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– Trittico mordiniano I° – L’Impero cristiano, entelechia dell’Europa (di Attilio Mordini)

(Nel 102° anniversario della nascita)

Premessa (a cura di Sergio Saraceni)

In occasione del 102° anniversario della nascita di Attilio Mordini di Selva (Firenze, 23 Giugno 1923 – 4 Ottobre 1966) abbiamo pensato di proporre la trascrizione di un suo scritto tratto dall’opera “Pagine Monarchiche” (Edizioni Thule, Palermo 1980).

Noi siamo infatti convinti che la sua figura esemplare e la sua opera siano elementi necessari da riscoprire, soprattutto nei tempi che corrono; ciò per la completa formazione del Cavaliere cristiano, il quale non deve fermarsi agli strati più superficiali della ‘Buona Battaglia’, dacché questa non combatte soltanto il nemico nel mondo, ma prima ancora deve fronteggiare e sconfiggere anche quello ben più infido e difficile che si annida dentro di noi.

Ricordiamo infatti che la Battaglia alla quale siamo chiamati è tanto fisica quanto metafisica: alla Cavalleria terrestre ne corrisponde sempre una Celeste, come ci ha pienamente dimostrato lo stesso Mordini, nonostante la sua breve vita.

Egli fu autore di testi ricchi di sapienza tradizionale quali (solo per citarne alcuni) “Il tempio del cristianesimo”, “Dal mito al materialismo”, “La verità del linguaggio”, “Il segno della carne”, “Il mito primordiale del cristianesimo”, “Francesco e Maria”, “Il mistero dello Yeti alla luce della tradizione biblica”, “Povertà regale”, oltre che di innumerevoli articoli.

Ma fu altresì un combattente cristiano, un Terziario francescano definito da Fausto Belfiori “araldo di Cristo, innamorato della Madonna” e da Giovanni Cantoni “monaco senz’abito, saggio senza toga, cavalier senza lancia, sapiente senza cattedra”. Egli fu quindi un vero miles attivo nella Buona Battaglia, e non soltanto un mero teorico, un cattedratico o, peggio ancora, un “filosofo della tradizione” (ricordiamo che, oltre alle belle parole, la “Tradizione” richiede sempre le buone e dure azioni.)

Arruolato volontario in Russia – nonostante la sua leggera invalidità – combatterà con onore l’eresia anticristiana del bolscevismo e lì riporterà il congelamento degli arti inferiori, sarà poi nuovamente volontario nelle fila della Repubblica Sociale Italiana, cosa che pagherà con una dura carcerazione ad opera dei partigiani: il che gli causerà i problemi di salute che lo porteranno alla prematura morte nel 1966. Egli alternerà tutta la sua vita tra Pensiero e Azione, Preghiera e Opera.

Per riprendere le parole di un altro combattente e valido studioso cristiano (ma di estrazione Gentiliana) quale fu Primo Siena, dobbiamo dire che «quando venne l’ora della sopraffazione e delle vendette, pagò il tributo che l’odio di Caino gli impose, opponendo la tranquilla dignità del perseguitato dalla vile prepotenza del persecutore: subì un anno di carcere e un processo che lo mandò assolto da ogni addebito imputatogli».

L’articolo che proponiamo qui di seguito è tratto originariamente dalla rivista “L’Ultima” nn. 75-76 del 1954 e si intitola “L’Impero cristiano, entelechia dell’Europa”. Lo abbiamo ritenuto calzante coi tempi e i relativi problemi che corrono, nonostante i vari decenni che ci separano dalla sua stesura. In queste dense righe Mordini ci mostra il senso purissimo dell’Imperium, termine utilizzato troppo spesso impropriamente da autori e attivisti di estrazione neopagana, ma in verità elemento cristiano in quanto designante l’universalismo del Potere Regale del Cristo.

Concludiamo riprendendo alcune righe dalla nota introduttiva scritta dall’editore Tommaso Romano, per “Pagine monarchiche”, quando scrive che:

Monarchia per Mordini è universalismo. Ogni forma di monarchia esclusivamente nazionale (o, peggio, nazionalista) è fuori dal quadro della tradizione occidentale che è romana, cristiana ed imperiale. L’Europa per essere veramente unita, al di là dai trattati, dalle elezioni, dagli scambi economici, dovrà trovare nella missione dell’Imperium la sua ragione di esistenza e di superiore dignità. Per questo un’articolata azione aristocratica dovrà riproporsi, perché le élites non si inventano dal nulla, per questo il senso della restaurazione sarà pietra angolare della restaurazione dell’uomo e di tutta la società civile”.

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L’Impero cristiano, entelechia dell’Europa

Il comando «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» è ormai stato citato anche troppo, e soprattutto dai laicisti che hanno sempre creduto di scorgervi la conferma delle loro opinioni. Eppure, se v’è un punto nel Vangelo dove ogni indugio sul laicismo è troncato è proprio questo. Gesù evita di dare ai Farisei una risposta negativa, ed evita altresì una affermazione che potrebbe avere sapore polemico. D’altronde, limitare la risposta di Nostro Signore ad un’abile frase per cavarsi dal ben noto laccio tesogli dai suoi avversari è minimizzare la portata universale e divina del Vangelo; Gesù non vuol dire di non dare a Dio ciò che è dovuto a Cesare, e viceversa. Cesare e Dio (cioè Pietro come autorità religiosa sulla terra) non si escludono a vicenda. Non deve esistere un termine oltre il quale opera Cesare e non Pietro, o Pietro e non Cesare. Essi non costituiscono due realtà diverse ed incompatibili bensì due fuochi di una sola realtà armoniosamente ellittica. La moneta è di Dio come è di Dio tutto ciò che esiste; l’effigie è di Cesare e dobbiamo onorare Dio dando il tributo a Cesare. Se in ciascun uomo dobbiamo vedere Gesù, in Cesare dobbiamo vedere anche il Padre come in Pietro la Trinità tutta nella sua infallibilità.[1] «Cesare» e «Pietro» non sono termini dialettici, perché già sintetizzati in Dio. Nell’assolvere la loro missione di guida dell’umanità il Pontefice e l’Imperatore non debbono regolarsi su norme statuite a definire l’opera dell’uno rispetto all’opera dell’altro, ma solo ispirarsi a quel senso d’armonia: facoltà, appunto, superrazionale, che fa di due uomini un Papa e un Imperatore. La missione di Cesare e la missione di Pietro sono due cose ben distinte, ma la medesima società in tutti i suoi aspetti è il loro comune campo d’azione. È sintomatico che, non appena si pone la questione di statuire razionalmente e legalmente un limite ben preciso all’azione dell’uno e dell’altro, si aprono le lotte per le investiture. Questa lotta sarà appunto la malattia che determinerà la morte del Medioevo. È altrettanto sintomatico che l’inizio della lotta per le investiture coincida con l’affermarsi della dialettica nella teologia cattolica. Non che la nostra Scolastica ne sia in qualche modo responsabile; ma il bisogno stesso che determinò la mirabile teologia scolastica può già dirsi in sé causa d’umanesimo, e i teologi altro non fecero se non ritardarne il fatale sorgere. Infatti proprio quel bisogno di conciliare la fede con la ragione presupponeva un’incipiente frattura tra l’umano e il divino; e sul piano politico si trattava di conciliare l’Impero con la Chiesa. Al primo problema si dedicarono domenicani e francescani, al secondo pensò Dante con il De monarchia.

Non voglio certo auspicare qui un neo-feudalismo, me ne guarderei bene: solo credo sia il caso di porre attenzione ai principi sacrosanti ai quali il feudalesimo si ispirava o diceva di ispirarsi. L’ordine feudale era ordine radiale. Da un Imperatore eletto da una dieta di principi si snodava una gerarchia di Re e vassalli tutti vincolati dalla parola d’onore e consacrati cristianamente; l’atto più alto dell’uomo, il giuramento, veniva elevato a dignità sacra. Ma delle lotte per le investiture approfittarono i nascenti comuni per proclamare le loro autonomie. E se il simbolo araldico del vassallo è una corona radiale a significare un centro di potere, la corona comunale è corona turrita, è un chiuso limes dal sapore alquanto polemico. Tuttavia i centri comunali non furono osteggiati dall’Impero; lo stesso Barbarossa si accontentò di inserire i comuni nell’ordine imperiale, nulla di più, ed Irnerio a Bologna riconobbe ciò come azione lecitissima da parte dell’Imperatore. Del resto sarà programma anche del nostro Alighieri l’innesto vivificatore del comune nell’Impero.

Quando invece, con l’avvento dell’umanesimo, si porrà l’accento sui valori umani come se potessero darsi valori umani in sé (quasi che l’uomo sia valore in quanto uomo e non in quanto essere creato da Dio e redento da Cristo, unico vero Valore che dà valore alla realtà nella misura in cui questa partecipa di Dio), anche l’Impero si sfascia di fatto per lasciare posto ai nazionalismi od ai particolarismi di signorotti arricchiti. Più tardi le guerre di predominio, di religione e di successione gettano l’Europa in più caotico disordine, fino alla pace di Aquisgrana: la quale darà un ordine di compromesso fra le potenze, determinato dalla paura comune anziché dalla Verità universale. Di pari passo il pensiero stesso passerà dai valori superrazionali del medioevo, che potevano darci vera cultura, all’erudizione umanistica, indi al razionalismo, e infine all’irrazionalismo romantico (salvi, ben inteso, i geni come Goethe, Manzoni, Leopardi, che non si lasciarono mai invischiare dalle pastoie di scuola). Frattanto le sole nazioni che videro sacrificati i loro ideali nazionali furono l’Italia e la Germania, e non senza una ragione profonda: perché proprio esse si trovavano rispettivamente custodi delle grandi idee di Chiesa e Impero, di Pietro e Cesare, di Roma e Worms.

Ma nell’età del Risorgimento anche Italia e Germania, ultime nazioni ad affermarsi in Europa, assumono consistenza e fisionomia di stati particolari, e col 1870 si rinnova in Europa – sia pure con attori in parte diversi nel concerto delle grandi potenze, ancora amiche per la paura – una situazione analoga a quella del 1748; e l’utopia dell’equilibrio non sarà travolta nemmeno dalla prima guerra mondiale, ma si riaffermerà nella Società delle Nazioni. Sarà solo con la seconda guerra mondiale che proprio l’Italia e la Germania – fatale provvidenzialità della storia – giungeranno a sfasciare, nella loro propria rovina, il decrepito sistema dell’equilibrio, e si piomberà – per ora – nel dualismo attuale. Ma intanto sembra ormai dimostrato quale enorme errore di superbia fosse stato l’affermare i particolarismi nazionali sulle rovine del Sacro Romano Impero (l’esasperato nazionalismo del tentativo napoleonico non ebbe dell’Impero che il nome); e finalmente si pensa di nuovo a un’Europa unitaria.

Purtroppo questo lungo e disastroso periodo di storia, che va dal 1492 ad oggi, ha lasciato profonde cicatrici ancora troppo sensibili; e non sono tanto, come pensano i pacifisti della paura, le cicatrici delle guerre e dei conflitti, quanto le piaghe dell’intelletto, quelle che dolgono a dismisura. Dal giorno che si fece leva soltanto sui valori umani la storia non è stata altro che un progressivo spostarsi della confidenza delle genti dalle sacre persone di Imperatori e Re, divinamente investiti, a sistemi di disposizioni, ingiunzioni e divieti sempre più astratti, meccanici, minuziosi e impaccianti, sempre meno permeati di quella maestà che è l’anima necessaria della legge; e via via riducentisi a documenti di sfiducia in quegli stessi valori umani che dell’umanesimo costituirono l’ispirazione iniziale.

E ancora si insiste a considerare la verità come cosa comune anziché universale; errore che dovrebbe essere a tutti evidente. La Verità maiuscola non è infatti la risultante media delle minuscole verità di ciascuno, ma è personalità del Figlio di Dio che tutto e tutti trascende: e ciascuno è vero e nel vero, nella misura che del Verbo partecipa. La «verità» comune, al contrario, non può essere altro che compromesso, e il compromesso è relatività senza misura assoluta, quindi, il diritto del prossimo é curare il proprio dovere. Non è affatto evangelico vantare i propri diritti, e dovrebbe essere anche superfluo. Infatti, in una società ove ogni cittadino facesse il proprio dovere non sarebbe turbato il diritto di nessuno; ma nel caso che ciò avvenga per infrazione del dovere da parte di altri, allora il Vangelo insegna che, dopo aver dato la tunica a chi ci ruba il mantello, dobbiamo riprendere il fratello nel segreto; e se ciò non basta portarlo a giudizio pubblico: il che è quanto dire di doverci curare, per amore di Cristo, che il nostro fratello compia il suo dovere anche verso di noi.

Senonché tutto ciò è in antitesi sia con una società liberale fondata sul reciproco concorrere di individualità praticamente avversarie tra loro, sia con una società socialista fondata sulla rivendicazione anarchica dei diritti d’una classe, quantunque ingiustamente sfruttata. San Paolo raccomanda ai servi sottomissione e obbedienza, e ai padroni di far liberi i servi: ed è vanto particolare della Chiesa di Roma aver debellato lo schiavismo senza mai incitare gli schiavi alla rivolta, ma, ove era possibile, riscattandoli anche col rimborsarne i padroni, Ancora una volta l’accento è sui doveri. Tuttavia la misura giusta è sempre quella del jus, che noi traduciamo diritto. Ma jus vuol dire sacro legame; legame in cui il diritto e il dovere fanno un corpo solo, ed è esso il premio della societas. Dalla stessa radice, “jugum”, il giogo: che è appunto quell’arnese che unisce e sottopone la coppia di buoi, e rende loro agevole trainare il carro. Il jus prelude infatti al giogo leggero di Gesù; leggero anche sul piano sociale perché nel giogo dell’amore e dell’obbedienza è annullata ogni polemica, gli uomini si riconoscono complementari, e nell’armonia dei complementari la persona umana viene veramente valorizzata al massimo.

Il jus ci richiama ancora allo yoga indù, che è unione del individuale al divino e nel medesimo tempo disciplina per ottenere l’unione stessa e l’armonia interiore: e infine al segno del “Tau” che in ebraico vuol dire appunto giogo e si identifica col “tau” greco della croce.

Si parla oggi di interdipendenza tra le nazioni: ma interdipendenza è anche essa concetto relativistico che nulla può avere di sacro; può dare compromesso, non la vera unione realizzabile solo nella dipendenza di ogni nazione da un’unica sovranità

In questa epoca disgraziata è insomma la misura dell’armonía che manca. È un’epoca, la nostra, troppo condizionata dal piano fisico. Con l’andare dei secoli la civiltà della scienza sperimentale ha finito per livellarci al piano della materia e farcene schiavi, per cui non riusciamo più a gioire in Dio se non dopo aver mangiato e bevuto a sazietà. E cioè, non ci riusciamo affatto.

Non a caso oggi, tempo d’esistenzialismo, la sfiducia nel pensiero razionale e nello stesso progresso tecnico è pressoché generale nei giovani: nei quali è più acuto lo stimolo del desiderio; e la schiavitù del bisogno non diminuirà affatto mediante le sole riforme sociali, le quali altro non otterranno se non di spostare oltre l’obiettivo dei desideri umani senza appagarli né lenirli. Eppure si insiste a fare del fattore economico la molla della storia dei popoli. Si insiste su un’Europa del carbone e dell’acciaio anziché tendere all’Europa di Cristo: si insiste a far costituzioni in nome del popolo (di tutti o di nessuno è la stessa cosa), anziché in nome di Dio. E si trascura la sua chiara promessa: «… dove due o tre sono riuniti nel mio nome, ci sono io in mezzo a loro». Io, cioè anche pienezza di gioia e di appagamento.

Sant’Agostino nel De Civitate Dei ci dice che una società cristiana altro non è che una società ove ciascuno è cristiano: ma con questo egli non vuol certo affermare che ciò basti a darci una società cristiana; ed evidentemente sottintendeva che, dove fosse una società di veri cristiani, solo in nome di Dio ogni assemblea si sarebbe riunita, ogni costituzione sarebbe stata emanata. Infatti egli scende a parlare anche di punizioni corporali e perfino di pena di morte, se qualcuno la renda necessaria, perché trionfi l’ordine nel bene: cioè tenta delineare uno stato cristiano nelle sue stesse pratiche istituzioni.

D’altra parte nel mondo cristiano si pone il problema della conciliazione tra pensiero e fede. Ma certamente oggi v’è più bisogno di neopatristica che di neoscolastica. Un ritorno alle Scritture e alla Rivelazione tutta, come centro radiante nella realtà e nella storia del pensiero umano, con la disposizione a prendere di questo ciò che è della Verità e a gettare il resto senza vani sentimentalismi, finirebbe per condurci stupiti a non scartare nulla o quasi nulla, poiché tutto ciò che la storia ci ha dato di positivo è verità in cammino, e come verità è Cristo; solo assisteremmo ad una assoluta novità per i nostri tempi, quella cioè di vedere tutti i valori del passato e del presente armonizzarsi in ordine nuovo. E in quest’ordine, solo allora, cominceremmo veramente a cercare la pace anziché temere la guerra. Infatti non «i valori» sono venuti meno, ma è «il Valore» che nella nostra società ha lasciato un angoscioso vuoto perché disconosciuto dagli uomini. E quei cori angelici dei Sacri Testi e dei Padri antichi, cui neppure i teologi pensano più (salve poche eccezioni), ci danno un paradigma di quella misura armonica che dovrebbe costituire il vero principio della società cristiana: l’unum necessarium, mirando al quale tutto il resto ci sarà dato per giunta.

Attilio Mordini

NOTA

[1] II Papa, vicario di Cristo e del Padre («…chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni, XIV, 9), è ispirato dallo Spirito Santo nella sua infallibilità. Tale attribuzione trinitaria è simboleggiata chiaramente dalla croce papale a tre pezzi orizzontali, mentre le attribuzioni del Padre e del Figlio nella persona dell’Imperatore sono simboleggiate dalla croce a due pezzi orizzontali eretta sul Nord del globo. Tale è la croce di Lorena, e la Lorena (o Lotaringia) costituiva appunto il feudo di diretta pertinenza dell’Imperatore giusta il trattato di Verdun. A due pezzi era pure la croce dello Czar (Caesar), Padre delle Russie, mentre la croce sovrastante il globo dei re constava di un solo pezzo orizzontale. Il re infatti è l’uomo nella sua pienezza; in tal senso la regalità dei Magi d’Oriente.