(Preambolo della Redazione)
Proseguiamo con la riproposizione di alcuni articoli pubblicati, già diversi anni or sono, sulla storica rivista Excalibur. In questa occasione si tratta di un saggio del Prof. Gianni Ferracuti (1953).
In esso, attraverso un’analisi del noto racconto di Chrétien de Troyes intitolato Erec et Enide, l’Autore ribadisce la sussistenza di tutto un substrato simbolico che caratterizza, in filigrana, i Racconti dei Cicli cavallereschi medievali.
Simbologia che, oltretutto, si pone in linea con contesti tradizionali più antichi, a dimostrazione di una medesima derivazione e valenza metafisica.
*****
Da “Excalibur” : Rivista trimestrale di storia delle religioni ed etnosociologia dell’Istituto Romano per la Ricerca Interdisciplinare (Anno II, n. 4, Ottobre-Dicembre 1978)
- La «Gioia della Corte»
In Erec et Enide di Chrétien de Troyes, Erec arriva al castello di Brandigan, inespugnabile e circondato da acque profonde e turbolente. Si tratta di una vera e propria isola caratterizzata dall’abbondanza di ogni nutrimento e dalla presenza di un «passaggio pericoloso», dopo aver attraversato il quale – si dice – nessuno è mai tornato. Qui Erec affronta e supera brillantemente la prova della Gioia della Corte. Si tratta di sconfiggere un cavaliere e suonare un corno appeso a un sicomoro situato all’interno di un giardino incantato, circondato da una muraglia magica di aria impenetrabile e dotato di fiori e frutta in ogni stagione. Al suono del corno il cavaliere sconfitto sarà sciolto dal giuramento fatto a una donna, in base al quale deve uccidere chiunque tenti di forzare il passaggio verso il giardino. Contemporaneamente sarà restaurata la gioia della corte. È quanto in effetti si verifica, per cui Erec è acclamato come «colui grazie al quale rinasce la gioia della nostra corte»: dunque un eroe restauratore.
Un’avventura di tali caratteristiche costituisce un fatto consueto nella letteratura brettone, ma in questo caso particolare il lettore può notare subito una singolarità: Chrétien appare in visibile difficoltà quando deve spiegare in cosa consista effettivamente questa «gioia» e perché è così importante. La soluzione di identificarla con una festa che dura tre giorni appare debole, sia perché nulla avrebbe impedito di far festa anche prima della restaurazione, sia perché altrove la restaurazione della gioia della corte coincide proprio col porre termine a una festa, a una danza inarrestabile, frutto di un incantesimo.
Proviamo dunque a interpretare il testo come versione letteraria di un mito di cui cerchiamo di rintracciare la struttura. Gli elementi fondamentali di questo mito sono:
- a) il castello mitico, la terra di là dalle acque, caratterizzata dall’abbondanza e dall’inaccessibilità;
- b) la prosperità tipica del luogo, visibilmente sospesa: dal momento che si deve restaurare la gioia della corte, è evidente che tale gioia non è più operante;
- c) il passo pericoloso da cui nessuno è mai tornato vivo;
- d) il giardino fatato, zona chiusa dall’interno, zona che conserva la prosperità, la nasconde e si difende. Esso è di apparente proprietà di una dama ed è difeso da un cavaliere;
- e) elementi accessori, come la presenza delle teste mozzate di coloro che hanno cercato di forzare il passaggio al giardino, il legame tra la donna e il cavaliere, che sembra un geis, una sorta di incantesimo, alcuni particolari tipici delle versioni cristiane dei vecchi miti, come l’ora del combattimento. Trascurando questi elementi, cerchiamo di esaminare l’essenziale.
- La terra di là dalle acque
Rintracciare nella mitologia gli esempi che parlano di una sede primordiale, di un’età aurea originaria, sarebbe cosa troppo lunga nell’economia del presente lavoro. Universale è infatti la nozione di un paradiso terrestre, di una mitica Thule da cui l’uomo si è dovuto separare, di un centro interpretabile come fatto storico e come mito, riconducibile alla concezione ciclica del tempo. Il senso di queste immagini è quello di una perdita di una condizione beata, della frattura che interrompe il contatto tra mondo umano e divino, e conduce all’età oscura ovvero a una situazione di caos da cui si potrà ricreare il mondo o rigenerarlo.
Esempi analoghi sono il castello del Graal a cui solo gli eletti possono accedere, e in generale ogni castello o isola o giardino che assumono i tratti dell’inaccessibilità, della stabilità, dell’occultamento, come la città di Ys sommersa dalle acque, o l’isola raggiunta da Brân, con tratti molto simili a quelli che nella tradizione agiografica cristiana viene raggiunta da San Brandano, partito alla ricerca del paradiso terrestre.
È costante anche il collegamento tra la ricerca svolta sul piano cosmico, mirante a riportare la società a una condizione edenica, e la ricerca sul piano individuale, esistenziale, mirante a reintegrare la propria natura umana, limitata e decaduta, in una condizione di piena realizzazione e completezza. La restaurazione dell’ordine tradizionale passa necessariamente attraverso la realizzazione interiore e solo chi è realmente qualificato, solo chi ha realizzato la reintegrazione sul piano microcosmico, può agire sul piano macrocosmico.
- La gaste terre
La decadenza è equivalente alla gaste terre del ciclo graalico: una limitazione dell’auctoritas per rimediare la quale si compie una cerca, un viaggio, una conquista, una spedizione nell’Altro Mondo che, in questi casi, non solo è accessibile, ma ha bisogno che l’eroe vi penetri. La città di Ys si rende visibile una volta all’anno nel giorno di pentecoste ed ha bisogno di chi vi entri; il re Pescatore ha bisogno che Parsifal ponga la domanda; la Bella Addormentata ha bisogno del bacio del principe e il ghibellinismo della venuta del Terzo Federico, che tornerà come Artù, attualmente in convalescenza nell’isola di Avallon.
La tradizione langue, è inoperante, ferita, e di conseguenza il regno è desolato, devastato, reso sterile. La paralisi subita è il frutto di un colpo doloroso, di una lesione che ha incrinato la stabilità del mondo, portando all’occultamento di ciò che prima era manifesto. Nel simbolo si tratta spesso di una ferita alle gambe, eufemismo per intendere una ferita nelle parti virili, cioè una lesione della virilità spirituale, espressa a volte dallo zoppicare. Di zoppi è piena la materia di Bretagna, a partire dallo stesso Artù, per non parlare, in altri contesti, di Efeso e Giasone, del re Pescatore ferito alla coscia, o di una strana figura di re nella mitologia celtica, che gode di tutte le sue prerogative in tempo di guerra, mentre in tempo di pace deve poggiare i piedi sul grembo di una vergine, con un singolare richiamo all’acqua del lago (simbolo di natura femminile) su cui il re Pescatore deve essere trasportato in particolari periodi.
La sterilità della terra è dunque legata al colpo doloroso, e non a credenze naturalistiche basate sul ritmo delle stagioni o sui riti agrari, che appartengono a contesti del tutto diversi.
- Il passo pericoloso
Terra desolata, oscuramento della tradizione, colpo doloroso, concorrono a presentare un quadro in cui manca un solo elemento: il ristabilimento delle condizioni normali, la fine della precarietà di cui si soffre. L’eroe che assolve questo compito non può essere un individuo qualunque, ma deve godere di un’adeguata qualificazione: deve egli stesso aver acquisito la condizione di cavaliere perfetto, la sua personale reintegrazione.
Questa qualificazione viene dimostrata attraverso una serie di avventure preliminari, che nei romanzi tenderanno a moltiplicarsi, ripetendo senza limite gli schemi delle avventure, sfociando nell’attraversamento del passaggio pericoloso, il passo che porta nell’altro mondo, da cui non si torna. È uno schema di morte e resurrezione: non si torna perché si muore e si rinasce in un altro mondo, in un’altra condizione. Si crea una frattura di livello, recuperando una condizione edenica.
Il passo, l’avversario, altro non è che la forza della materialità, il fiume del divenire inesauribile, e il tesoro conquistato nell’avventura, sia esso una dama o la liberazione da un tributo, equivale all’occultum lapidem ermetico presente nelle interiora terrae, nel corpo, cui si arriva sempre attraverso una dura ascesi. Superato il passo pericoloso, l’accesso al giardino è libero: l’eroe è là dove il potere della tradizione si è nascosto in sua attesa. Era perduto, ma continuava ad esistere, lontano dagli sguardi degli uomini.
- Il re dei boschi
Il mito di cui ci stiamo occupando richiama il tema principale del Ramo d’oro di Frazer. Nei dintorni di Nemi esisteva un bosco sacro a Diana, comprendente un santuario e, vicino, un lago. Questo santuario era retto da un re-sacerdote, il rex nemorensis; per conquistare questa carica occorreva strappare il ramo di un albero sacro e uccidere in duello il rex nemorensis in carica. Era possibile diventare re solo uccidendo il predecessore.
Questo culto di Diana fu, secondo la leggenda, introdotto da Oreste, il quale aveva ucciso Taonte, re del Chersoneso Taurico (Crimea), fuggendo in Italia e portando con sé il simulacro della dea Diana Taurica. A questa dea era legato un rituale: ogni straniero che approdava sulla costa taurica doveva essere sacrificato al suo altare. Trasportato in Italia, il culto diventa più mite, c’informa Frazer, dando un’interpretazione forse troppo storica. Infatti la Crimea potrebbe essere una terra in cui l’eroe mitico Oreste compie una spedizione: cioè è l’altro mondo, il regno dei morti, dove ovviamente chiunque arrivi deve essere sacrificato, secondo lo schema morte-resurrezione. Va da sé che il simulacro della dea, che Oreste sottrae nascondendolo sotto alcune frasche, altro non è che l’albero stesso da cui bisogna strappare il ramo: questo gesto non permette di acquisire un diritto al combattimento con il rex, ma è piuttosto una provocazione, un attentato alla sovranità. È un’invenzione degli antichi poco credibile l’identificazione tra l’albero di Diana e il ramo d’oro che la Sibilla fa cogliere ad Enea prima di scendere negli inferi.
Nel santuario di Nemi c’è posto anche per un’altra coppia di dèi: Egeria, ninfa della fonte che forma il vicino lago, e Virbio. Quest’ultimo è Ippolito, il giovane greco amante di Artemide (Diana), morto e resuscitato, nascosto dalla dea nel santuario sotto questo nome, che egli trasmise al figlio. Come già vide Frazer, Virbio è l’equivalente di Oreste e in quanto tale è custode del simulacro della dea, suo sacerdote e rex nemorensis. Il fatto è attestato anche dalla trasmissione del nome al figlio che, come spesso accade, indica una funzione e non una persona. Siccome nulla ci dice che Virbio figlio uccise Virbio padre, è credibile l’ipotesi che l’immolazione rituale del re fosse una messa in scena (almeno giudicando dal nostro punto di vista: per l’uomo arcaico si trattava di un fatto rituale, quindi reale nell’ordine simbolico).
A questo punto il quadro è pressoché completo. A Nemi esisteva un re sacerdote, discendente dell’antenato mitico Virbio, il quale reintegrava periodicamente il suo potere attraverso la riattualizzazione rituale del tempo mitico originario in cui tale potere era stato stabilito (strappandolo a Taonte dall’Altro Mondo). Era una rilegittimazione e una ricreazione dell’ordine, che consentiva di perpetuare il possesso dell’auctoritas che, nella mentalità mitica, non è semplicemente un potere politico: è un potere cosmico, magico, spirituale.
Tutto si rigenera attraverso la notte, il regresso al caos, la temporanea assenza del re che precede la nuova creazione.
- Orge, goliardi e gaste terre
Perché mai la prosperità di un regno dovrebbe dipendere dalla salute del re? Perché il re è il rappresentante del padre celeste, ed ha una potenza speciale che gli viene da lui. Tutto ciò che avviene nella realtà è il dispiegamento di un potere sacro, e l’auctoritas regia è una benefica influenza che porta prosperità nel regno a tutti i livelli: pace, giustizia, ordine, stabilità, felicità. Il re legittimo replica il signore universale dell’età mitica delle origini, e se il suo regno non è quello dell’età aurea vuol dire che la sovranità è limitata, il suo potere è indebolito.
Se la terra non produce frutti, come segno della crisi, non è perché si debba interpretare il mito in base ai riti agrari o perché si debba connettere l’agricoltura con la salute del re, ma perché tutto dipende dal modo in cui è esercitata l’autorità. Potremmo dire che, una volta fuori dall’Eden, l’autorità decade progressivamente ed è necessario rigenerarla periodicamente. L’uccisione del re simboleggia il regresso al caos che, nella concezione ciclica del tempo, precede la creazione. Un’altra rappresentazione di questo ordine di idee si ha nelle orge sacre, in cui si lascia liberamente scatenare ogni forza che noi, con disprezzo, chiamiamo oscura e caotica.
Altro esempio è quello dei re temporanei, cioè dei re che occupano il posto del re legittimo per un breve lasso di tempo: a volte sono caricature di re, con attributi burleschi, il cui regno è accompagnato da simpatici riti orgiastici che preludono al carnevale o alle feriae matricularum. Frazer riporta un esempio di Fez, nel quale i marocchini nominavano un sultano temporaneo che regnava per tre settimane di banchetti e gesta goliardiche.
A Babilonia, alla fine di ogni anno, il re doveva confermare il suo potere prendendo tra le mani l’immagine del dio Marduk. Anticamente questo rito era accompagnato dalla sostituzione del re temporaneo a quello legittimo, con l’inversione per cinque giorni di tutta la gerarchia sociale. Il re temporaneo esercitava effettivamente il potere, godeva delle concubine del re vero, ma poi finiva male: per accedere a questo traballante ruolo veniva infatti scelto un condannato a morte che, terminato l’effimero regno, veniva giustiziato. Ma questo aspetto cruento, a mio parere, potrebbe anche essere una deformazione tardiva.
Per tornare al rex nemorensis, è interessante il fatto che lo sfidante del re deve essere uno schiavo fuggitivo, figurazione forse del caos che si è liberato dalle catene e che nel duello, chiunque vinca, viene ricondotto nell’ordine. Dunque il duello ci richiama l’idea della gaste terre o terra devastata, desolata. La struttura del mito è la stessa: facciamo un salto di parecchi secoli e torniamo ad Erec.
- La gioia della corte
Dunque l’inespugnabile castello di Brandigan, circondato da acque profonde e tempestose, è desolato, essendo venuta meno la gioia della corte. Fortunatamente per il castellano arriva Erec e supera la prova, fornendo elementi di un mito che Chrétien de Troyes non sembra più in grado di capire nei dettagli. Noi, arbitrariamente, lo paragoniamo col mito di nemi e abbiamo queste due serie di elementi:
Nemi
1) rex nemorensis
2) albero sacro con ramo
3) Diana
4) sfidante
5) legame d’amore tra il primo re e Diana
6) culto legato a Diana
7) secondo re figlio del primo
8) Virbio eroe restauratore
9) lo sfidante è uno schiavo
10) il vincitore è eletto re
11) il tutto accade in uno spazio sacro
Erec
1) Mabonagrain (l’avversario)
2) albero con corno appeso
3) donna sul letto d’argento (Luna?)
4) Erec
5) Mabonagrain ama la donna
6) costume istituito dalla donna
7) Mabonagrai è vissuto alla corte del padre di Erec
8) Erec restauratore
9) —–
10) poco dopo Erec diviene re, essendo morto suo padre
11) il tutto accade in uno spazio sacro
La struttura è sorprendentemente identica, anche in aspetti che potrebbero sembrare marginali. L’unica differenza è che Erec, nella letteratura del tempo, non può essere uno schiavo. Ma anche nel caso di Erec gli elementi sembrano suggerire che lo sfidante sfida il padre e ne conquista la donna; ma questo può avere un’interpretazione più profonda: lo sfidante e lo sfidato sono la stessa persona, e il combattimento è interiore. Comunque, a distanza di secoli, nella letteratura cavalleresca ritroviamo con grande precisione uno dei miti più arcaici del mondo romano.
Non è certo Chrétien de Troyes ad aver inventato questo racconto, e sarebbe interessante sapere come sia sopravvissuto questo mito per secoli, tramandandosi in una forma che sembra del tutto estranea alla tradizione latina, che a sua volta non doveva averlo inventato.
GIANNI FERRACUTI
Bibliografia
Eliade, Trattato di storia delle religioni, tr. it. Torino 1976, 2 voll.
Chrétien d Troyes, Erec et Enide, ed. di Mario Roques, Parigi 1952.
S. Marx, La légende arthurienne et le Graal, Paris 1952.
*****
Nota biografica
Docente in pensione di Letteratura Spagnola all’Università di Trieste, Gianni Ferracuti si occupa di studi storico-letterari, traduzioni, letterature comparate e problematiche interculturali.
Dirige la rivista “Studi Interculturali” (www.interculturalita.it).
Tra le sue pubblicazioni, monografie e saggi su José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, il modernismo, il Camino de Santiago e, fuori dall’ambito ispanico, Julius Evola, Ernst Junger, la critica del tradizionalismo ideologico. Ha scritto svariati articoli sulla Cavalleria e la Tradizione apparsi nel corso degli anni su varie riviste dell’ambiente “tradizionalista”.