in essa vive Morgana, la più anziana di nove sorelle. Essa conosce le virtù medicinali, sa volare sull’aria e indovinare il futuro. Nell’isola gli uomini vivono più di cento anni, e in essa, si dice, è trasportato Artù ferito, con la guida dell’esperto navigatore Barinthus, ricevendo da Morgana l’annuncio della sua futura completa guarigione.
Il Faral, fedele alla sua impostazione, ha ricercato le possibili fonti classiche di quest’isola, fornendo delle segnalazioni che risultano importanti anche per chi dà un’interpretazione diversa della materia di Bretagna. Egli cita sant’Isidoro, che nelle Etimologiae (XIV, 6-8) parla delle isole fortunate: «unde gentilium error et saecularum carmina poetarum propter coeli faecunditatem easdem esse Paradisum putaverunt. Sitae sunt in Oceano». Pomponio Mela ne aveva già parlato nel De situ orbis (III, 16), chiamando l’isola con il nome di Sena: «Sena, in Britannico mari, ocismieis adversa litoribus, Gallici numinis oraculo insignis est. Cuius antistites, perpetua virginitate sanctae, numero novem esse traduntur: Gallicenas vocant, maria ac ventos concitare carminibus, seque in quae velin animalia vertere, sanare quae apud alios insanabilia sunt, scire ventura et praedicare, sed nonnis deditas navigantis, et in id tantum, ut se consulerent profectis».
Sia detto incidentalmente, qui Pomponio non sta facendo opera di fantasia né enuncia costumi latini. Parla di un’isola situata nel mare britannico, celebre per la presenza di un oracolo di una divinità gallese. Si tratta di tradizioni (traduntur) estranee al mondo latino, ma perfettamente conformi alla materia celtica che esaminiamo.
A parte queste citazioni, Guglielmo di Malmesbury fornisce una doppia etimologia del nome dell’isola: Insula Pomorum e isola di Avalloc. La seconda etimologia prende il nome dal dio celtico Avalloc, il cui regno è analogo al castello delle pulzelle nella narrativa brettone[38].
Se Goffredo è il primo a citare l’Avallon, non è però il primo a parlare di Morgana, attestata anche in un testo a lui precedente, del X-XI sec., che, chiamandola «Nata dal Mare», ne fa uno dei personaggi principali di una variante del mito celtico della città di Ys, sommersa dalle acque[39]. Né va dimenticato che, a parte il nome, la letteratura celtica ci offre parecchie descrizioni di isole fortunate, soggiorni ultramondani. La più nota è quella della Navigatio sancti Brandani, il santo che viaggia alla ricerca del Paradiso, che secondo un’ipotesi verosimile sarebbe una versione cristiana del viaggio del condottiero celtico Brân che per secoli vive felicemente nella terra delle fate senza accorgersi del passare del tempo e senza invecchiare[40]. Una variante di questo mito si trova nella navigazione di Maelduin, il cui racconto contiene la descrizione di un’isola da cui sono colti tre pomi che hanno il potere di nutrire i naviganti per quaranta giorni[41], cosa che richiama l’etimologia di Avallon come Isola dei Pomi.
Una terza etimologia del nome dell’isola permette di identificare un’altra prefigurazione dell’Avallon. La fornisce Guglielmo di Malmesbury affermando che il nome significa Insula Vitrea. Ora, nell’Erec et Enide, che utilizza fonti non sempre conosciute, è presente un’isola di vetro il cui re è Maheolas, nome fatto derivare dal celtico Maelwas, sovrano del regno dei morti[42]. Tale descrizione di soggiorno ultramondano presente in Chrétien non deriva da Goffredo, e il richiamo al carattere vitreo è troppo preciso per interpretarla come una fantasiosa invenzione dello scrittore francese.
Ancora, va sottolineato che l’accompagnatore di Artù nell’Avallon, Barinthus, è lo stesso che rivela a San Brandano l’esistenza dell’isola delle delizie. Il concetto di Avallon appare allora molto antico. Sempre, con esso viene raffigurata l’Altro Mondo, accessibile all’eroe nella mitologia celtica. Un sostrato culturale appare costantemente nell’opera di Goffredo, scarsamente mascherato dalla superficiale latinizzazione del tema. Si ha l’impressione che, tutto sommato, egli «era rimasto estraneo allo spirito della leggenda arturiana come era sentita nei racconti popolari e come emergerà nella fioritura di opere a soggetto arturiano della letteratura francese»[43]. Tutto ormai concorre nel dimostrare che non è stato lui a creare il personaggio di Artù, il cui nome compare nel VII secolo in un poema attribuito al bardo Aneurin, che lo considera come un guerriero già famoso.
In conclusione non resta che accennare a testimonianze singolari la cui origine è destinata a rimanere ignota. La prima ci viene dall’onomastica, non tanto per ciò che riguarda le citazioni di Artù come persona, risalenti sempre ad un periodo a cavallo tra il VI e il VII secolo, quanto piuttosto quelle di personaggi storici chiamati Artù, come riferimento al nome del leggendario re. Un’indagine effettuata a suo tempo da Pio Rajna[44] accertò la presenza di questo nome, di origine celtica e poco diffuso prima di Goffredo, in Italia in date incredibilmente remote. Tra le tante citazioni e presenze in documenti ufficiali, spicca quella di un Artù in un testamento a Padova nel 1138. Ad essere precisi, in questo documento compaiono ben tre Artù, ma uno di essi firma come testimone un atto del 1122, anno in cui aveva un figlio che firma anch’egli come testimone e che, pertanto, doveva avere almeno quattordici anni. Anche attenendosi a tempi strettissimi, l’Artusius in questione doveva essere stato battezzato nel 1090. La sua firma è attestata dodici volte sempre in lezioni sicure e in documenti autentici[45].
Un altro elemento ci è fornito dal primo traduttore francese dell’opera di Goffredo, Robert Wace, che introduce nel testo del retore gallese la Tavola Rotonda, di cui mai si era trovata traccia in opere scritte, dicendo con chiare parole che di essa «Bretun dient mainte fables» (v. 9752), cioè affermando la provenienza della tavola dalla tradizione orale. Wace conferma anche che i brettoni attendono ancora il loro re (cfr. v. 13.280).
Un’ultima testimonianza è data dalle sculture della cattedrale di Modena, iniziata nel 1099 e terminata nel 1106. Essa conserva un rilievo di argomento arturiano quasi certamente progettato sin dall’inizio dei lavori. Come sostenne Leonardo Olskchi, il piano decorativo della cattedrale è regolato da leggi di simmetria in cui «si riconosce chiaramente l’intenzione degli artefici di incorniciare, quasi, l’epopea biblica con quella agiografica, da un lato, e con quella profana dall’altro»[46]. Si tratta di un bassorilievo che narra la storia del rapimento della regina Ginevra secondo una versione molto diversa da quella conosciuta da Goffredo, versione che si ritrova nel romanzo duecentesco Durmart[47], ma di cui non sappiamo l’origine. Interessante è notare che nella scultura compaiono i nomi dei personaggi scritti secondo grafia brettone armoricana, cosa spiegata dal Loomis col fatto che in Italia era presente un contingente armoricano che partecipò alla crociata[48]. Quest’ultima testimonianza mette in discussione molti dei nostri pregiudizi relativi all’importanza del documento scritto e cronologicamente databile, nonché della ricerca di fonti sempre immediate, sempre indiscutibili. Il mosaico delle testimonianze arturiane dimostra con la sua sola presenza che la letteratura brettone è epopea viva, che si tramanda nelle generazioni e si modifica di volta in volta. Canto che appartiene a tutto un popolo, essa finisce con l’esprimere tutto il senso della vita, le credenze, le aspirazioni di un popolo in lotta per la sopravvivenza, ma orgoglioso del suo passato e delle sue tradizioni.
CAPITOLO III
LA MATURITÀ DELLA MATERIA DI BRETAGNA
I romans di tipo brettone sono il risultato del contatto tra due culture per molti aspetti diverse, la francese e la celtica, contatto avvenuto in terra inglese, più che armoricana. La penetrazione dei temi celtici in Francia avviene sia attraverso la spinta di uomini di cultura come Goffredo o Guglielmo di Malmesbury, sia attraverso l’opera di giullari brettoni che percorrono l’Inghilterra e la Francia recitando composizioni bevi epico-liriche, dette lais. Quando questa materia perviene ai poeti francesi, questi hanno raggiunto un livello artistico o culturale eccezionale, le grandi personalità si sono affermate, tende a scomparire l’anonimia delle origini, e soprattutto esistono un gusto, una cultura, un insieme di ideali attraverso il quale viene filtrata la materia brettone. Questa diventa così lo strumento di diffusione degli ideali dell’amor cortese oppure, con l’accentuazione dell’elemento mitico, serve da fondamento alla sistemazione della vicenda universale che ha per centro il santo Graal:
«Il mondo delle leggende – sono parole di Reto Bezzola – prolunga in un modo cristianizzato una tradizione che originariamente era assolutamente estranea alla latinità. La conservazione di una letteratura profana di spirito pagano, nei paesi celtici e nordici, è dovuta soprattutto al posto eminente che essa occupava nelle corti dei re. Le letterature irlandesi e nordiche offrono anche l’interesse capitale di non subire l’influenza decisiva della letteratura latina e del cristianesimo, da cui si conservano praticamente indenni»[49].
Ciò è possibile grazie anche al particolare sviluppo letterario dell’Inghilterra. A parte i caratteri particolari del cristianesimo celtico, dovuti alla conversione in massa dei druidi[50], c’è da considerare che nell’isola nasce una letteratura nazionale quando ancora le antiche tradizioni non sono morte. Le prime opere datate compaiono infatti verso la fine del VII sec., non oltre cento anni dopo la conversione dei sassoni e degli altri popoli germanici. I primi chierici componevano spesso versi nella lingua volgare, abbandonando occasionalmente il latino con molto anticipo rispetto a ciò che avverrà nell’area romanza, come è il caso di Aldelmo, vissuto tra il 650 e il 709[51]. Nel Galles esistevano narratori detti cyvarwyddon, che vivevano presso le piccole corti in cui si era concentrata la resistenza contro i sassoni, prima, e contro i francesi poi. Si può concordare con quanto afferma Jean Marx, che grazie a loro molte narrazioni tradizionali si sono organizzate in lunghi racconti:
«Il mondo celtico vi aveva rintracciato le figure e i temi perenni delle sue saghe: le infanzie segrete degli eroi, le loro avventure, la cerca di oggetti meravigliosi dell’altro mondo, talismani di abbondanza e di sovranità, le visite nel palazzo fatato dei re di questo stesso mondo, la solidarietà tra il mondo dei viventi e il mondo incantato, ciascuno dei quali fa appello all’altro»[52].
Questi narratori svolgono un ruolo importantissimo, insieme al contatto col mondo bizantino e all’introduzione dei Vangeli Apocrifi, nelle origini letterarie della materia di Bretagna.
Maria di Francia
Di origine francese, Maria visse in Gran Bretagna alla corte dei Plantageneti. Fu in relazione con Eleonora d’Aquitania, animatrice di un centro letterario da cui si diffusero molti temi bretoni.
Eleonora, nipote di Guglielmo IX, il primo trovatore, era una donna di notevole cultura e versatilità. Sposò prima Luigi VII re di Francia e, in seconde nozze, Enrico II d’Angiò, che nel 1154 divenne re d’Inghilterra. Alla sua corte avvenne la fusione tra lo spirito lirico del Sud della Francia e lo spirito epico del Nord, che dà origine al romanzo cortese. Presso di lei soggiornarono i nomi più illustri della letteratura brettone, come Wace, Thomas, Chrétien[53].
Di Maria di Francia si hanno scarsissime notizie. Oltre ad una sua traduzione in versi francesi dell’Ysopet (raccolta di favole anglosassoni derivate a loro volta dal latino) la sua fama è legata al genere dei Lais[54], dove la sua voce raggiunge un alto valore letterario, e in cui si manifestano il suo carattere e la sua cultura di carattere clericale, nel senso medievale del termine. Maria descrive un mondo e un’atmosfera i cui toni vagamente melanconici e dolcemente fantastici rispondono ai moti di un’anima estremamente delicata e sensibile, «teneramente appassionata, ma non tormentata e sconvolta dall’urto delle passioni»[55].
La tradizione le attribuisce una ventina di lais, non tutti di origine o carattere brettone. La materia narrativa è anzi molto varia, giacché il lai, per la sua stessa struttura, si presta al racconto fiabesco[56].
Chrétien de Troyes
Chrétien è unanimemente considerato il grande artefice della sintesi tra lo spirito provenzale, lirico, e quello epico, sintesi da cui ha origine il romanzo cortese[57]. La sua figura è legata al centro culturale che faceva capo ad Eleonora d’Aquitania e a sua figlia Maria, sposa del Conte Enrico di Champagne nel 1164, presso la cui corte il poeta soggiornò a lungo. Abbiamo scarse notizie sulla sua vita, e le opere presentano complessi problemi di cronologia. Secondo le teorie più accreditate, egli scrisse tra il 1150 (Ovidiana) e il 1196 (Perceval). L’elenco completo delle opere dovrebbe essere il seguente: Ovidiana, Guillaum d’Angleterre, Roi Marc et Iseut (?), Erec et Enide, Cligés, Lancelot, Yvain, Perceval. Secondo quest’ordine, l’arte di Chrétien passa dai primi tentativi legati alla scuola clerical-classicheggiante e alla narrativa di argomento classico, all’agiografia romanzesca (Guillaume) e successivamente alla materia brettone e arturiana della maturità, con un tentativo, per altro abbandonato, di fondere Bretagna e classicismo (Cligés). Tale evoluzione è forse dovuta all’influenza di Eleonora, ai suoi viaggi in Inghilterra e ai rapporti, nell’ultima parte della sua vita, con Filippo d’Alsazia, da cui ricevette l’argomento del Perceval.
Tralasciando ogni considerazione sulle opere perdute, sul Guillaume (materia agiografica narrata con toni veristici, relegando il meraviglioso ai margini della storia, e collocata nella tradizione del romanzo bizantino in cui il meraviglioso è più che altro nella concatenazione degli eventi) e sul Cligés, esaminiamo brevemente i testi arturiani.
Erec et Enide
La trama del primo romanzo arturiano di Chrétien è costituita dall’intreccio di più vicende che hanno per protagonista l’eroe Erec[58]. Sostanzialmente essa narra: a) il costume del cervo bianco restaurato da Artù; b) la conquista del falcone da parte di Erec; c) il suo matrimonio con Enide, l’abbandono della cavalleria e il ritorno alle armi; d) la conclusione del romanzo, con il superamento della prova della «gioia della corte» e la sua incoronazione a re. In obbedienza al gusto del romanzo classico, gli argomenti si intrecciano tra loro e si mescolano anche con storie che nulla hanno a che vedere con la Bretagna. La vicenda di Erec assimila fatti storici e leggendari che hanno per protagonista un Guerec realmente vissuto, che tra l’altro svolse una politica ostile ai bretoni[59].
La vicenda del cervo bianco si fonda su uno schema mitico iniziatico che non è stato il poeta francese ad inventare. In sostanza, viene bandita una caccia al cervo, l’uccisore del quale conquisterà il bacio della dama più bella della corte. Il cervo, qui come altrove, conduce alla donna svolgendo la funzione di animale mitico, che a volte assume i tratti di psicopompo, attestata nella religione celtica oltre che nell’antichità classica. Nell’economia del poema, l’avventura del cervo serve a chiarire la dignità di Erec come eroe restauratore, preparando, e in un certo senso giustificando, l’apoteosi finale. Nel superamento della prova della gioia della corte viene simboleggiata l’idea fondamentale dei romanzi bretoni della restaurazione, del nuovo avvento dell’età aurea dovuto all’impresa di un predestinato che sana gli effetti del “colpo doloroso”. Questo è a sua volta simbolo di una limitazione dell’autorità, di una usurpazione, di una violenza fatta all’ordine normale. È soprattutto nei romanzi graalici che la connessione tra colpo doloroso, sterilità della terra e rinascita troverà una sistemazione definitiva ed organica.
Come si è accennato, le fonti del poema sono parzialmente sconosciute. Non tutto dipende da Goffredo, anche per esplicita asserzione dell’autore, che nel prologo difende la veridicità della sua versione da altre correnti e corrotte che, a quanto ci dice, i giullari son soliti raccontare.
Lancelot
Più complesso è il discorso relativo al Lancelot, o Le conte de la charrette, rimasto incompiuto e portato a termine da Goffredo di Lagny[60]. L’argomento è stato suggerito da Maria di Champagne e l’autore afferma di servirsi di un testo precedente. In effetti, secondo Gaston Paris, un romanzo francese su questo personaggio dovette essere esistito, e di esso si servi Ulrich von Zatzikhoven per il suo mediocre Lanzelet[61].
Interamente costruito sulle vicende del noto cavaliere e della regina Ginevra (Guenièvre), al cui rapporto aveva già alluso Goffredo, esso mostra il complicato susseguirsi di vicende legate al tema di un rapimento della regina ad opera di Méléaguant e del tentativo di Lancillotto di liberare l’amata. Secondo Paris, l’idea di fare dei due protagonisti due amanti è tardiva e non appartiene alle tradizioni bretoni primitive né alla narrativa orale celtica. Méléaguant sarebbe infatti Maelwas o Melwas, che rapisce la regina in numerosi racconti gallesi. Egli sarebbe il re della terra dei morti[62], cioè di una prefigurazione dell’Avallon. Una testimonianza risalente agli ambienti di Glastonbury sembra confermare la tesi secondo cui, come nei racconti gallesi, in origine non è Lancillotto che libera la regina, ma Artù. Nella Vita Gildae si dice che Ginevra (Guennuman), rapita da Melwas, viene condotta a Glastonbury (nome che sostituisce quello più antico di Isola di Vetro, cioè Avallon), da dove Artù la libera[63].
Le trasformazioni che la vicenda subisce indicano chiaramente che il ruolo dei celti non esclude l’azione profonda dei poeti francesi, ma al contrario, la postula. Esiste un rapporto continuo tra l’origine della materia e il suo sviluppo, e l’origine spesso serve a spiegare particolari, immagini, episodi che non avrebbero senso se relazionati soltanto con la cultura francese. Ad esempio, senza ricorrete al carro che nella mitologia celtica conduce al regno dei morti, non si può spiegare la presenza e il carattere del carro nel Lancelot di Chrétien.
A parte i debiti con la tradizione, il romanzo è comunque molto importante. In esso viene codificato in maniera definitiva il codice d’amore cortese, che Gaston Paris definì con una formula classica:
«L’amore è un’arte, una scienza, una virtù che ha le sue regole esattamente come la cavalleria o la cortesia, regole possedute e applicate meglio nella misura in cui maggiormente si progredisce, e alle quali non si può in alcun modo venire meno, sotto pena di essere giudicati indegni»[64].
Si tratta di una concezione che non nasce all’improvviso, ma ha dietro di sé una lunga elaborazione. Nessuno meglio di Chrétien poteva trasferirla in un romanzo, proprio perché in lui il mondo cortese trovava la sua migliore espressione: per i suoi precedenti ovidiani, per la sua cultura classica, per il suo senso di una realtà ideale e cavalleresca che si sovrappone alla realtà quotidiana.
Yvain
Con l’Yvain, o Le chevalier au lion, il poeta si dimostra veramente padrone della materia, che elabora in un modo estremamente personale[65]. Il vero protagonista della vicenda non è infatti l’eroe, ma quell’amore che si era già imposto nel mondo letterario col romanzo precedente, e che ora è inteso quasi in chiave mistica. L’amore, la cortesia, l’onore cavalleresco appaiono come i vertici di un vero e proprio culto riservato ad una élite che si manifesta con atteggiamenti che non di rado ricordano il mondo provenzale o anticipano quello stilnovista. Il centro di questa vicenda, in cui la Bretagna offre solo un contorno, uno schema narrativo, si situa nella foresta di Brocelandia, che, nonostante tutto, conserva ancora i tratti di un vero e proprio passaggio pericoloso, cioè di un passaggio che porta all’Altro Mondo. Questo è rappresentato da una fortificazione al centro di una landa, appena fuori dalla foresta, circondata dai consueti simboli del regno ultramondano, in particolare da un fossato così vasto e profondo da configurare il castello come isola. Nei paraggi è situata una fontana, contro il cui misterioso custode è d’obbligo combattere. In questa prova Yvain riesce naturalmente.
Il Perceval e le continuazioni
Il Perceval, o Li contes del Graal, è l’ultima opera di Chrétien, rimasta interrotta a causa della morte del poeta[66]. Con essa la storia della materia di Bretagna volta pagina, subisce un netto cambiamento sia per quanto riguarda la tematica, sia per la spiritualità. D’ora in avanti il Graal diventerà l’argomento principale trattato; dalla narrazione di vicende profane, in cui tutto sommato il movente immediato è puramente letterario, si passa al recupero di una sacralità profonda, che paradossalmente non si libera del patrimonio celtico, ma anzi lo assume in un contesto cristiano grazie al suo confluire in un ambiente spirituale aperto al misticismo, alla lettura in chiave interiore dei simboli e delle allegorie, nonché aperto anche agli apporti che vengono dall’Oriente, come i Vangeli Apocrifi, le reliquie riportate dai crociati, ecc.
Indipendentemente o meno da un’esplicita volontà di Chrétien, d’ora in avanti le avventure degli eroi arturiani abbandonano il terreno della fantasia: l’ideale perfetto del cavaliere si configura nei tratti dell’alter Christus, l’avventura diviene una ricerca spirituale, ascetica, in cui l’oggetto ultimo da rintracciare, in definitiva, coincide con la natura stessa dell’uomo. Il calice del Graal è assimilato al calice della messa, cioè al simbolo più sacro che la cristianità possieda. Ma se il mito è storia sacra, questa trasformazione della coppa celtica può anche essere vista come un riassumere in termini mitici e sacrali un contenuto che mitico e sacrale era già all’origine.
Il Graal diventa un tema fondamentale della cultura medievale del XII e del XIII secolo. Come le cattedrali, l’arte figurativa, il mosaico di corporazioni su cui si fonda la vita delle città, la letteratura graalica incarnerà un’anima dell’uomo medievale, descrivendo una società in cui il sacro è strettamente collegato alla vita normale e tutto si rivolge verso un fine ultraterreno, senza tuttavia escludere la vita nel tempo: il Graal si presenta agli uomini come la più perfetta incarnazione della legittimità, delle aspirazioni, degli ideali più puri della cristianità. Tutto ciò non a partire dal santo Graal, ma da un graal, un piatto, un vassoio, un comune oggetto dotato di poteri magici e strabilianti, come tanti della tradizione brettone. Un graal, che è certamente un graal particolare, ma per niente legato, nel Perceval di Chrétien, alla coppa che raccolse il sangue di Cristo. Un graal, ma potrebbe anche essere una spada, una pentola, un anello, destinato come sempre all’eroe che restaura la legittima autorità e riporta la gioia sulla terra, sana il colpo doloroso e dà nuova vita alla terra desolata.
Il poema non venne dunque portato a termine. Interrotto al verso 9.274, fu proseguito da due continuatori anonimi, legati entrambi alla corte delle Fiandre, alla contessa Giovanna, erede di Filippo, lo stesso che aveva fornito a Chrétien il canovaccio dell’opera. In queste due prime continuazioni si intravede già l’influenza di una versione ecclesiastica della leggenda. Il Graal viene fatto risalire a Giuseppe d’Arimatea, che nella coppa raccolse il sangue di Cristo trafitto nel costato, e la lancia, che sempre si accompagna al sacro Vaso, è l’arma con cui il centurione Longino ferì il Salvatore. Testimone, se non addirittura inventore di questa versione, è Robert de Boron, autore di un ciclo di romanzi di argomento graalico.
Entrambe queste continuazioni rimangono a loro volta interrotte. Conduce a termine il poema un terzo continuatore, Manessier, anch’egli legato alla corte delle Fiandre, che scrive intorno al 1225. Nella sua opera, finalmente, Perceval viene incoronato come re del Graal, regna per sette anni, fino alla sua santa morte, che segna la scomparsa definitiva del Calice.
Una quarta continuazione, risalente all’ultimo quarto del XIII secolo, è opera di Gerbert de Montreuil e prende l’avvio dal punto esatto in cui aveva cominciato Manessier.
La cristianizzazione della vicenda si manifesta chiaramente per tutta l’opera. Robert de Boron è stato il primo a concepire la vicenda come parte integrante di un ciclo completo[67]. È autore di Joseph, ou roman de l’estoire du Graal, del Merlin e di un Perceval perduto, che costituisce il nucleo essenziale di un testo noto come Didot-Perceval. Oltre a definire i caratteri che il Graal avrà d’ora in avanti, Robert reintroduce nella saga la figura di Merlino, ispiratore della Tavola Rotonda, la quale riproduce la tavola dell’ultima cena (prima Tavola Rotonda) e quella istituita da Giuseppe (seconda Tavola Rotonda).
La Vulgata
La visione ciclica della vicenda arturiana, che si manifesta nella compilazione di romanzi tra loro interdipendenti, culmina nel Lancelot in prosa che consacra la definitiva sostituzione della prosa al verso. Questa grande compilazione, nota anche come Vulgata[68], è infatti composta dai seguenti romanzi:
– Estoire del Saint-Graal
– Estoire de Merlin
– Lancelot
– Queste del Saint-Graal
– Mort du roi Arthur
Riassumere anche a grandi linee l’argomento della vulgata è impresa ardua. Nell’Estoire del Saint-Graal l’autore afferma che il testo gli è stato rivelato da Cristo durante una visione mistica, asserzione che di per sé evidenzia il cambio di spiritualità avvenuto. L’opera è una prefazione generale composta intorno al 1125 e fondata su Robert de Boron, i Vangeli apocrifi, la letteratura precedente, e su racconti di favole greco-orientali. Il Graal è la scodella in cui Cristo ha mangiato l’agnello pasquale o con la quale Giuseppe d’Arimatea ha raccolto il suo sangue. Attorno alla coppa verte un vero e proprio ordine sacerdotale, iniziato dal figlio di Giuseppe, Josephé. Questo sdoppiamento tra Giuseppe e il figlio viene posto in relazione con quello tra Lancillotto e Galaad. La lancia che sempre si accompagna al Graal è l’arma di Longino, e di essa si serve l’angelo custode del Graal per ferire chi tenti di avvicinarsi indegnamente.
Il simbolo della lancia è quello che più d’ogni altro conserva un carattere celtico, e non appare sufficientemente spiegato dalla relazione con la Passione di Cristo. Lo stesso dicasi per la maggior parte delle avventure che vivono i cavalieri, dall’evidente carattere iniziatico, direttamente recuperate dalle tradizioni celtiche. Significativo appare il fatto che proprio nella cristianizzazione completa della vicenda la loro presenza è stata conservata volutamente.
Il Graal è portato in Gran Bretagna dai compagni di Giuseppe, con la nave di Salomone che porta anche una spada magica. Solo l’eroe predestinato ha il diritto di estrarla dal fodero. Giuseppe istituisce la seconda tavola rotonda ad imitazione di quella dell’ultima cena, ma questa tavola contiene un seggio pericoloso, in cui ancora una volta solo il predestinato può sedere. La cerca del Graal è necessaria perché la coppa si è resa invisibile a causa di una usurpazione. Lambor estrae la spada della nave di Salomone, pur non avendo la dignità né l’autorità necessarie. Questa, è una delle tante varianti del tema: un colpo doloroso è sempre presente nella mitologia graalica, ed è significativo che la versione forse più antica ci sia fornita proprio da uno del testi più tardivi, la Elucidation aggiunta al Perceval di Chrétien[69]. In essa la violazione, che porta al disfacimento a alla decadenza avviene, a quanto sembra, nella stessa Isola di Avallon. L’immagine della sterilità della terra, comunque, è sempre il simbolo di un’avvenuta frattura metafisica, della perdita del contatto con l’altro mondo, della fine dell’età aurea. In nessun modo essa può essere spiegata con il ricorso a rituali agrari o altro del genere.
Nell’Estoire de Merlin è il protagonista che ordina a Uther Pendragon, padre di Artù, la costruzione della terza tavola rotonda. Il testo segue l’opera perduta di Robert de Boron, oltre Goffredo, e narra tutta la vita del mago durante i regni di Uther e di Artù. In sostanza, non porta nessun elemento nuovo a differenza del Lancelot propriamente detto. Le fonti che vengono seguite per il Lancelot sono il Conte de la charrette, il Perceval di Chrétien e le due prime continuazioni. È seguito anche Manessier, a meno che, data l’incertezza della cronologia, non sia quest’ultimo a seguire la Vulgata. Ciò che però separa nettamente questo Lancelot dai precedenti è il fatto che il cavaliere viene consacrato come modello perfetto della Cavalleria terrena, il che significa come cavaliere dotato di tutte le virtù, ad eccezione della castità. Questa pecca gli impedisce di conquistare il Graal nella nuova dimensione spirituale della Cerca. Valoroso e prode, Lancillotto ha bisogno di qualcosa di più. È perfetto sul piano umano, a differenza di suo figlio che sarà perfetto come un alter Christus, vero modello assoluto in cui finirà con lo specchiarsi tutta la cavalleria. Lancillotto resterà l’esempio di quanto di nobile si può compiere facendo appello alle sole forze umane, e la conclusione della vicenda lo vede terminare la sua vita non in battaglia, ma in monastero a cercare un’ulteriore purificazione.
Lancillotto è, nell’opera, il figlio di re Ban, ed è stato educato dalla dama del lago Niniane o Viviane, la quale successivamente ama Merlino e diventa incantatrice. Diciottenne entra a far parte dalla corte di Artù dove si segnala per le sue imprese. Vengono narrati gli amori per la regina, di cui lo stesso cavaliere descrive la storia dipingendone gli episodi sulle mura di una prigione in cui è stato rinchiuso da Morgana.
Il racconto è proseguito dalla Queste del Saint-Graal, dopo che il Lancelot si era interrotto al momento in cui Galaad è condotto quindicenne alla corte di Artù. La Queste si lega armoniosamente con il resto dell’opera, i personaggi vi conservano gli stessi caratteri, salvo poche eccezioni. In questo testo la storia, come fu concepita dall’atélier di scrittori che la elaborò, trova la sua naturale conclusione con una unità di composizione sorprendente. Si può concordare con il Lot al riguardo, anche se non tutti ritengono cha la stesura delle varie parti sia da localizzare in Champagne, e che l’autore della Queste sarebbe un discepolo dell’abbazia di Clairvaux e non un monaco cistercense, come invece lo sostiene lo studioso[70].
La Queste presenta un alto grado di misticismo e religiosità. Vi si narra la vita di Galaad, fatto cavaliere da Lancillotto, le cui imprese sono una continua conferma del suo carattere di eroe predestinato, annunciato da profezie ed eventi miracolosi. Alla cerca del Santo Graal partecipano tutti i cavalieri della Tavola Rotonda, con maggiore o minore fortuna, molti iniziando un’impresa senza ritorno. La sua conclusione segna anche la fine della vicenda della cavalleria terrestre. Narra, l’epilogo della grande avventura l’ultima parte della Vulgata, la Mort le Roi Arthur.
A conclusione della cerca si prende atto del triste bilancio: ventidue cavalieri su trenta che l’avevano iniziata sono morti. Gli amori di Lancillotto e Ginevra riprendono ma stavolta Artù si accorge del tradimento proprio vedendo le rappresentazioni dipinte dallo stesso Lancillotto quando era prigioniero di Morgana. Nasce allora una serie di ostilità che degenera in guerra civile quando tre fratelli di Galvano sono uccisi in uno scontro da Lancillotto che salva la regina, condannata come adultera. Solo la spedizione di Artù contro Roma interrompe le ostilità, che riprendono in seguito all’usurpazione di Mordred,
Si giunge così allo scontro finale durante il quale Artù e il traditore si colpiscono a vicenda. Mordred muore, e il re viene condotto nell’isola di Avallon. Nella battaglia muore anche Galvano, presto seguito da Lancillotto, diventato sacerdote.
Il cambio di spiritualità di cui si parlava conduce gli eroi bretoni ad incarnare un significato universale. Non rappresentano più le speranze di un popolo di sconfitti e perseguitati, ma il modello dell’avventura cavalleresca e del suo senso all’interno di una società cristiana. La figura del guerriero, tramandata da miti ed epoche antichissime, viene inglobata nella mitologia cristiana, che la reinterpreta alla luce della sua spiritualità e del suo ordine metafisico: la cavalleria celeste è la vera missione, e l’altra, la cavalleria terrena, solo un ponte o una preparazione. Non mancano tuttavia gli studiosi che affermano che tra le due cavallerie, quella dell’umano Lancillotto e quella del mistico Galaad, non esista alcuna frattura, e piuttosto si dovrebbe parlare di complementarietà; così Myrrha Lot Borodine:
«Al centro della Queste, questo altissimo canto all’amore divino, risplende l’immacolata immagine del Cristo-cavaliere Galaad, e nell’ombra spessa attorno al peccato carnale si nasconde l’Adamo pentito-Lancillotto»[71].
Non a caso egli è l’unico dei grandi eroi che non muore in battaglia, anche se trasfigura completamente la sua natura cavalleresca nel sacerdozio.
Una spiritualità forse un po’ diversa, più attenta alle ragioni del mondo cavalleresco e meno a quelle monacali, si trova in altri testi minori. Ad esempio un Perlesvaus, redatto tra il 1191 e il 1212 da Jean de Nesle in Inghilterra in una lingua franco-piccarda. Non è un capolavoro, ma sembra un testo non conosciuto dagli autori della Vulgata, ed è generalmente ritenuto molto vicino al fondo celtico della storia[72]. Oppure si potrebbe analizzare il Parzival di Wolfram von Eschenbach, opera di vasta mole e grande valore artistico, che segue anche fonti non conosciute, e si avvicina in modo particolare alla spiritualità dei templari[73]. Altre fonti debbono essere esistite in Inghilterra. È d’altronde quasi una constatazione, considerando la prodigiosa memoria e il ruolo dei bardi[74], il cui ufficio era appunto l’apprendimento e la recitazione dei poemi epici. Come scrive Baldini, «gli schemi narrativi, almeno per una parte importante dei romances, debbono riconoscere la loro origine celtica»[75]. Le storie arturiane
«appartengono indubbiamente ad una tradizione celtica originata, in specie, tra le popolazioni del Galles e della Cornovaglia. Non solo, ma, come a ragione si crede da taluni, avevano una circolazione almeno locale fin dall’XI secolo»[76].
La fortuna letteraria di Artù si sviluppa in Francia, ma sarebbe l’Inghilterra la sua terra natale[77]. E in Inghilterra troviamo un anonimo poemetto, Sir Gawain and the Green Knigth[78], e la Morte Arthur di Thomas Malory[79], opera tardiva, scritta intorno al 1470, che racconta l’intera vita di Artù, Lancillotto, Tristano, Perceval e la cerca del Graal, utilizzando fonti del tutto sconosciute, forse tratte dalla materia arturiana, o da tradizioni che non sarebbero potute entrare con coerenza nel quadro organico descritto nella Vulgata.
GIANNI FERRACUTI
NOTE
[1] [Questo saggio antico viene pubblicato oggi per la prima volta in versione integrale: nel 1980 ne uscì solo una parte, a causa della cessazione delle pubblicazioni di «Excalibur». Si trattava di una semplice introduzione scolare alla materia di Bretagna, usata come testo base per un seminario meramente storico, senza alcuna pretesa di originalità. G. F.].
[2] G. PARIS, Histoire poéthique de Charlemagne, Paris 1865.
[3] Id., Études sur les romans de la Table Ronde, in «Romania», XI (1883), 459-534, 466.
[4] Ibid., 468.
[5] Cfr. F. LOT, Études sur la provenance du cycle arthurien, in «Romania», XXIV (1895), 497-528 e ivi XXV (1896), 1-32; Id., Nouvelles études sur le cycle arthurien, ivi, XLVII (1918-19), 1-22, e ivi XLIX (1920), 39-45; Id., Études sur le Lancelot en prose, Paris 1918; Id., Nennius et l’Historia Brittonum, Paris 1934.
[6] Cfr. in part. F. LOT, Celtica, in «Romania», XXIV (1895), 321-338.
[7] Tra le opere più importanti di Gaston Paris: Romans en vers du cycle de la Table Ronde, in «Histoire littéraire de la France», XXX (1888), 1-270; Littérature française au moyen âge, Paris 1908. La teoria delle origini celtiche è sostenuta, tra gli altri, anche da L. GAUTIER (Les épopées françaises, Paris 1878-1882, 2 voll.), J. BRUCE (The Evolution of Arthurian Romance, Gottingen-Baltimora 1928).
[8] J. BEDIER, Les légendes épiques, recherches sur la formation des chansons de geste, Paris 1908-1913, 4 voll., vol. III, 200-288.
[9] A. PAUPHILET, Sur la chanson de Gorment et Isembart, in «Romania», L (1924), 161. Questa teoria, che a prima vista appare ovvia, oltre ad essere essa stessa influenzata dalla cultura romantica, non appare sufficientemente fondata. Se ne veda l’approfondita critica cui la sottopone R. MENÉNDEZ PIDAL in La Chanson de Roland y el neotradicionalismo, Madrid 1956, con cui si inizia la riabilitazione di molte tesi romantiche, ovviamente rivedute alla luce di una più corretta impostazione.
[10] E. FARAL, La legende arthurienne, études et documents, Paris 1925, 3 voll.
[11] Id., Les arts poéthiques du XII et du XIII siècles, Paris 1924; Id., Recherches sur les sources latines des contes et des romans courtois du moyen âge, Paris 1924.
[12] Basti pensare, come semplice esempio di una vasta letteratura critica, a C. GUERRIERI CROCETTI, La leggenda di Tristano, Milano 1950, A. VISCARDI, Le letterature d’Oc e d’Oïl, Firenze 1967, S. CIGADA, La leggenda medievale del cervo bianco e le origini della «Matière de Bretagne», Roma 1965, G. ERRANTE, Sulla lirica romanza delle Origini, New York 1943, Id., Marcabru e le fonti sacre dell’antica lirica romanza, Firenze 1946
[13] A. VISCARDI, Il Graal, Giuseppe d’Arimatea, l’abbazia di Glastonbury e le origini cristiane della Britannia, in «Cultura Neolatina», II (1942), 87-103. Cfr. anche G. BERTONI, San Graal, Modena 1940.
[14] R. MENÉNDEZ PIDAL, La Chanson de Roland, cit.
[15] B. PANVINI, La leggenda di Tristano e Isotta, Firenze 1951; E. LEVI, I lais brettoni e la leggenda di Tristano, Perugia 1918.
[16] J. MARX, La légende arthurienne et le Graal, Paris 1952; Id., Nouvelles recherches sur la littérature arthurienne, Paris 1965.
[17] Tra le opere principali di R. S. LOOMIS: The Grail, from Celtic Mith to Christian Symbol (Cardiff 1963); Arthurian Legend in Medieval Art (Oxford 1959); Arthurian Tradition and Chrétien de Troyes (New York 1949). Lo studioso ha diretto la fondamentale raccolta di saggi Arthurian Literature in the Middle Age, a Collaborative History, Oxford 1959.
[18] Cfr. J. MARKALE, Les celtes et la civilisation celtique, Paris 1970; H. HUBERT, Les Celtes, Paris 1932, 2 voll.
[19] Sulla conversione dei celti al cristianesimo, cfr.: L. BIELER, La conversione al cristianesimo dei celti insulari e le sue ripercussioni sul Continente, in «Centro italiano di Studi sull’Alto Medio Evo», Spoleto 1976, 559-580; B. BISCHOFF, Il monachesimo irlandese e i suoi rapporti col Continente, ivi, 121-128; L. GOUGAUD, Les Chrétientés celtiques, Paris 1911.
[20] Sul folclore celtico, cfr. G. MURPHY, Saga and Myth in Ancient Ireland, Dublin 1955; O’ RAHILLY T. F., Early Irish History and Mithology, Dublin 1946; C. SQUIRE, The Mithology of Ancient Britain and Ireland, London, 1909.
[21] Cfr. J. MARX, Les littératures celtiques, Paris, 1959; F. GOURVIL, Langue et littérature bretonnes, Paris 1952.
[22] Cfr. al riguardo R. MENÉNDEZ PIDAL, Reliquias de la poesía épica española, Madrid 1951.
[23] Leon Fleuriot ha scoperto nella Biblioteca Nazionale di Parigi un manoscritto latino tradotto dal bretone armoricano (notizia riportata in J. MARKALE, L’épopée celtique en Bretagne, Paris 1971, 10, n. 1).
[24] J. MARKALE, L’épopée celtique en Irlande, Paris 1971, 13-114.
[25] Sulla letteratura irlandese: J. CARNERY, Studies in Irish Literature and History, Dublin 1955; E. HULL, A Text Book of Irish Literature, Dublin 1906; E. KNOTT, Irish Classical Poetry, Dublin 1965; J. Mc NEILL, Celtic Ireland, Dublin-London 1921; J. VENDRIES, La poésie de cour en Irlande et en Galles, Paris 1932.
[26] Per i testi delle fonti latine cfr. E. FARAL, La légende arthurienne, études et documents, cit., che nel terzo vol. contiene l’edizione dei seguenti: Historia brittonum, Annales Cambriae, Vita sancti Cadoci, Vita sancti Paterni, Vita sancti Carantoci, Miracula sanctae Mariae Laudunensis di Ermanno di Tournai, Gesta regum Anglorum, Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.
[27] Miracula sanctae Mariae Laudunensis, 11, 15.
[28] ibid., 11,16.
[29] Testo in: J. LOTH, Les mabinogion du livre rouge d’Ergest traduit du gallois, Paris 1913, 2 voll., trad. franc.
[30] MARKALE, ép. celt. bret., cit., 140-141.
[31] F. LOT, L’origine du nom de Lancelot, in «Romania», LII (1925), 423.
[32] Cartularium universitatis parisiensis, ed. Denifle e Chartelaire, I, 26.
[33] Cit., in G. PARIS, Littérature française au moyen âge, cit., 95.
[34] Speculum charitatis, nella Patr. Lat. del Migne, tomo CXCV, col. 165.
[35] MARKALE, ép. celt. bret. cit., 123. Cfr. anche GOUGAUD, Chrétientés celfiques, cit.
[36] FARAL, Leg. arth., cit., vol. II, 252.
[37] In tutto ciò non è da vedere una mistificazione, perché nel medioevo il concetto di storiografia è diverso dal nostro. Non è tanto la realtà accaduta quello che interessa lo storico, quanto piuttosto la qualità della realtà accaduta. Il fenomeno ha valore nella misura in cui racchiude un significato. La storiografia è contemporaneamente retorica ed edificazione. Nella storia si cerca il modello, la realtà vera a cui conformarsi. Significativo al riguardo il fatto che le fonti vengono usate con estrema libertà, a volte senza preoccupazione di eventuali contraddizioni. Così, in Goffredo, nel cap. 138 si parla di una sorella di Artù, Anna, la moglie di Lot, da cui nascono Gaugain e Modred (cap. 152). Questa è contemporaneamente sorella del re della piccola Bretagna, Budic, e madre di Hoel (cap. 144).
[38] F. LOT, Celtica, in «Romania», XXIV (1895) pagine 331-338.
[39] Il mito di Ys è riportato da P. W. JOYCE, Old Celtic Romances, Dublin 1966, 97-105 (in versione cristianizzata). Il problema di Morgana, come personaggio è estremamente interessante. Goffredo nomina una Morgen (Vita Merlini, vv. 920 e 934), nome che non figura nella Historia né nella traduzione francese di Wace, né nelle composizioni di Maria di Francia, cioè nella letteratura precedente Chrétien. In Francia esso compare nell’Erec, nella forma Morgue (vv. 4216-4224) e viene indicata come sorella di Artù, cosa che non risulta in Goffredo. Compare nella stessa opera come Morgain la fée (v. 1957), ma si tratta evidentemente di due personaggi procedenti da un unico modello, non si sa se sdoppiato da Chrétien o, più probabilmente, dalle fonti che lo scrittore utilizza. La forma del nome, sempre femminile, non può derivare dal gallese Morgan(t), che è sempre di genere maschile. Poiché non è pensabile che Goffredo abbia sbagliato genere del nome, il Lot rintracciò una migliore etimologia: Muri-genos (femm. muri-gena), cioè «nata dal mare», nome della fanciulla scampata alla distruzione di Ys. Lot notò anche che la forma Morgen, nel XII sec. si pronunciava morien, e tende ad essere sostituita con questa nuova grafia rispondente alla nuova pronuncia. L’antica grafia morgen rimane nelle fonti gallesi (genealogie), mentre il suono gutturale è conservato solo in Irlanda. Se Goffredo può essere arrivato a questa forma gutturale, non si spiega come ci sia arrivato Chrétien che non utilizza il retore gallese. Non attraverso la tradizione orale, che pronunciava morien, ma per forza attraverso testi antichi scritti con l’antica grafia, testi che non conosciamo affatto.
[40] Testo in G. DOTTIN, L’épopée irlandaise, Paris 1926, 455 e seg., in trad. franc.
[41] Testo in H. D’ARBOIS DE JUBAINVILLE, L’épopée celtique en Irlande, Paris 1926, trad. franc.
[42] Cfr. G. PARIS, Études sur les romans de la Table Ronde, in «Romania», XII (1883), 459- 534.
[43] P. G. CAUCCI, La materia di Bretagna nelle lettere ispaniche, Perugia 1975, 21.
[44] Cfr. P. RAJNA, Contributi alla storia dell’epopea e del romanzo medievale: Gli eroi brettoni nell’onomastica italiana del sec. XII, in «Romania», XVII (1888), 161-185 e 355-365.
[45] G. SERRA, Le date più antiche della penetrazione in Italia dei nomi di Artù e Tristano, in «Filologia Romanza», II (1955), 225-237.
[46] L. OLSCHKI, La cattedrale di Modena e il suo rilievo arturiano, in «Archivum Romanicum», XIX (1935), 145-182, 160. Sulla cattedrale cfr. anche: GEROULD G.H., Arthurian Romance and the Date of the Relief of Modena, in «Speculum», X (1935), 355-376; R. LEJEUNE – J. STIENNON, La légende arthurienne dans la sculpture de la cathedrale de Modène, in «Cahiers de Civilisation Médiévale», VI (1963); R. S. LOOMIS, The Modene Sculpture and Arthurian Romance, in «Studi Medievali», n. s. IX (1936), 1-67.
[47] Durmart le gallois, ed. di E. Stengel, Tübingen, 1883; cfr. G. BERTONI, Note varie al romanzo Durmart le Gallois, in «Archivum Romanicum», III (1919), 257-259.
[48] R. S. LOOMIS, Arthurian Legend in Medieval Art, Oxford 1959.
[49] R. R. BEZZOLA, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), Paris 1958-1963, ,5 voll., vol. II, 140-141
[50] Sui Druidi cfr. N. K. CHADWICH, The Druids, Cardiff 1966.
[51] Anche la letteratura sassone fu influenzata da quella celtica. Si può parlare di «una letteratura redatta da chierici, ma da chierici i cui padri furono guerrieri, dei vichinghi, e presso i quali le tradizioni dell’epoca bellicosa sono molto familiari ( … ). Pertanto la loro poesia, anche quando è prettamente cristiana, è poesia di reminiscenze e di echi del loro paganesimo» (E. LAGONIS – L. CAZAMIAN, Storia della letteratura inglese, Torino, 1966, 17). Sui caratteri fondamentali della letteratura celtica, cfr. K. JACKSON, Studies in Early Celtic Nature Poetry, Cambridge 1935; J. R. .ALLEN, Celtic Art in Pagan and Christian Times, London 1912. Sulla religione, cfr. J. DE VRIES, La réligion des celtes, Paris 1963; L. GOUGAUD, Réligion des celtes, in Dictionnaire apologéthique de la foi chrétienne, Paris 1931, vol. II, 619; F. LE ROUX, La religione dei celti, in Storia delle religioni, a c. di H. C. PUECH, tr. it., Roma-Bari, vol. V, 95-152.
[52] J. MARX, La légende arthurienne et le Graal, Paris 1952, 3-4.
[53] Su Eleonora d’Aquitania E. A. FRANCIS, Marie de France et son temps, in «Romania» LXXX (1951), 78-99; E. R. LA BANDE, Pour une image veridique d’Alienor d’Aquitaine, in «Bulletin de la Société des Antiquaires de l’Ouest», 1953, 178-234; R. LEJEUNE, Ròle littéraire d’Alienor d’Aquitaine et de sa famille, in «Cultura Neolalina», XIV (1954), 5-53.
[54] Per l’etimologia della parola lai cfr. H. D’ARBOIS DE JUBAINVILLE, Lais, in «Romania», VIII (1879), 422-425. Si tratta di componimenti che in origine utilizzavano il verso di sette sillabe. Nella letteratura francese il verso diventa ottonario. Lai deriva dall’irlandese Lôid, poi laid.
[55] A. VISCARDI, Le letterature d’Oc e d’Oïl, Firenze 1967, 269.
[56] Pur portando il genere alla perfezione, Maria non è la prima ad averlo inventato o utilizzato. Esistono citazioni di lais brettoni nei romanzi tristaniani di Thomas e Goffredo di Strassburg, che da Thomas trae la sua materia. In Thomas, ad es., Isotta compone un lai mentre si trova a Tintagel, dopo che Tristano è partito per l’esilio («En sa chambre se set un jur / e fait un lai pitus d’amur: / comment don Guirun fu surpris, pur l’amur de la dame ocis / que il sur tute rien ama [ … ] La dame chante dulcement, / la voiz acorde a l’estrument; / les mainz sunt beles, li lais bon, / dulce la voz, e bas li tons». J. BEDIER, Le roman de Tristan par Thomas, Paris 1902, vol. I, 295). La cronologia di Thomas è assolutamente incerta, come pure quella di Maria. La data più remota dell’attività di Maria può essere indicata nel 1168, quando Walter von Harras allude alla poetessa (nel romanzo Ille und Galeron, ed. a c. di W. Foerster, Halle 1891, vv. 928-936: la data di questo romanzo, non è ovviamente sicura). Prima di questa data è attestato un lai contenuto anche in Goffredo di Strassburg (Tristan und Isolde, ed. a c. di F. Ranke, Berlin 1967, vv. 19.204-19.222) attribuito allo stesso Tristano, il cui ritornello francese indica chiaramente la provenienza. Questo lai è imitato dalla contessa Beatrice di Dia, morta verso il 1193, in una canzone del 1160. Anche Maria lo utilizza, citando fonti scritte e orali, nel lai du Chevrèfueil e in quello di Eliduc. I lai sono sempre citati in presenza di strumenti musicali ed elementi giullareschi, mentre Maria non scrive per il canto ma per la lettura. La fioritura di lais in Francia si manifesta anche con una loro diffusione nei paesi meridionali. Il lai d’Ignaure, che cita la leggenda del cuore mangiato riportata da Thomas, era noto in Provenza intorno al 1150 (per la cronologia e la problematica relativa a Maria, cfr. E. LEVI, I lais brettoni e la leggenda di Tristano, Perugia 1918 e, dello stesso, Sulla cronologia delle opere di Maria di Francia, in «Nuovi Studi Medievali», I (1923), 41-72. Il testo del lai d’Ignaure in Lai d’Ignaures en vers du XIIe siècle par Renaut ( … ), a c. di L. J. N. Monmerqué e F. MICHEL, Paris 1832; cfr. anche H. J. CHAYTOR, The troubadours of Dante, Oxford 1902. Ancora sulla cronologia di Maria di Francia, cfr.: E. HOEPFFNER, Pour la chronologie des lais de Marie de France, in «Romania», LXII (1933), 351-370, ivi LXIII (1934), 45-66.
[57] La cronologia di Chrétien de Troyes è incerta. L’autore sarebbe nato verso il 1135. Cohen data le sue opere come segue: Ovidiana 1158; Guillaume 1160; Erec 1162; Cligés 1164; Lancelot, dedicato a Maria di Champagne nel 1168, mentre soggiorna presso la sua corte; Yvain 1170; Perceval 1182, anno in cui lo dedica a Filippo d’Alsazia, presso la cui corte soggiorna. Muore intorno al 1190.
[58] CHRÉTIEN DE TROYES, Erec et Enide, ed. a c. di Mario Roques, Paris 1952
[59] Guerec, conte di Nantes, governò la città fino al 990. Fu oggetto di numerosi racconti e leggende raccolti da Chrétien. L’eroe primitivo del romanzo era il gallese Gereint, incoronato a Carnant (Cfr. F. LOT, Erec, in «Romania» XXV [1896], 588-590). Per quanto riguarda Enide, il suo, nome in gallese significa Allodola dei Boschi, ed è parola non attestata nella penisola Armoricana. Cfr. anche P. G. Caucci, Il costume del cervo bianco, in «Vie della Tradizione», III (1971), 8-16.
[60] CHRÉTIEN DE TROYES, Le chevalier de la charrette, ed. M. Roques, Paris 1958.
[61] Cfr. BAECHTOLD, Der Lanzelet des Ulrich von Zatzikhoven, Frauenfeld 1870.
[62] Cfr. G. PARIS, Études sur les romans de la Table Ronde, I, in «Romania», IX (1881), 465-496; II: ivi, XI, (1883), 459-534
[63] Ibid., I, 491.
[64] Ibid, II, 519.
[65] CHRÉTIEN DE TROYES, Yvain (Le chevalier au lion), ed di W. Foerster, Tübingen 1958.
[66] Id., Der Percevalroman (Li contes del graal), ed. a c. di A. HILKA, HALLE 1932, 2 voll.
[67] Per le continuazioni del Perceval: The Continuations Of the old Perceval, ed. di W. Roach, Philadelphia 1964, 4 voll. Perceval le Gallois ou le Conte del Graal, ed. di C. Potvin, Mons 1866-1871, 6 voll. ROBERT DE BORON, Merlin, roman en prose du XIIIe siècle publié avec la mise en prose du poéme de Merlin de R. de B. par G. Paris et J. Ulrich, Paris 1886, 2 voll.; Id., Roman de l’estoire dou Graal ou Joseph ed. a c. di W. Nitze, Paris 1927.
[68] The Vulgate Version of the Arthurian Romance, ed. di O. Sommer, Washington 1909-1916, 8 voll.
[69] L’Elucidation è pubblicata in CHRISTIAN VON TROYES, Der Percevalroman, cit.
[70] F. LOT, Études sur le Lancelot en prose, Paris 1918-9, 349.
[71] M. LOT-BORODINE, Le double esprit et l’unité du Lancelot en prose, in Mélanges d’histoire du moyen âge offertes a m. F. Lot, Paris 1925, 477-490, 481.
[72] Li haut liyre du Graal: Perlesvaus, ed. di W. Nitze, Chicago 1934-1937, 2 voll.
[73] WOLFRAM VON ESCHENBACH, Parzival und Titurel, ed. di E. Martin, Halle-Saale 1900-1903, 2 voll.
[74] Cfr. J. MARX, Les litératures celtiques, Paris 1959, 15.
[75] G.BALDINI, Storia della letteratura inglese: la tradizione letteraria, dell’Inghilterra medievale, Roma 1958, 95.
[76] Ibidem.
[77] Lo stesso critico afferma che Wace parla della Tavola Rotonda in modo tale da far capire che doveva essere una materia perfettamente nota al lettore (ibid., 98). L’origine della tavola – cui Wace allude – è spiegata nella traduzione inglese che a sua volta subisce il testo di Wace, il Brut di Layarmon (Layarmon’s Brut, ed. di F. Madden, London 1847, 3 voll).
[78] Galvano e il cavaliere verde /Sir Gauwein and the green knigth, ed. di A. Guidi, Firenze 1958
[79] T. MALORY, The Works di sir Thomas Malory, ed. di E. Vinaver, Oxford 1947, 3 voll. (ristampa dei soli testo e glossario: Oxford 1954).